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INTRODUZIONE
Questo testo intende rappresentare un primo tentativo di ricostruzione complessiva dell’ormai dimenticato periodo alto-medievale, vissuto dalla città di Napoli.
Forse per le obiettive difficoltà di reperire fonti, noi oggi ci troviamo di fronte a un autentico paradosso: conosciamo di fatti la storia della Napoli greca e di quella romana, ma sul cosiddetto “ducato di Napoli” (definizione che utilizzeremo solo per esigenze di sintesi e semplificazione) – peraltro un periodo complesso e lungo oltre seicento anni (VI-XII secolo) – le ricerche e gli approfondimenti sono sempre stati limitatissimi.
Ad esempio, se nel passato (magari per la storia della Napoli borbonica) la storiografia ha spesso utilizzato la categoria della “damnatio memoriae”, per quella del ducato napoletano sono molto evidenti alcuni elementi ulteriori, come la scarsa presenza di fonti documentarie di secondo grado, unita all’assenza quasi totale di tracce archivistiche (scarsissime quelle archeologiche). Se non deriva da tali obiettive difficoltà, la curiosa dimenticanza di un periodo storico così importante potrebbe essere conseguenza di una precisa scelta…
Tutto questo potrebbe essere legato ad una scelta, prima culturale e poi sostanzialmente politica: è qui che si inserisce quel dibattito che si accese, all’indomani dell’unificazione italiana, fra i sostenitori di una cultura italiana e internazionale, e quelli che sostenevano, invece, la necessità di una cultura ancora “napoletana” (nel senso più ampio del termine, associandola cioè all’idea di una nazione napoletana/meridionale).
Da un lato, in realtà, c’erano l’identità, le radici e l’orgoglio: con una storia che partiva dalle remote origini greche della città che, con una sua continuità e una sua coerenza, arrivava fino ai Borbone; e, dall’altro, le tesi post unitarie di chi riteneva inutile, dannoso e superato lo studio di quel percorso, per fare spazio a nuove storie, a nuove radici e nuove identità.
La parte storiografica che reggeva le argomentazioni patriottiche in senso ‘napoletano’, probabilmente riletta come tesi borbonica, dopo il 1860 è stata messa ai margini dei circuiti culturali “ufficiali” ed anche negli stessi libri scolastici; essa ha subìto, negli anni immediatamente successivi sempre al 1860, una vera e propria emarginazione, anche di carattere politico, persino nella selezione delle nuove classi dirigenti. Recenti studi accademici, ad esempio, hanno dimostrato come addirittura alcuni grandi scienziati (medici, astronomi, matematici o geometri) siano stati messi da parte, o in condizione di non continuare le loro carriere, perché accusati di “borbonismo”: questa, a pieno titolo, è anche la vicenda di uno degli storici più importanti che si sono occupati del periodo in esame e che ci ha lasciato una traccia fondamentale per conoscere e approfondire la storia del ducato napoletano, ossia Bartolommeo Capasso.
Autore di diversi e documentatissimi testi in particolare sulla Napoli greco-romana e su Masaniello, diede alle stampe due testi fondamentali: “Monumenta ad Neapolitani ducatus historiam pertinentia” (in due volumi tra il 1881 e il 1895) e “Topografia della città di Napoli al tempo del ducato” (1892, con una preziosa e dettagliata pianta della città). Nel primo caso si tratta di una enorme raccolta di documenti salvati anche dalle distruzioni subite dagli archivi napoletani e pensiamo a quelle della seconda guerra mondiale o a quelle subite, in precedenza, durante il periodo francese con la soppressione degli enti ecclesiastici e dei loro archivi (fino alla sistemazione degli archivi operata dai Borbone con una apposita e moderna legge nel 1818). Nel secondo caso si tratta di un saggio storico con una quantità “impressionante” di informazioni “strette in vigorosa sintesi”.
Grazie a recenti studi accademici (in particolare quelli pubblicati da Mario Del Treppo) il cosiddetto caso-Capasso diventa davvero esemplare. Il maggiore e più accreditato storico del tempo, Benedetto Croce, infatti, espresse più volte il suo dissenso verso gli studi di don Bartolommeo. Queste le sue parole, tra l’altro pronunciate nel giorno della morte dello storico sorrentino-napoletano: “Noi che non per nostro merito viviamo nella vita della nuova Italia, anzi della vita internazionale per partecipare alla quale la nuova Italia è sorta, non possiamo più appassionarci, com’egli s’appassionava, per le imprese di mare e di terra del napoletani del ducato”. Così il Croce “marchiò” come “localistico” o, con un distacco forse sprezzante, un semplice amante del “natio loco” se non “borbonico”, il grande studioso artefice della conservazione e della catalogazione di una grande parte del patrimonio archivistico napoletano per la sua mancata adesione alla nuova Italia e al movimento “liberale”. Significativo il contrasto tra l’idea di “patria” che per Croce era solo quella italiana e per Capasso quella che conosceva meglio e nella quale era nato (quella “napoletana”).
“Nell’intraprendere l’ordinamento dell’archivio municipale e nel continuarlo indefessamente -avrebbe scritto il Capasso- io non ho avuto altro desiderio e non altra ambizione che quella di potere nella sfera delle mie forze e delle mie cognizioni essere in qualche modo utile a questa carissima Patria illustrandone i monumenti e la storia”. Significativa anche la sua reazione, indignata, quando si decise di cambiare il nome alla via Toledo [dal nome del viceré don Pedro da Toledo, che aveva fatto costruire quella strada] in via “20 settembre” (successive le polemiche per il nuovo nome di “via Roma”, sostituito solo di recente, proprio per tornare al vecchio e corretto toponimo).
“Gli ispirava sentimenti di orgoglio la storia del Ducato indipendente di Napoli” – scrive ancora Del Treppo-. Certo, l’intera opera del Capasso non è scevra da taluni accenti municipalistici, che tanto erano cari alla ricca tradizione degli ‘scrittori patri’ ottocenteschi, sempre impegnati a ravvisare nel ducato napoletano la diuturna conservazione della grecità classica, la difesa della romanità contro la barbarie del medioevo, o più in generale a valorizzare l’antichità della città. Ma sono tratti che nel complesso si possono definire come marginali, molto spesso infondatamente amplificati: perché vennero analizzati attraverso gli strumenti interpretativi forniti dal Croce, il quale, in virtù della sua personale opposizione al Capasso (dovuta principalmente a motivi politici) ebbe a denigrare lui e l’oggetto del suo studio, il ducato di Napoli appunto, condannando ambedue a una lunga damnatio memoriae.
Studi ancora più recenti (vedasi l’opera di Monica Santangelo) hanno evidenziato proprio questo aspetto: “l’elaborazione di giudizi, come quello di Croce, sull’angusta dimensione ‘municipale’ della vicenda napoletana, ha gettato un ‘cono d’ombra’ sul passato prenormanno”.
Il nostro dubbio, allora, è più di una semplice perplessità, basata su questa “condanna” del Croce, che ha quasi certamente condizionato gli storici successivi e, di conseguenza, il mancato approfondimento della storia ducale napoletana per l’intero ventesimo secolo.
Così anche per gli aspetti relativi a istituzioni e diritto e alle dirette conseguenze di quegli aspetti (società, cultura ed economia): nella storiografia italiana e anche in quella scolastica, ad esempio, viene sempre (giustamente) dato un ampio spazio all’esperienza quasi coeva dei comuni del Centro-Nord Italia. Considerate le innovazioni e la particolarità dell’esperienza ducale napoletana, non si comprende come essa, finora, non abbia trovato degli spazi (neanche minimi) di analisi e approfondimento negli stessi testi.
Ci piace chiudere queste considerazioni su Capasso con un’immagine. In molti ricordavano don Bartolommeo (amava la doppia “m” napoletana del suo nome, come ci ricordava lo scrittore meridionalista Angelo Manna nella prefazione di un suo libro) chinato, già curvo e con i capelli bianchi, a raccogliere e a baciare di nascosto la terra vicino al monastero della Croce di Lucca la notte prima dell’abbattimento voluto dal cosiddetto “risanamento” (per una illogica scelta urbanistica si creava così lo spazio per il “vecchio policlinico”).
Tornando alla nostra storia, dal punto di vista politico-istituzionale al duca spettavano compiti relativi agli aspetti militari e fiscali, al vescovo quelli relativi agli aspetti liturgici e quelli relativi alle strutture ecclesiastiche e ai monaci e alle monache quelli relativi all’assistenza, alla carità e alla organizzazione rurale alla base dell’economia del tempo. Di primo piano, allora, il ruolo del monachesimo locale che, attraverso i suoi enti di diverse dimensioni, gestiva un potere importante una volta decaduti gli ospedali municipali e “laici” fin dalla metà del V secolo. Anche in questo aspetto emerge una caratteristica che rappresenta forse un “unicum” tra le città del tempo: Napoli, pur nella sua autonomia rispetto a Bisanzio, operò una fusione tra la cultura greca delle sue radici e quella latina. Erano diverse e consistenti, del resto, le comunità ellenofone in tutta la Campania ed era diffuso dappertutto un senso di rispetto e ospitalità verso queste persone che richiamavano, per tanti aspetti, elementi dell’antica Magna Grecia. In questo senso pesava la consolidata tradizione dei traduttori presso gli Scriptoria napoletani e anche quella delle letture e dei canti in greco nelle cerimonie più solenni (uso presente solo a Roma a quel tempo) in un bilinguismo che conteneva implicazioni originali, articolate e affascinanti. Sorprende, come detto in precedenza, il mancato approfondimento di quello che alcuni studiosi hanno giustamente definito “particolarismo napoletano”, un aspetto sinonimo di una dinamicità e di una originalità con pochi precedenti almeno in Italia. Tra altre fonti, la Cronaca di Partenope sostiene la tesi delle sei chiese greche presenti in città e si registra anche una singolare tradizione: la mattina del sabato santo, i primiceri/responsabili di queste chiese erano tenuti a recarsi al duomo per cantare o leggere sei lezioni greche e, a Pasqua, assistere il Cimiliarca (ministro di culto) e cantare il Credo in lingua greca e secondo il rito dei Greci con la riproduzione di alcuni atti comici o facezie dette in latino volgare “squarastase”.
Napoli fu capace, così, di diventare e restare un simbolo della grecità ma una grecità letta, vissuta e realizzata attraverso la latinità con la creazione di nuovi modelli istituzionali, liturgici, linguistici e politici. In questo rivestirono una grande importanza le scelte “autonomistiche” e accentratrici da parte dei duchi, forti di un senso di appartenenza di grande rilievo culturale. E questo discorso si lega profondamente ai fattori locali “identitari” che spesso vengono richiamati (in qualche caso per condannarli o per negarli) anche in tempi recenti. Napoli, allora, come capitale culturale e, in seguito, politica di un intero territorio destinato, nei secoli, ad espandere i suoi confini ben oltre quelli della “città-stato-signoria” ducale.
La storia del ducato, allora, diventa paradigmatica e anche coerente con la storia di una identità che parte dalle radici greche, passa per quelle latine e diventa, poi, tra i Normanni e i Borbone, la base di una “nazione napoletana” che spesso ancora oggi fornisce spunti per dibattiti vivaci e utili.
Perciò ci pare molto significativo un documento nel quale il duca Sergio IV concede diversi beni e privilegi al monastero di San Gregorio «affinché le Sacre Vergini potessero pregare per i loro donatori e per la salute della patria».
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