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LO SPOSALIZIO DI GIANGALEAZZO, IL DUCA DI MILANO PIU’ AMATO
Bona di Savoia, moglie di Galeazzo Sforza, sebbene per poco tempo, seppe cosa fosse la prosperitá e visse in tempo di fortuna. Vistosi uccidere crudelmente il marito il 26 dicembre 1476, con la nomina del figlio Giovan Galeazzo a Duca di Milano, ne divenne immediatamente tutrice.
Ne furono avvisati fin dal giorno dopo tutti i popoli soggetti, come i Cremonesi, con una lettera «sottoscritta di mano della Duchessa Bona, et da Cicco Simoneta, nella quale dopoi l’haver dato nuova dell’horribile caso della repentina, e violenta morte del Duca, gli dicono, che per stabilire, e confermare lo Stato in tranquillitá, e mantenere i sudditi nella fede, e divotione, mandava loro alcune proviggioni da fare pubblicare, le quali contenvuano in somma, che ciascuno potesse condurre, e far condurre nella Città di Cremona, e suoi Borghi, vittovaglie d’ogni sorte senza pagamento alcuno di Dacio, perché alli daciari si sarebbe il debito ristoro. Che tutti i prigionieri, et carcerati per debiti, e condannagioni pecuniarie criminali fossero liberamente rilasciati. Che fosse integramente restituito tutto quello che fosse stato estorto a qualesi fosse persona. Che fossero compiutamente soddisfatti tutti quelli che restassero creditori per qualsi volesse causa del predetto Duca morto. E per dar compimento alle suddette cose, s’havessero ad eleggere quattro nobili Cittadini».
Nel 1477 fu poi pubblicato «in nome della Duchessa Bona, et del Duca figliuolo, un bando per cui s’annullavano tutte le condannagioni fino a quel giorno, che fu alli 11 di Gennaro, seguite contra quelli c’havessero tenuto, et usato sale forastiero, et havendo la nostra Città del mese di Marzo fatto ricercare loro l’approbatione d’alcuni capitoli, e dimande, per mezo di Giorgio Pescarolo Dottore di Legge, di Gio. Antonio Mainardo, e di Giovanni Borgo suoi Cittadini, et Ambasciatori, gli ne concedettero la maggior parte secondo le dimande, et il restante con alcune conditioni». «La somma d’alcune delle concessioni fu la confírmatione delli Statuti della Cittá. L’annullatione di tutte le condannagioni fatte dalli Commissari delle caccie nel tempo del Duca Galeazzo Maria. Che l’ufficiale delle strade che dipende dalla Camera, non potesse far cosa alcuna concernente il suo ufficio, senza l’intervento dell’ufficiale della Communitá. Fossero ogn’anno rilasciate dalli agenti della Camera Ducale cinquecento lire alli deputati della nostra Cittá, per spendere nella fabrica del palagio. Che 1’ufficio della guardia del Torrazzo, et del pefare il Sale, che nella Cittá in nome della Camera Ducale s’introduceva, i quali ufficii erano vacati per la morte di Pietro Raspo detto della Penna, fossero della fabrica del Duomo. Non potessero gli hebrei pigliare per i pegni più di danari sei per lira al mese. All’istessa Communitá che ricercava fosse levato in tutto, et per tutto il dacio detto del Torrazzo, imposto giá da Cabrino Fondulo; furono assegnate lire seicento hanno sopra esso dacio. Scrisse la Duchessa per la ricuperatione di Genova, al Vescovo, Commissario, Podestá, Castellano, et ai Presídenti alli negotii della nostra Cittá una lettera del seguente tenore».
Bona, et Joannes Galeaz Maria Sfortia Vicecomes Duces Mediolani, etc.
Rever. in Christo Pater, et dilettissimi nostri.
Havendo noi in questa hora circa 22 havuto aviso per messo ad posta, dall’illustrissimi Governatori dello Exercito nostro che havemo mandato per recuperatione della nostra Città de Zenova, come heri circa xxii hore essendo dicto nostro Exercito proximatoso alla dicta Città, et factosi allo apposito li rebelli nostri, tándem prostigatis, et expulsis ipsi hostibus nostris, cum il nome de Dio, et di S.Giorgio, esso nostro Exercito animosamente è entrato in dicta nostra Città, e transcorsa la Terra, et reducta ad obedientia, et Dominio nostro, del che rendendo infinite gratie ad esso Sig. Dio.
Et per recognoscere questo bene, ne pare, et per questa ve dicemo, et volemo che ne facciate fare solemne processione per tutto el chiericato de quella nostra Città, cum soni festini di campane, et luminosi fallodij, per tri dì continui, come merita questa bona novella, incomenzando ricevuta questa, e così farete fare nelli loci principali del distretto d’essa Città.
Dat. Mediol, die xii Aprilis, etc.1
E’ la stessa Duchessa Bona di Savoia che poi «non solo fu privata del marito per iniqua, et violenta morte, ma ancora essendo successo il figliuolo con titolo di Duca nello Stato paterno, se lo vidde tosto levato dinanzi per morte violenta, de immatura, nella quale non si crede che sentisse tanto dolor d’animo quanto mostrò sdegno allora, che per opera di Lodovico suo cognato vidde scacciato fuori dello Stato di Milano un famigliar favorito suo, onde con cieco furore, ó per questa cagione, ó per vedersi privata dell’amministratione dello Stato, se n’uscì di Milano con coperto disegno di passarsene in Francia, ma gli fu rotto quel pensiero prima che passásse Abbiate, di commissione di Lodovico, et acceleratale la morte con gran sospittion di veleno, et vidde verificato il Pronostico di Cecco Simonetta, Legista famoso, et huomo di gran prudenza, il qual vedendo con quanta imprudenza, et leggierezza ella havesse consentito, che Lodovico ritonasse dal suo esilio a Milano, le haveva chiaramente detto, che per tal venuta ella vi lasciarebbe lo stato, et egli il capo. [E’ cavata questa effigie dall’istessa tavola dove è dipinta quella del marito]. La promessa di matrimonio fra Gian Galeazzo Sforza, Duca di Milano, e Isabella d’Aragona, figlia del Duca di Calabria, fu nell’aria per anni, fin da quando era fanciullo. Aveva solo «nove anni, quando il padre fu ucciso, et benché in cosí tenera etá fosse solennemente coronato come Duca et successore dello Stato, non hebbe però mentre che visse altro, che il nome vano di Duca, essendo stato tenuto sotto pretesto di tutela, quasi sotto custodia, et non solo negatagli ogni commoditá di usar forte alcuna di splendidezza, che lo potesse render caro ai sudditi, ma quello, che più importa, parte per sciocchezza della madre; má totalmente poi per malvagitá del Zio, essendogli stato vietato l’imprendere, et l’essercitare quell’arti eccellenti, che convengono ai Prencipi nei tempi della pace, e della guerra; et avegna, che giongesse all’etá di 25 anni, et havesse una figlia d’Alfonso Re di Napoli per moglie», chiamata Isabella d’Aragona, degno amore di tanta bellezza.2
«Quello che si era stipulato, mentr’essi erano ancora fanciulli, dovevasi effettuare adesso che l’uno toccava i quattro lustri, e l’altra aveva sorpassato i tre».
La ricostruzione di quell’ambiente, fra volti e tracce di fasti, ha affascinato tutti gli storici che si sono imbattuti nel Rinascimento. La Storia delle Signorie di Carlo Cipolla ne è monumento.3
«Il Moro aveva sul principio pensato che con questo matrimonio, mentre secondava il desiderio della dinastia aragonese, avrebbe potuto procacciare il proprio meglio. Il contratto di nozze si segnò nel Castel Nuovo di Napoli, addì 22 dicembre 1488, essendo procuratori dello Sforza, Ermes Sforza e Gian Francesco da Sanseverino.4
Subito dopo Isabella, i milanesi che erano venuti a riceverla, e la sontuosa comitiva che l’accompagnava, fecero tutt’insieme vela per Genova. Da qui si avviarono verso Milano».5
Corio, contemporano a fatti e personaggi, chiamò «inaudito» l’apparato messo su per quell’evento nazionale.6
«Il 1° febbraio 1489 la giovane e bella napoletana fu accolta nel castello milanese e si celebrò il matrimonio. I festeggiamenti pomposi erano questa volta uno scherno: ed Isabella si trovò infelice dove avrebbe avuto il diritto d’essere rispettata ed amata. Il Moro quando cominciò a sospettare che Isabella fosse incinta, raddoppiò la guardia intorno al Duca, quasi prigione nel castello di Pavia».7
«Isabella era donna coraggiosa e saggia, ma suo marito Gian Galeazzo, se era d’indole mite ed egregia, se era animato da buoni sentimenti, tuttavia mancava d’ingegno, e d’abilità nell’esercizio degli affari. In ciò sta la spiegazione della possibilità del tradimento del suo tutore, ed in ciò consiste pure la scusa ch’egli adduceva a quelli che gli avessero domandato conto di quanto faceva».8
Lui era il passato e l’avvenire, ma non seppe sfruttare i suoi tempi, né capire dove andasse il mondo.
«Se avesse avuto un raggio soltanto del genio del suo omonimo Visconti, la storia avvenire di Milano ed insieme forse quella di tutta Italia sarebbe stata diversa. Isabella scrisse a suo padre ed all’avo implorando soccorso: ma la sua lettera non ebbe altra conseguenza che di dividere sempre più la famiglia aragonese dal Moro. Ferdinando mandò a Milano Antonio e Ferdinando da Gennaro, ma essi non ottennero da Lodovico se non questa risposta sdegnosa: — Dello stato io tenni sempre le cure, e a Gian Galeazzo riservai solamente gli onori».9
La prevista nascita del figlio di Gian Galeazzo fece pentire il Moro d’avergli concesso una sposa così amena, insperata e degna solo di un vero principe come lui, al quale, non restava che scegliere una donna altrettanto elegante e bella e di stringere i rapporti con Ferrara.
Ecco perché «determinossi allora d’assicurare il proprio avvenire ammogliandosi anch’egli. Scelse la sposa nella famiglia estense: nessun potentato gli era più amico di quello di Ferrara. Si stabilì un doppio matrimonio: il Moro sposò Beatrice figlia di Ercole Duca di Ferrara, e diede al primogenito di quest’ultimo Anna, sua nipote, sorella di Gian Galeazzo Sforza. Le nozze di Beatrice si celebrarono nel gennaio 1491. La presenza dell’ambiziosa donna, che s’interessava perfino degli affari di stato, ed era gelosa della vera duchessa Isabella, accrebbero le amarezze di quest’ultima ridotta a vivere col marito in dolorose ristrettezze a Pavia. Beatrice era amante della pompa e del lusso. Educata a Ferrara, aveva vivissimo nel suo cuore lo spirito del Rinascimento. La corte milanese da quel momento fu piena d’ilarità e d’opulenza; fastosissimo il lusso, perpetuo lo splendore della liberalità, ogni cosa magnifica e grande. Tornei, giostre, rappresentazioni, nelle quali le macchine erano preparate dalla mano di Leonardo da Vinci, rallegravano senza intervalli la famiglia degli Sforza».10
Fra dicembre e il medesimo gennaio del 1491 nacque però l’erede, che prese nome dal suo bisavolo, Francesco Sforza. Giangaleazzo ebbe da Isabella «un picciolo figliuolino, non poté egli però mai haver in mano le redine dello Stato suo, né dar di se faggio alcuno. Fu dunque questo giovane veramente misero, et infelicissimo, quasi sopra d’ogni altro Prencipe. Má l’etate acerba, et la qualitá della education sua, non gli lasció cosi á pieno comprendere la miseria della sua condicione. Dicono però, che trovandosi in Pavia infermo, et vicino á morte, essendo visitato da Carlo Re di Francia, gli disse, che sentiva la violenza del veleno, che gli toglieva la vita. Onde come a Re parente, et Signor suo, con tanto affetto gli raccomandó il suo picciolo figliuolo, che gli trasse le lagrime da gli occhi, né fu vana in tutto tal raccomandatione, poiché dalle medesime arme francese fu aspramente vendicata la morte di quello innocente [Vedesi questa effigie stampata ne’ dinari d’oro, et d’argento]».11
Sono descrizioni incredibili, che gli autori dei secoli scorsi trassero direttamente da episodi coevi.
«Assai malamente giudicheremmo gli uomini dell’epoca presente, se levassimo dal loro labbro il sorriso, ora scettico e beffardo, ora gioviale e buono, e volessimo raffigurarci i tiranni, di cui deploriamo le opere malvagie, quali uomini nei quali dallo sguardo sempre tetro, e dalle chiuse abitudini della vita si manifestasse la perversa loro anima. Se vogliamo vederli, non dobbiamo andarne in cerca in oscure e segrete stanze in fondo ad un castello: li troveremo invece sulla piazza, fra i tripudi, le feste, le pazze allegrie, circondati dai poeti e dagli artisti, e talvolta anche dai filosofi e dai filologi».12
Isabella, «per bellezza di corpo, et d’animo degna di prospera fortuna, dopo’ le nozze infelici con Giovan Galeazzo, figliuolo di Galeazzo ucciso dai congiurari cascó in tanta calamità, che fu poi, mentre visse, essempio di malavventurata Principessa. Imperoche con vano nome di Duchessa fu compagna delle miserie, et delle angustie, nelle quali sotto specie di tutela era tenuto il marito per iniquitá del Zio; né qui si fermó l’impeto della suá trista sorte, peroche in un tempo istesso vide privarsi del marito per forza di veleno, et il padre spogliato del Regno dall’arme francesi, per cumulo de gli infortunii suoi si vidde cader di mano ogni speranza, che il picciolo figliuol suo potesse haver adito allo stato paterno, poi che, oltra che quasi nel medesimo giorno che morì il marito, fu usurpato il titolo con le insegne di Duca, da Lodovico; dopoi alcun tempo, il detto suo figliuolo herede della disaventura di lei fu condotto in Francia dove in vita monastica tosto finì la vita sua [E’ cavato il ritratto d’Isabella da una medaglia di metallo].13
Pochi anni prima, vivendo ancora il padre di questi, Giovan Galeazzo detto Giangaleazzo, lo zio Ludovico Sforza, «con titolo di tutore, governó per alcuni anni lo Stato di Milano, ancorche quel suo governo fosse piutosto assoluto Principato. Ma sospectando poi che non gli fosse mosso guerra da Alfonso Re di Napoli, suocero di Gio: Galeazzo, per liberare il genero dalla strettezza ín che lo teneva esso Lodovico, levó di vita l’infelice nipóte con veleno, il che non solamente fu da tutt’Italia creduto, ma publicamente affermato da Teodoro da Pavia, medico regio, qual si trovó presente alla visita che in Pavia gli fece Carlo VIII Re di Francia». Morto quindi Giangaleazzo, il «picciolo figliuolo di cinque anni, dai principali del Consiglio Ducale, da lui subornati fu gridato Duca, con pretesto che in tempi pericolosi lo Stato dovesse porsi in mano di persona atta a difenderlo. Tenne adunque per alcuni anni lo Stato con titolo di Duca, adoperando l’astutia, et l’ingegno piú che l’armi. Et per liberarsi in tutto del sospetto c’haveva del Re Alfonso, corrotti coi doni, e promesse grandi i baroni di Carlo VIII Re di Francia, indusse quel Re bellicoso, et inquieto, a calare in Italia all’acquiato del Reame di Napoli; il che aperse la porta alle infinite calamità, le quali sentì poscia l’Italia, et finalmente causò la total ruina d’Alfonso, et di se stesso, poiché in poco spacio di tempo quegli rimase spogliato del reame, et esso privo dello Stato di Milano, fu condotto in Francia dove si morì miseramente prigione [Vedesi la sua effigie nella tavola dell’Altar Maggiore in S.Ambrosio al Nemo, in Milano].14
Isabella, divenuta vedova di Gian Galeazzo Sforza, studiò come rafforzare il suo dominio in Milano, offrendo la figlia Bona, prima a Massimiliano e poi a Sigismondo di Polonia. Campi raccontò i fatti accaduti a Cremona, come Coiro nel resto del Ducato.
«A Pavia, con i poveri figliuoletti vestiti di bruno, come prigioniera si rinchiuse in una camera et gran tempo stette giacendo sopra la dura terra che non vide aria. Dovrebbe pensare ogniuno l’acerbo caso della sconsolata duchessa, et se più duro havesse il cuore che diamante piangerebbe a considerare qual doglia doveva essere quella della sconsolata e infelice moglie, in un punto vedere la morte del giovanetto et bellissimo consorte, la perdita di tutto il suo Imperio, e i figliuoletti a canto orbati di ogni bene; il padre e ‘l fratello con la casa sua cacciati dal Reame di Napoli, et Ludovico Sforza con Beatrice sua moglie haverle occupato la Signoria».15
«Benedetto Dei, fiorentino, molto viaggiò per affari di commercio, per ragioni militari, per motivi politici. Fu a Milano negli anni 1471, 1475 e 1481, e quindi vi si fermò a lungo; la corte sforzesca, che faceva alta stima dei letterati, lo proteggeva. Partitone, vi fece ritorno ancora nel 1484; v’era nel 486 e nel 1487; morì a Firenze il 28 Agosto 1492. È un curioso tipo di cronista, o piuttosto di gazzettiere, il quale peraltro univa la eleganza del letterato, alla coscienza dello storico. I suoi avvisi erano concepiti sul tipo di quelli del sec. XVI».16
Come Benedetto Dei, anche Cassandra Fedele, assai celebrata dagli umanisti, fu in relazione con Ludovico. «Questi suoi buoni rapporti col Moro li conosciamo ora per mezzo di due documenti degli anni 1493 e 1494».17
Alla sua corte, inoltre, visse Gaspare Visconti, poeta non ordinario, del quale parlò il Renier.18
Sabato Cuttrera
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