CONTE ROGERIO SOVRANO DELLA CALABRIA. Novella storica di L.L.B. tradotta per la prima volta dal francese

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Copertina posteriore

L’OPERA TRADOTTA PER LA PRIMA VOLTA IN ITALIA

Questo libro è particolare, fin dalle sue prime pagine. Nella prefazione, l’autore del XVII sec., che conosciamo solo con le iniziali L.L.B., si rivolge a un importante personaggio della nobiltà, la Marchesa di Montfort, e le offre il suo romanzo come una sorta di consolazione. Il suo amato marito è appena morto dopo una lunga malattia.

All’inizio si possono riconoscere i segni caratteristici del romanzo cavalleresco. Questa colorazione medievale trova il suo punto d’origine nei riferimenti alla storia reale: Rogerio è esistito veramente. Nacque nell’XI secolo in Normandia, aiutò il fratello a prendere possesso della Calabria, conquistò addirittura tutta la Sicilia a scapito degli Arabi.

La scelta del luogo però non è casuale: è di grande importanza. La Calabria non è ovunque. Evoca l’altrove e l’esotismo. Questa regione , infatti, racchiude come in un modellino tutti gli antagonismi del Mediterraneo.

Nell’incontro di Rogerio e Marianna la futura sua sposa, che è un po’ il succo del libro, la questione fondamentale è “chi sono io per te e chi sei tu per me”.

Quest’opera richiama un certo tipo di racconti edificanti: una principessa non conosce le sue origini, vive in un convento, incontra un principe, riacquista il suo vero status. Più tardi, suo marito viene fatto prigioniero. Attraversa molteplici peripezie per trovarlo e salvarlo.

Un racconto appassionante su un tema: il ruolo svolto dalla donna, la sua capacità di far sentire la sua presenza in una società, che oggi si definirebbe tout court patriarcale.

Alla Signora Marchesa di Montfort

Presento ai vostri piedi, o Signora, due personaggi illustri, l’uno per i suoi natali l’altro per il suo valore e per la sua nobilitazione, e tutt’ e due famose per le disgrazie di cui la fortuna ha disseminato la loro vita. La Principessa di Capua viene a cercare presso di voi qualche conforto ai suoi mali, piange la prigionia di uno Sposo che l’è infinitamente caro, e voi piangete la morte di un illustre marito che voi avete amato teneramente e nella vostra memoria sarà tutti i giorni prezioso. Poiché la vostra afflizione ha molte somiglianze con la sua, unirà le sue lacrime alle vostre. E come ella trova tutto il suo conforto nel ritorno alla libertà di suo marito, io mi auguro, o Signora, che allo stesso modo voi troviate il vostro, non nel ritorno ci colui che voi piangete, perché dopo la morte non c’è ritorno alla vita; ma facendo una scelta degna di voi, tra tanta gente di qualità e di merito, che tutti i giorni vi offrono i loro servigi, la loro vita e la loro persona. Voi saprete, o Signora, tanto equilibrata siete, non colpevolizzare il travestimento grazie al quale questa generosa Principessa va a liberare il suo caro Sposo dalle catene del Sultano d’Egitto; il vostro estremo dolore, infatti, vi insegna quello che un’anima bella è capace di fare per uno Sposo che ama con tanta sincerità quanto teneramente.
Questo episodio, o Signora, farà rinnovare il vostro dolore e farà scorrere dai vostri occhi nuove lacrime, Ma potevo io, senza essere ingiusto, impedirmi di far conoscere al pubblico, che voi avete costantemente condiviso con l’illustre vostro defunto tutto il dolore di cui il Cielo l’ha tormentato? E che durante il decorso di questa funesta malattia, l’avete confortato e non avete risparmiato né la vostra salute né la vostra vita, ma sempre accanto a lui con sentimenti veramente eroici, avete raccolto gli ultimi suoi sospiri e non l’avete mai abbandonato, se non quando lui vi ha abbandonato per andare nella tomba; inoltre avreste voluto seguirlo in questo triste soggiorno, se uno svenimento quasi mortale e un abbandono totale di tutti i vostri sensi, non avesse tradito il vostro coraggio.
In altra occasione, potrei farvi ricordare i vantaggi della vostra illustre nascita e, risalendo fino ai vostri primi antenati, mi si aprirebbe un campo di lodi estremamente esteso, sottolineando che voi siete l’ereditiera delle virtù altrettanto che del nome di così grandi uomini da cui discendete; ma un momento di dolore non è adatto per discutere di un destino tanto glorioso. Voi siete afflitta e non volete sentire parlare se non di quello che addolora e che nutre il vostro dolore, così che la mia preoccupazione risulterebbe inutile, Si sa, infatti, che il vostro casato è tra i più antichi e illustri della vostra Provincia e che esso ha dato alla Chiesa, alla Spada e alla Giustizia molti grandi uomini, il cui ricordo non morirà mai.
Ma quello che nessuno sa e che io non saprei impedirmi d’ammirare, è il fatto che questa prestigiosa virtù che si vede brillare in voi, non è la disposizione di una donna, che già sulla via del ritorno sul declino, inizia ad abbandonare quelle cose che non le convengono più, perché è in un’età in cui la gente non le perdonerebbe niente. Il vostro comportamento è stato sempre uguale nel fiore della giovinezza e in una grande bellezza, ammirando in voi una virtù molto grande. E’ una cosa incredibile che ci sia al mondo una donna così bella e così saggia in un’età così poco avanti negli anni.
Tutte queste cose, per quanto molto vere, forse non vi potrebbero piacere. La vostra modestia, infatti, vi fa considerare spesso una giusta lode, come adulazione. E io mi stupisco, o Signora, che voi che avete il cuore così grande e che siete tanto generose verso tutti, siete così ingrata verso la natura, che non siete mai d’accordo che vi ha fatto mille doni preziosi e che ha speso per voi i più ricchi tesori, per timore di essere obbligata di renderle grazie di questi favori cos’ rari.
Se io avessi nell’esprimermi la stessa facilità che voi avete a conquistare la stima di tutti quelli che vi avvicinano, prendereste più gusto a leggere questa lettera, ma per mia sfortuna i nostri talenti sono ben diversi.
Quello che voi avete nel conquistare i cuori non ha limiti, mentre quello che io vado a scrivere è di molto limitato. I vostri occhi non trovano niente che possa loro resistere, non bisogna rimanere molto tempo ad essi esposto, per sentirne gli effetti; non si saprebbe avere per voi delle ammirazioni mediocri, che si limitano alla stima, o tutt’al più alle lodi. Non ci si ferma a questo quando vi hanno visto, e voi fate bel altri progressi.
Tutte queste cose nella maniera in cui ve le dico, non sono per voi delle novità; tanta gente di spirito che le vostre manere dolci e coinvolgenti attraggono a voi, le pronunciate molto spesso per non rendervi una noiosa ripetizione, occorre inventare qualche modo di parlare nuovo o quanto meno straordinario; ma quali modi di parlare che non si sono già detti, forse anche in tutte le lingue, o per dire più chiaramente quello che penso, voi non lasciate alla gente né molta libertà di spirito né molta tranquillità di parlarvi con qualche precisione. Se voi foste meno bella il mio discorso sarebbe più chiaro e se io potessi imporre il silenzio al mio cuore, io vi direi delle cose che non vi dispiacerebbero.
La sorte della Principessa di Capua sarebbe felice per lei e gloriosa per me, se voi provaste a leggere le sue avventure con tanto piacere, quanto ne ho avuto io altre volte di vedervi e di ascoltarvi; e adesso io sono addolorato di non vedervi più!
Io non so, o Signora, se siete ben persuasa dell’enormità e della sincerità di questo dolore? Ma vi giuro che la mala fortuna non ha niente di più doloroso per me, per un eccesso della sua crudeltà, mi ha allontanato da voi. Questa assenza è così atroce da rendermi la vita insopportabile e da farmi desiderare la morte mille volte al giorno, come la fine di tutte le mie sciagure e l’inizio di una vita più felice. Niente mi ha fatto soffrire pazientemente le inquietudini che mi divorano, della speranza con cui le inganno che un giorno vi rivedrò e che quel momento sarà il più dolce e il più felice della mia vita. Mi importa poco in quale angolo del mondo io trascorra la vita se la passo lontano da voi. Tutti i luoghi dove voi non ci state, mi sono indifferenti; di tutti i piaceri della vita, non gusto se non quello di pensare a voi; e niente mi tiene impegnato più piacevolmente del ricordo delle promesse di cui vi sono debitore. Io non dimentico, o Signora, né il valore né il modo né le circostanze. E vi confesso che la mia più grande pena è di non poter manifestare i miei veri sentimenti né la sincerità con la quale li provo.
Signora, il vostro umilissimo e obbediente servitore

L. L. B.

Description

IL PADRE DI RE RUGGIERO II ALTAVILLA

Quante sono le motivazioni che ti spingono a tradurre un libro, o a scrivere un libro? C’è buon motivo di credere che esse siano tali e tante da non poterle numerare.
In occasione del nuovo anno 2009, il mio amico François Delolme, con il quale avevamo avviato un progetto sulla comune eredità latina, che coinvolgeva il suo liceo, il Pierre-Caraminot di Egletons (Francia), e il mio, il Pascucci di Pietradefusi (Avellino), mi fece dono di un libro. Si trattava dell’edizione di una novelle historique, libro in lingua francese pubblicato ad Amsterdam nel 1678, e successivamente altre volte ristampato. Io avevo tra le mani l’edizione del 1755, edita sempre ad Amsterdam, della novella storica, o se volete del romanzo storico, riguardante le vicende dei primi Normanni che arrivarono nel Mezzogiorno, intitolata Le Comte Roger souverain de la Calabre Ulterieure. 1
Nella simpatica e affabile lettera, che accompagnava il dono del libro, François Delolme, mio amico di lunga data, con diversi progetti realizzati insieme, così scriveva:
Bon, je sais : presque un mois depuis Noël… Je suis en retard.
Le pire : je n’ai pas exactement trouvé ce que je voulais. J’aurais aimé du plus Campania ou du plus Virgilioque…là, c’est la Calabre dont il s’agit (Quoique pour l’histoire, cela n’a pas grande importance).
En plus, comme tu peux le voir, ce cadeau n’est méme pas neuf…C’est de l’occasion. Don déjà lu.
…Mais quand méme :
En dépit de tout cela, j’espère que tu ne m’en voudras pas trop, que notre amicitié durera autant qu’a vécu le livre.
Et quelle continuera a été aussi extraordinaire que les histoires contenues dans cette histoire de Roger, comte de Calabre.
Bonne année 2009 a toute la famille et à toi !
Meilleurs vœux.
Amicalement.
François

[Bene, lo so : quasi un mese dopo Natale…sono in ritardo.
Peggio ancora: io non ho trovato propriamente quello che volevo, avrei preferito di più la Campania o di più Virgilioque… qui, si tratta della Calabria (comunque per la storia questo non ha grande importanza).
In più, come puoi vedere, questo dono non è per niente nuovo… E’ un’occasione. Un dono già letto.
Quanto meno:
nonostante tutto questo, spero che non ti dispiaccia troppo, e che la nostra amicizia durerà quanto è vissuto il libro.
E possa continuare ad essere così straordinaria come le storie contenute in questa storia di Roger, conte di Calabria.
Buon anno 2009 a tutta la tua famiglia e a te. I migliori auguri. Con amicizia. François]

Sono trascorsi degli anni da quel dono di Natale, ma quell’invito dell’amico François a leggere le vicende dei Normanni arrivati nel Mezzogiorno, non poteva essere ignorato. Così ho letto il libro avuto in dono con l’animo di un lettore del XXI Secolo.
Perché la storia di Roger, riguarda il ruolo che i sessi hanno e la possibilità di cambiarli. Sembrano problemi dei giorni nostri e di tutto quello che sta producendo nella nostra vita il gender.
Ho suddiviso il testo della traduzione in capitoli, cosa che non è nell’edizione originale. L’ho fatto allo scopo di rendere la lettura più agevole, suddividendo la narrazione in episodi, il cui contenuto viene riassunto nei titoli.
L’edizione donatami dall’amico François si compone di due parti. L’edizione originale, però, si compone di tre parti. Non mancherà l’occasione di tradurre anche la terza parte. Per ora accontentiamoci delle prime due. Il libro ebbe molta fortuna ai suoi tempi e anche successivamente. La traduzione italiana vide la luce a Venezia nove anni dopo l’edizione del 1678. I contemporanei leggevano la storia di Roger con interesse perché evidentemente trovavano in essa la storia di un uomo che è combattuto tra il desiderio di gloria e l’amore coniugale, e di una donna che per liberare suo marito prende l’aspetto di uomo.2
V.I.

Il Conte Rogerio, buono o cattivo?

di François Delolme*

* Professore agrégé (abilitato) di Lettere Classiche. Docente nei Licei. Dottore (laurea magistrale) in Letteratura Francese del XIX secolo presso l’Università de la Sorbonne Nouvelle (Paris III). Attualmente dirigente dell’Ecole Sainte Marie (Limassol, Cipro). Appassionato della storia e della letteratura e dell’Italia, soprattutto dell’Italia del Sud.

Questo libro è particolare, fin dalle sue prime pagine. Nella prefazione, l’autore, che conosciamo solo con le iniziali L.L.B., si rivolge a un importante personaggio della nobiltà, la Marchesa di Montfort, e le offre il suo romanzo come una sorta di consolazione. Il suo amato marito è appena morto dopo una lunga malattia, nonostante le cure della moglie afflitta. Ella avrebbe voluto seguirlo nella tomba, «se uno sconforto quasi mortale, e un generale abbandono di tutti i [suoi] sensi non avessero tradito il [suo] coraggio».
L’autore spera senza troppe illusioni che il suo testo riesca, se non a divertirla, almeno a consolarla e non esita a ricordarle le alte qualità che deve alla sua illustre nascita. Lo sa, lo dice: il suo tentativo di sollievo è debolissimo, di fronte all’infinita tristezza di cui è vittima la marchesa, ma glielo offre volentieri.
Da lì in poi il testo prende una piega strana. L. L. B. devia verso altri cieli. Loda così i meriti della marchesa, sottolineando che sono grandissimi. Aggiunge che forse ce lo aspetteremmo da una donna anziana che non ha più futuro: le costerebbe molto meno. Ma, per una donna così giovane, questo è molto sorprendente. Questa marchesa, aggiunge l’autore, ha ricevuto dalla natura «tutti i suoi più ricchi tesori» e di questo dovrebbe essere scontenta, perché avrebbe di che esaurirsi, se dovesse renderle grazie allo stesso livello di grandezza dei doni che le ha potuto fare. Nel contesto del lutto, tale iperbole solleva interrogativi. Lei devia, mettendo da parte il defunto e portando la marchesa sul piedistallo.
L’autore prosegue su questa strada e ammette: il talento della signora «di conquistare i cuori non ha limiti» e lui ne è stato afferrato, conquistato. Poi comincia ad esprimere sentimenti molto personali: «Vi giuro che la mia cattiva sorte non ha avuto nulla di più penoso per me di quando, per un eccesso della sua crudeltà, mi ha strappato a Voi». Sembra dimenticare la situazione della marchesa, ne elogia la bellezza e sembra dichiarare il suo amore: «Questa assenza mi è così dura che mi rende la vita insopportabile e mi fa desiderare la morte mille volte al giorno. Rivederla sarà il momento più dolce e felice della mia vita».
In conclusione, è tutto lì: il testo sembra uno stratagemma. L’autore ha costruito tutto uno stratagemma per cercare di attirare l’attenzione di una donna: «Tutti i posti dove non siete mi sono indifferenti; di tutti i piaceri della vita, non godo altro che quello di pensare a Voi». Cominciando dal partecipare al suo dolore di vedova, arrivando ad adornarla di tutte le qualità, per poi rivelarle il profondo del suo cuore.
Potrebbe essere un amante trafitto? Un audace galante? Non è nemmeno sicuro! In un ultimo cambiamento, conclude la sua epistola con una frase estremamente banale, con questa formula così fredda e così convenzionale…: «Sono, SIGNORA, il vostro servitore molto umile e molto obbediente». L’espressione dei sentimenti più ardenti finisce con la più impersonale delle conclusioni.
L’intero contenuto del romanzo assomiglia a questa introduzione. Non è quello che sembra. L’autore gioca con codici che non esita a trasgredire. Si avvia su percorsi attesi per meglio stupire e intraprendere percorsi sorprendenti.
A sostegno di questa affermazione citeremo brevemente tre elementi che percorrono il testo e che sottolineano questa dimensione del tutto particolare. Proponiamo di analizzare innanzitutto l’idea di distanza, poi quella di apparenza, per arrivare infine a quella di verosimiglianza. Ci interrogheremo poi, in definitiva, sul valore intrinseco del libro: grossolano o fine? Buono o cattivo?
Il testo sviluppa una geografia unica: a volte vaga, ma simbolicamente precisa. Certamente non fornisce molte indicazioni su dove si svolge la maggior parte dell’azione. Qualche città, e una notazione che ricorda che la Calabria è «il Paese più dovizioso del mondo». » Niente potrebbe essere più chiaro. La scelta del luogo però non è casuale: è di grande importanza. La Calabria non è ovunque. Rispetto alla Francia, dove scrive l’autore, si trova molto lontana. Evoca l’altrove e l’esotismo. E soprattutto nel romanzo costituisce un confine, un punto di rottura. Questa regione è, infatti, la convergenza di tre mondi. Racchiude come in un modellino tutti gli antagonismi del Mediterraneo.
Lì troviamo innanzitutto l’Occidente, questo punto culminante della civiltà, che vede vivere gli uomini più coraggiosi e valorosi. Roger, l’eroe del libro, ha tutte le virtù.
«Anche i suoi nemici non potevano non essere d’accordo sul fatto che avesse tutte le belle qualità del corpo e della mente che fanno un Eroe, che fosse maestoso, valoroso, infaticabile, grande Capitano, saggio, buon amico, liberale…».
Solo l’astuzia e la malizia possono sconfiggerlo. Se cade in schiavitù, non deve la sua caduta a un errore o a un’azione militare su larga scala dei suoi nemici, ma a una mancanza di lealtà che indebolisce le sue truppe. Senza inganno non può perdere e il suo coraggio non ha limiti. Durante l’assalto al convento, non esita un secondo: lotta contro un gran numero di avversari, attraversa muri di fuoco, salva una suora dall’annegamento. Incarna quindi un eroe al suo apice.
Di fronte a questo mondo occidentale esistono altre due entità. Soprattutto i Greci. Appaiono all’inizio del libro e sono raffigurati in modo deciso. Una sorta di ritratto in negativo del conte Rogerio. Sono cattivi: amano l’astuzia, la mollezza, la doppiezza. Inoltre, sono persone particolarmente crudeli. Fanno anche costantemente promesse, danno la loro parola. Ma una volta ottenuto ciò che vogliono, rinnegano se stessi e scatenano la cattiveria e la violenza. Rogerio è, come abbiamo detto sopra, vittima dell’imperatore Alessio Comneno che gli fornisce false guide per andare in Terra Santa. Condotte attraverso le montagne più aride, le truppe del Conte di Calabria perdono tutte le loro forze e vengono schiacciate dagli eserciti dei Saraceni.
I Greci appaiono quindi in tutto il libro come spiriti disgustosi dai quali bisogna costantemente diffidare. Sono forse peggiori, perché più imprevedibili, dell’ultima componente dell’etnografia del romanzo: i Saraceni. Questi descrivono un diverso tipo di persona. Il Sultano, la loro incarnazione più forte, mostra un volto disumano. È capace di grande crudeltà: ha degli schiavi che tratta peggio degli animali. I suoi prigionieri cristiani devono tirare l’aratro per lunghe ore nei campi. Soffrono di malnutrizione e di esaurimento. Le loro vite valgono quasi nulla. Ma allo stesso tempo il Sultano è capace di essere accogliente, generoso e rispettoso. Coltiva anche un interesse molto profondo per la musica e le arti. Riceve la principessa travestita da conte tedesco e la copre d’onore per ringraziarla di aver cantato per lui. Come conciliare questi due tratti caratteriali così diversi, la barbarie e la cortesia? Il romanziere ci fornisce una chiave descrivendo i costumi della corte d’Egitto. I Saraceni hanno un modo errato di leggere il mondo. Non capiscono cosa è importante, i veri valori come li chiama la principessa: «Le leggi della nostra religione ci obbligano ad amarci come fratelli».
Per il Sultano l’intrattenimento è più importante del rispetto per gli esseri umani. E in questo, ovviamente, il sovrano ha torto. È un uomo di valore, ma i suoi valori sono distorti.
Infatti, questo modo caricaturale di percepire i gruppi umani vicini fa, al contrario, della Calabria la sede della quintessenza dell’umanità. Questo luogo affronta i suoi nemici e ne emerge ancora più brillante, poiché le sue virtù superano quelle degli altri.
La geografia sembra quindi rappresentare un mondo chiaro e semplificato in cui un gruppo di persone buone ne fronteggia un altro, più malvagio. Tuttavia, questa chiarezza non si trova in tutti gli aspetti del libro. Non si diffonde in modo uniforme. L’opera infatti gioca con il fuorviare, con le apparenze. Gli piace produrre vaghezza e incertezza. Inizialmente sembra quindi seguire le regole di scrittura di alcuni generi letterari ben caratterizzati. Si conforma ai principi di certe correnti o modi di scrittura.
All’inizio si possono riconoscere i segni caratteristici del romanzo cavalleresco. Le conquiste sui Saraceni, il valore individuale di grandi cavalieri, i meriti umani e militari messi in risalto, tutto questo ricorda i romanzi arturiani e le gesta che lì si svolgono. Per riprendere ad esempio, la narrazione del convento in fiamme, Rogerio dimostra estremo valore e grande temerarietà contro i ladri. Salva le donne da una morte tanto orribile quanto certa. Prende solamente su di sé una situazione che si mette molto male: «Il Conte, la cui compassione aumentava man mano che si rendeva conto della maggiore gravità del male, diede con meravigliosa presenza di spirito gli ordini necessari per porvi fine».
Questa colorazione medievale trova il suo punto d’origine nei riferimenti alla storia reale: Rogerio è esistito veramente. Nacque nell’XI secolo in Normandia, aiutò il fratello a prendere possesso della Calabria, conquistò addirittura tutta la Sicilia a scapito degli arabi.
Quindi questo romanzo può essere percepito anche come un romanzo d’amore. I cliché inerenti a questo tipo di scrittura sono numerosissimi. Roger si ripromette di non sposarsi mai finché il caso non gli farà incontrare una giovane, Marianne, della quale si innamora perdutamente. Fatica a trattenere i suoi sentimenti, ma non riesce a contenerli: «Si accorge della sua passione nascente, la biasima e la disapprova, ma l’oggetto che la suscita è così bello che non riesce ad allontanarsene». Seguono poi le avventure classiche di questo tipo di lavoro: gli impedimenti, gli ostacoli che si presentano, -Marianne è suora-, poi le promesse scambiate e il matrimonio.
Quest’opera, infine, richiama un certo tipo di racconti edificanti che risalgono all’Antichità. Una principessa non conosce le sue origini, vive in un convento, incontra un principe, riacquista il suo vero status. Più tardi, suo marito viene fatto prigioniero. Attraversa molteplici peripezie per trovarlo e salvarlo. Lì vengono messe in risalto belle idee e grandi principi morali. La lealtà è lodata. Vi si trovano coraggio e temperanza, soprattutto nelle prime pagine. I virtuosi, nonostante le difficoltà e il dolore, trionfano, mentre i malvagi vengono smascherati o ingannati. Possiamo facilmente paragonare tutto questo, ad esempio, alle opere di Perrault o anche a Daphnis e Chloé.
Tuttavia, se queste ispirazioni sono molto presenti, l’autore non le approfondisce fino in fondo. Surrettiziamente devia e trasforma la storia. Va oltre gli schemi e si avventura in prospettive che minano le sue basi prestabilite.
Quanto al romanzo cavalleresco, il Conte, così brillante, così signorile, diventa un uomo vecchio, schiavo, amareggiato, che trascina la sua miseria nelle catene del Sultano. Ha perso il suo splendore e i suoi valori. «Sul suo volto erano raffigurate tutte le miserie umane e gli orrori della morte. Era uno degli ultimi della sua catena in quanto il più inutile».
Inoltre, a differenza dei romanzi cavallereschi con eroi attivi essenzialmente maschili, il libro, di cui ci occupiamo, cambia paradigma e stabilisce la contessa come il vero personaggio principale per tutta la fine dell’opera. Diventa il personaggio che si coinvolge, che lotta e che risolve la situazione.
È ancora un semplice romanzo d’amore? NO. Una volta celebrato il matrimonio, i due piccioncini non vissero felici e non ebbero molti figli. La coppia si scioglie. Il Conte, stanco della moglie, perde interesse per lei. Lui la rifiuta e i suoi sentimenti si raffreddano rapidamente. Una volta sedotta, si dedica ad altre attività. Quel che è peggio, si convince che lei lo tradisca e finisce per sperare in una cosa sola: assistere al supplizio di lei. La moglie si rende conto «che non troverebbe più nel suo cuore alcuna traccia della sua prima tenerezza». Il loro idillio è finito, fino al capovolgimento finale.
Infine, anche questo non è un racconto edificante. Le lezioni morali svaniscono rapidamente. Il più fedele degli scudieri si rivela un palese traditore. La madre superiora del convento allontana costantemente Marianna da Dio e la incoraggia fortemente a lasciare l’abito perché vede in esso un interesse materiale per la sua abbazia. Il Conte si lamenta continuamente della sua prigionia e rimugina la vendetta contro la moglie, troppo pusillanime per i suoi gusti. E il figlio, andato a cercare il padre, morì senza gloria né successo tra sofferenze atroci, quasi sotto il suo sguardo: «La prigionia […] non fu lunga. La delicatezza del suo temperamento e della sua età, la fatica del mare, il dolore delle ferite di cui era coperto e il poco aiuto che ricevette dai barbari, pose fine, tre giorni dopo il suo arrivo, alla sua vita e alla sua prigionia». Le persone che sembrano essere le più generose finiscono per mostrarsi sotto una nuova luce o non ricevono quasi alcuna ricompensa per le loro azioni virtuose.
Ci rendiamo infatti conto che il libro si diverte a condurre il lettore su false piste. Si mette le mascherine per poterle buttare via meglio. Gioca con i codici letterari per meglio negarli. Fa credere di rientrare in un genere e poi cerca di abolirlo, di snaturarlo. È un romanzo che segue le regole con l’obiettivo di infrangerle.
Questa tendenza a non rispettare i canoni della letteratura romanzesca e a deviare dai generi letterari trova il suo culmine in un ultimo elemento abbastanza sorprendente e sconcertante: l’improbabile. L’autore lo usa più volte. Lo introduce regolarmente e ci si potrebbe chiedere il motivo di tale utilizzo. È per debolezza? È per comodità? Oppure è una volontà deliberata e abile? Il testo, da un lato, cerca di raccontare fatti che toccano la storia, la realtà. Descrive eventi credibili. Offre situazioni che spaccia per possibili. Presenta con precisione personaggi che hanno una vera dimensione umana, con esitazioni, frenesie e persino inclinazioni oscure. Roger, ad esempio, si rallegra per la morte di una giovane ragazza che gli era stata promessa e che non gli piaceva. Suo padre le portò la notizia: “Sarebbe difficile dire come l’abbia accolta. Era infinitamente gentile con lui, ma si sentiva molto imbarazzato. Perché doveva mostrare tristezza nell’occasione della sua vita in cui credeva di avere maggiori ragioni per essere felice».
Ma d’altra parte, in punti specifici, l’autore sceglie di proporre nella sua narrazione scene irreali, impossibili, incredibili. Inserisce elementi che mettono in dubbio la potenziale veridicità del testo. Questi momenti chiave sono essenziali anche perché spostano ogni volta il romanzo in un’altra direzione, verso nuovi sviluppi. Tre notevoli esempi illustrano questo punto.
Il Conte è prigioniero del Sultano. Tutte le missioni di salvataggio inviate falliscono. Per risolvere questo problema, la Contessa fa sapere che non sta bene e che deve ritirarsi a riposare. Intraprese un lungo viaggio verso l’Egitto, raggiunge Alessandria e si attira poi le grazie del sovrano musulmano. Si fa promettere di darle un buon numero di schiavi, riprende il mare con loro, si ferma in Sicilia e ritorna in Calabria… La sua indisposizione, il suo disagio, durano ancora a lungo affinché nessuno a Reggio venga a fare domande. Sembra del tutto naturale. È malata e viene lasciata sola, con una domestica per diverse settimane, anche diversi mesi, mentre è reggente del suo paese, in assenza del marito. Nessun soggetto, nessun ministro pensa di informarsi sulla sua situazione, né si sorprende della sua eclissi. E al suo ritorno «ricevette la visita di tutte le persone importanti della città, le quali credevano che fosse tornata da una lunga malattia, non da un lungo viaggio».
C’è ancora di più. La Contessa si traveste da uomo e, in abiti maschili, parte a salvare il marito. Nessuno, ancora una volta, si accorge dell’inganno. Conversa con molti individui tra cui il Sultano e Rogerio, gira il palazzo di Alessandria, canta persino davanti a un pubblico selezionato e nessuno si accorge che non è un uomo. Ciò permette inoltre all’autore di comporre una scena deliziosa in cui il conte dialoga con la sua controparte, il suo doppio, il conte tedesco, che risulta essere in realtà la sua legittima moglie, la sua altra metà.
Non troviamo la minima traccia di stupore davanti a questa donna travestita da gentiluomo. Al contrario: il suo perfetto cambio di sesso sembra quanto mai plausibile. Non c’è niente che metta «la pulce nell’orecchio». La trasformazione è impeccabile. La guardia che viene a prendere Marianne per portarla all’esecuzione «rimase estremamente sorpresa di trovarla vestita da uomo, o meglio di non trovarla, lei stessa; ma vedere al suo posto il Conte di Salces».
Non fa domande e si precipita da Roger che corre incontro. Lui stesso non si chiede come possa quest’uomo essere lì. Circostanze incoerenti gli si addicono. E sua moglie deve spiegargli esattamente cosa ha fatto per lui e spogliarsi dei suoi abiti maschili affinché lui cominci a capire. Le apparenze sembrano più vere della realtà. La tunica del pellegrino può cambiare completamente un essere e farlo diventare un altro, dargli un’altra natura e farlo passare assolutamente per quello che non è.
Ultimo punto: riguarda i sentimenti tra i due personaggi. Dopo lunghe avventure, Roger odia sua moglie. La considera adultera, ingrata, incapace di fare ciò che dovrebbe per lui. Marianne non riesce a convincerlo e sta per essere giustiziata davanti ai suoi occhi, nel suo palazzo. Capisce che lui non ha compassione e che vuole solo una cosa, cioè vederla morire. Si rammarica di tanto odio cieco: «Protestò più volte della sua innocenza e giurò sulle Sacre Scritture che leggeva spessissimo […] che tutti i delitti di cui era accusata erano presunti e che lei non era affatto colpevole. » Per salvarsi svela il suo sotterfugio e… tutto torna come prima. I dubbi, i rancori e i risentimenti scompaiono come per magia. Tutti gli insulti e le loro inevitabili conseguenze sono stati cancellati. La coppia si ricompone e gli eventi precedenti non hanno alcun impatto sulla loro relazione. E il libro conclude: «Il resto della loro vita fu di continua felicità».
Questa è una cosa molto strana. Tutta l’amarezza scomparve nel momento in cui la Contessa rivelò il suo segreto e si tolse i vistosi ornamenti. Tutto il passato, così pieno di amarezza e violenza, è dimenticato. La parentesi si chiude e non rimane più nulla. Il loro amore, che era andato in frantumi, ritrova il suo splendore originario, senza che si veda alcuna crepa. Si può crederci?
Il Conte Rogerio, Sovrano della Calabria Ulteriore è quindi un’opera sorprendente. È il minimo a cui possiamo pensare. Esitiamo tra il dire che si tratti di un romanzo facile e di basso livello o che, in effetti, è più complesso di quanto sembri. Goffa dichiarazione d’amore o sottile omaggio di un cortigiano? Visione manichea del mondo o immagine di un universo dove l’apparenza, perché è la prima ad essere colta, è parte essenziale della conoscenza? Un romanzo fallito che non sa quale genere perseguire o un gioco complesso, sviluppato consapevolmente per intrattenere i suoi lettori e perderli? Possiamo perderci in congetture. È difficile decidere.
La cosa migliore, secondo me, è lasciare che sia il lettore a giudicare.

indice

Introduzione di Virgilio Iandiorio

Le Comte Roger souverain de la Calabre Ulterieure
di l.l.b.
Alla Signora Marchesa di Montfort

parte prima

1. i Normanni nel Mezzogiorno
2. Carattere di Rogerio
3. Il Conte si rifugia nella solitudine
4. In soccorso delle Suore
5. Il Conte si innamora
6. LA STORIA DI MARIANNA

parte seconda

1. SOVRANO DELLA CALABRIA ULTERIORE
2. Lo scontro con il Papa
3. Una strana profezia
4. Il sospetto di infedeltà
5. La prigionia di Rogerio
6.Stratagemma per liberare il Conte
7. Rogerio si sente abbandonato
8. Il padre davanti al cadavere del figlio
9. Metamorfosi per amore
10. La liberazione di Rogerio
11. Gratitudine mal ripagata
12. Ingiusta condanna
13. La rivelazione finale

Note

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EAN

9788872970997

ISBN

8872970997

Pagine

80

Autore

delolme,

Iandiorio

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Editorial Review

LA STORIA DEL VICARIO DEL PAPA CHE FECE GRANDE LA CHIESA DI ROMA AGGREGANDO E FONDANDO NUOVE PROVINCE DIOCESANE STRAPPATE A BINZANTINI  E GRECI

La Puglia, la Sicilia e la Calabria erano state lungo tempo tormentate da rivoluzioni fastidiose, e oppresse dalla dominazione dei Greci 4 e dai Saraceni quando questi popoli cercarono diversi modi per liberarsi di un giogo che a loro appariva insopportabile. La prima cosa che essi tentarono, fu quella della rivolta; ma questa non riuscì che a renderli più sfortunati. Perché Ortifis, luogotenente di Michele, imperatore dei Greci, dopo aver sedato le rivolte con promesse che non furono seguite da nessun effetto, usò contro i capi delle rivolte crudeltà inaudite. Più di cento tra i primi della nobiltà, furono vittime sfortunate che egli immolò alla sua vendetta. I popoli a cui aveva risparmiato la vita vennero tormentati in tanti modi, tanto che essi invidiarono la sorte dei loro concittadini, che con una sola morte erano stati affrancati da tante miserie. Poiché il paese era il più ricco del mondo e i suoi abitanti molto forniti, vennero vessati con ogni specie di tasse; in questo modo la loro abbondanza stava facendo la loro povertà e la loro sottomissione aggravava la loro oppressione.
I Saraceni che da due anni vedevano questi disordini con piacere, ritennero facile la conquista di queste province, se l’avessero attaccate d’improvviso. Queste erano già come vinte sia dalla tirannia dei Greci che le opprimevano, sia dalla disperazione dei popoli, che non la sopportavano più con pazienza. Ad essi non fu per niente difficile di farsi padroni di molti centri abitati molto molto forti e molto prestigiosi. Dopo che si furono assicurate sicure posizioni più arretrate, tutto il Paese fu esposto alle loro azioni di brigantaggio. Dopo aver saccheggiato e bruciato le case, facevano prigionieri gli uomini e li mandavano carichi di catene ad aspettare nelle città fortificate, o la morte o un congruo riscatto.
I Greci, che per niente erano toccati da compassione alla vista di tanti mali, difendevano la popolazione senza slancio, o se facevano finta di soccorrerla, non era che per spogliarla con più brutalità di tutto ciò che le era rimasto. Ortisis, la cui avarizia era insaziabile, diceva di prevedere bene che tutto questo paese sarebbe caduto sotto la dominazione dei nemici e che non bisognava lasciare loro niente da prendere. Alla fine, i Greci e i Saraceni erano diventati ugualmente odiosi, perché erano allo stesso modo crudeli; essi erano pronti ad abbandonare la loro Patria e di andare a cercare in una terra straniera, una sorte più favorevole.
In quel frangente quaranta Avventurieri Francesi, che avevano lasciato l’Armata vittoriosa, di ritorno dalla conquista della Terra Santa, passarono per la Calabria, decisi a liberarla dall’oppressione dei Saraceni.
Guaimard (Guaimairo) Duca di Salerno,5 fu il primo ad implorare il loro soccorso contro questi Infedeli, da cui egli era oppresso. Non gli rimaneva del suo antico splendore che il nome di Duca e rimpiangeva di aver perduto tutti i vantaggi che gli erano annessi.
I nostri Giovani Francesi, che non cercavano altro se non la fama e gloriose avventure, abbracciarono con gioia un’occasione così bella; scacciarono i Saraceni e riportarono Guaimairo a Salerno, città capitale del suo Stato. Questo Principe ringraziò i suoi Liberatori con mille lodi, e li pregò di dividere con lui i frutti della loro Vittoria; ma poiché essi non avevano combattuto se non per la gloria, non vollero ricevere come ricompensa per una così nobile azione se non l’onore di averla compiuta e fecero ritorno nella loro Patria, molto gloriosi di aver ristabilito un Principe fuggitivo e spogliato di tutti i suoi beni.
Mello, Duca di Bari e Pandolfo Principe di Capua, maltrattati dai Greci tanto quanto Guaimairo lo era stato dai Saraceni, chiamarono per liberarsene, gli stessi valorosi Avventurieri. Ma la Francia essendo diventata dopo poco tempo il teatro di guerra, la stessa ambizione di gloria, che li aveva portati nei Paesi stranieri, li spinse quasi di necessità a portare le armi in favore del loro Re e della loro Patria. Tuttavia la gloria che avevano acquisito in Italia, in soccorso di un Principe prostrato, era apparso troppo evidente che non richiamasse altri Francesi.
Osmondo Drengot,6 soprannominato il terribile, costretto a lasciare la sua Patria, per avere ucciso un Gentile uomo chiamato Guglielmo Ropostel 7 alla presenza del suo Principe, andò con i suoi quattro fratelli e il maggior numero di Amici e Parenti, che poteva mettere insieme, ad offrire la sua spada e la propria persona a questi Principi oppressi. Questi Principi li accolsero con sentimenti pieni di stima, di amicizia e di riconoscenza. Osmondo (Drengot) si mise alla testa della loro armata per andare a combattere quella dei Greci, che erano accampati nelle vicinanze di Capua. Egli si comportò così bene con le sue parole e col suo esempio, che spinse i suoi a vincere o a morire. Gli uni morirono, gli altri vinsero. I Greci abbandonarono il campo di battaglia; e il loro Generale Ortifis, vedendo che niente resisteva ai Vincitori, sfuggì al loro inseguimento e se ne andò rapidamente in Sicilia con i miseri resti della sua armata.
Il sostegno di Drengot Osmond era stato troppo glorioso e molto utile, per restare senza ricompensa. I Principi, avendo visto di non essere in grado di ricompensare il suo zelo e la sua fedeltà, lo pregarono di accettare la sovranità sulla piccola città della Serra (San Bruno).8 Questa ricompensa era insigne per un fuggitivo, ma non era al di sopra del suo merito. Egli rimase affascinato di vedersi diventare sovrano di un paese così bello., sei mesi dopo di essere stato bandito dal proprio. Condivise con i Compagni tutti i vantaggi della buona sorte, così come essi avevano condiviso con lui tutti i disagi nella disgrazia e le fatiche della guerra.
A questa perdita per i Greci seguì subito un’altra più grave e fastidiosa. I Saraceni avevano tolto loro da poco tempo la Puglia e una parte della Calabria. Ortifis , che aveva già due volte provato l’infausto (per lui) valore dei Francesi, credette di ricavare gran vantaggio se li avesse portati dalla sua parte., in soccorso. Era convinto che essi non avrebbero combattuto meno generosamente di quanto i loro Compatrioti avessero combattuto poco tempo prima per scacciarlo e che non avrebbe potuto opporre al furore dei Saraceni se non il valore dei Francesi. Non risparmiò per accattivarseli né giuramenti né promesse di cui era molto generoso e, a dire il vero, ad essi aveva dato solamente giuramenti e promesse.
I più ragguardevoli tra i cavalieri che vennero a porsi sotto i suoi stendardi, furono sei gentiluomini Normanni, tutti figli di Tancredi d’Altavilla.9
Questi sei fratelli avevano già reso famoso il nome della loro famiglia per una infinità di azioni degne di gloria e di trionfo. Fortebraccio,10 il più anziano di essi, li presentò a Ortifis, che si impegnò con giuramento di dare loro la metà delle conquiste, che avrebbero fatto sopra i Saraceni. Egli promise, giurò, assicurò, e non mantenne niente di tutto ciò. Avendo i Francesi fatto progressi al di sopra delle sue speranza, egli venne meno con disonore alla fede data e alle sue parole.
I Francesi avevano scacciato i Saraceni da tutta l’Italia, e la fuga di essi aveva reso ciò possibile: un pugno di Francesi senza altro ausilio che quello del proprio valore, non gli sembrava che fossero temibili. Ortifis credette invece che con qualche donativo, fatto a loro, essi se ne sarebbero tornati al loro Pease molto ricchi della gloria avuta al suo servizio. Ma Fortebraccio non si accontentò di questa politica. L’infedeltà del Greco gli scottava, egli chiese con fermezza il rispetto dell’accordo, che avevano tra di loro stipulato, e protestò di non accettare nessun altro donativo, se non quello che aveva conquistato con la punta della spada.
La sfortuna del Greco volle che egli rifiutasse di dividere con lui (Fortebraccio) le conquiste fatte; e Fortebraccio pensò bene di dissimulare il suo giusto risentimento, fino al momento favorevole per manifestarlo con clamore. I suoi Fratelli intanto diffondevano mormorio e malcontento, con i quali fomentavano molte prese di posizione, così che tutti indignati per l’infedeltà Greca, decisero di punirla con le armi.
I Popoli erano stati trattati da Ortifis con troppa crudeltà e mai avrebbero abbandonato il desiderio della vendetta, così naturale a tutta questa nazione. Essi, infatti, ricordavano non solo con dolore i loro mali passati, ma ne sopportavano tutti i giorni di nuovi, che li gettavano nella disperazione. Essi d’altro canto avevano stima e amicizia per i Normanni, dei quali avevano provato il valore e la clemenza, allo stesso modo portavano odio e avversione per la perfidia dei Greci.
Alla prima occasione, che si presentò di scrollarsi di dosso il giogo degli uni (i Greci), e di innalzare gli altri (i Normanni) sul trono, essi accettarono senza ripensamento tutto quello che si poteva desiderare. Fortebraccio soddisfatto della favorevole disposizione di tanti popoli, ne ricavò prontamente tutto il vantaggio che si era promesso. Si mise alla testa di un’armata composta da Banditi, da Greci disertori e di gente in rivolta, che si ingrossava di giorno in giorno. Inondò la Puglia come un torrente impetuoso. Onfredo con Roberto si gettarono sulla Sicilia con tanta irruenza e fortuna, che Ortifis molto prima apprese la perdita (della Sicilia), che l’arrivo di quelli che la conquistarono.
Rogerio fece toccare la stessa sorte alla Calabria. Infine, sarebbe difficile dire quale di tutti i fratelli, ebbe più fortuna in queste conquiste. Fortebraccio in meno di un mese si vide signore della Puglia, Onfredo e Guiscardo assoggettarono la Sicilia, e Roggero, il più giovane di tutti, si assicurò il possesso della Calabria.
Desolato il Greco da tanti eventi sfortunati, per lui, si decise di fare un ultimo tentativo per vincere la sua cattiva sorte, per riparare alle sue perdite subite, o per perdersi lui stesso. Mise insieme un’armata di tutti quelli che poteva raccogliere Greci e Italiani, e venne in Calabria rischiando in un generoso scontro contro i Normanni, la gloria della sua Nazione e tutto un Regno, che era una parte considerevole dell’Impero d’Oriente.
Teatro di questo crudele scontro furono le rive del fiume Aufidus (Ofanto) non lontano da Canne. Questo luogo era già famoso per la strage orribile che Annibale vi aveva fatto dei Romani. E fu funesto anche per questo Greco, il luogo che era stato glorioso per i Cartaginesi. Questo, infatti, sfortunato Capitano perse la battaglia, il Regno e la vita. Con lui finì la dominazione dei Greci in Italia e innalzò quella dei Normanni, che in verità non fu così lunga, ma il cui giogo fu più dolce e il regno più felice.
Con questa vittoria i Normanni acquisirono tutto il Paese, che era chiamato Magna Grecia, e i sei fratelli che l’avevano conquistato lo divisero tra di loro con tanta moderazione ed equità, che ciascuno di essi rimase soddisfatto della sua parte. Fortebraccio si riservò la Puglia, Onfredo e Guiscardo ottennero la Sicilia, dove tutti e due regnarono molto felicemente, la Calabria Ulteriore toccò a Roggero, il più giovane di tutti, e del quale stiamo per raccontare la storia.