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COSì FERRARA IMPORTO’ IL RTINASCIMENTO DA NAPOLI
La «regina» del Ducato Estense
Beatrice fu la figlia che Ferrante I di Napoli, nei suoi giochi di interesse dinastico, voleva destinare a Carlo VIII. Alla fine cadde nel tranello del cugino spagnolo, Ferdinando il Cattolico, il quale, non solo gli usurpò mezzo regno, ma incamerò anche la parte che si presero i Francesi, sposando in seconde nozze Germaine de Foix, la principessa che l’ebbe ereditata.
Carlo VIII, giovane rampante della casa reale di Francia, non solo si erudì sui tomi rastrellati nel palazzo reale di Napoli durante l’invasione, ma divenne sovrano senza alcun matrimonio di interesse in stile aragonese. Anzi, mentre «esercitava il potere assoluto in Francia, spinto da ambizioni chimeriche e dalla sete di avventure, aveva già varcato le Alpi con una parte del suo esercito».
Ad ogni modo Beatrice, nel 1475, aveva già sposato per procura Mattia Corvino detto Hunyadi, «il Giusto», neoeletto Re di Ungheria. Dopo le nozze, celebrate a Napoli dal cardinale Oliviero Carafa, la Regina non mancò di cavalcare col padre per i seggi cittadini, lanciando qua e là monete d’oro. A 19 anni fu già immortalata nel marmo da Francesco Laurana, poco prima del suo favoloso viaggio di nozze. In Ungheria Beatrice porterà con con sé molti dei preziosi tomi miniati dalle botteghe napoletane, trasferendo il Rinascimento alla seconda biblioteca d’Europa. Cinquemila codici realizzati prima del 1500 per una corte che abbandonava messali e corali a favore di libri luminosi e decorati, come quelli sulla vita di Plutarco e di Sant’Agostino, o sul trattato di galanteria che Diomede Carafa scrisse apposta per lei «per essere una buona principessa». Testi preziosi personali e avuti in regalo dal nonno il Magnanimo nel 1472, come Epistulae e De Officiis di Cicerone, giunti a rimpinguare la Biblioteca Corviniana del marito, amico di Lorenzo de’ Medici, il quale si ispirò proprio alla Corviniana «per ideare la sua celebre biblioteca in Firenze. La corte del palazzo di Buda e Visegrad, diventano gradatamente italiani con quel tocco partenopeo per le lettere, il bello, e ovviamente la cucina», come scrive Rossana di Poce. Da Napoli non si trasferì solo l’arte e la cultura, ma anche la cucina, il piacere del palato e delle buone maniere, allorquando a corte arrivarono «cuochi e pasticceri, pietanze e splendide maioliche di gusto napoletano e rinascimentale, a rallegrare i palazzi fino ad allora estremamente austeri», così come la stessa Beatrice raccontava e scriveva di continuo alla sorella Duchessa di Ferrara, alla quale spediva consigli e merci per la felicità dei nipotini.
Tornata a Napoli alla morte del marito, per essere stata ripudiata e raggirata dal pretendente ceco di Boemia, assisterà alla fine del regno, con la distruzione francese di Capua, quando «i Napoletani, impazziti dalla paura, non osarono più nemmeno sognare di alcuna resistenza. Sin dal giorno susseguente cominciò l’esodo degli abitanti di Napoli alla volta d’Ischia, di Sorrento ed altri luoghi vicini. Beatrice si rifugiò in compagnia della Duchessa Isabella di Milano il 26 luglio su d’una galera a Ischia, dove furono presto raggiunte dalla Regina Isabella di Napoli, da tutta la corte e da una parte della nobiltà; solo le due Giovanne, vedove dei due Ferdinandi, la sorella del Re di Spagna alleato del nemico, e sua figlia omonima ripararono a Palermo, quindi su territorio spagnuolo». A Ischia restò invece Beatrice con la «vedova del Duca di Milano: erano detronizzate tutt’e tre, poiché la Regina Isabella era privata del suo consorte condotto ad un asilo che somigliava piuttosto ad una prigionia dorata. Le due Isabelle però erano meno da compiangersi che Beatrice, perché aveano dei figli di cui alcuni si trovavano al loro fianco, mentre per gli altri potevano almeno sospirare; la Regina avea con sé tre figliuoletti maschi e la Duchessa due figlie, delle quali però la maggiore, Ippolita morì in Ischia di lì a poco». Dopo la guerra, col dilagare della peste, rientrarono tutte a Napoli, protette dal generale spagnolo Consalvo de Cordova. Il vicariato affidato dal Re di Spagna alla sorella Giovanna d’Aragona, ex Regina e matrigna di Beatrice, aiuterà poi la corte a riordinare le proprie cose per la consegna ufficiale del reame agli Spagnoli. Fu così che tre sirocchie, «vedove e spodestate tenevano corte in questo tempo contemporaneamente nel Castello Capuano. Tale spettacolo non poteva non eccitare l’immaginazione dei poeti che celebrarono in versi elegìaci questa Corte delle tristi Regine. L’illustre filosofo italiano Benedetto Croce descrisse esso pure sotto tale titolo nell’Archivio Storico Napoletano, questa romanzesca riunione». La pace fece fece anche «rifiorire in quell’epoca i costumi ed i passatempi dell’antica vita cavalleresca. Le feste, le giostre, le escursioni di caccia tornarono in moda e le donne ridivennero, come prima, oggetto di venerazione degli uomini. Né si poteva chiamare sempre triste la corte di queste regine».
La morte di Beatrice fu agli atti di Notar Giacomo.
Così il cronista: — Adì X III del mese di sectembre XII indictionis 1508, de mercoredi ad hore 13, la Serenissima madonna Beatrice de Aragona, Regina di Ungheria, secundo piacque adio passò da questa vita in lo castello de capuana quale era stata per più dì delle Signore Regine, matre et figlia, al governo et quello dì stecte in una camera.
Stesa vestita de bianco de taffeta con la corona sceptro et palla in mano et conio palio de broccato dereto et quella la guardava la Signora Regina iovene et la sera ad nocte le levaro le interiora secundo lo solito. Et adì 14 eiusdem die ìovis fo posta in uno tavuto et fo facta la castellana in lo monasterio de sancto Pietro martiro dove nce foro dece confratrie, tucte le religioni excepto sancto Martino, et tricento vestiti de nigro et scanni dece de intorze appresso lo corpo et in omne scanno 22 et 25 intorze dove sopra lo tavuto nce era la corona et lo sceptro et palla.
Et lla fo facto lo officio et sepulta per la regia corte del Signor Re, la quale havea facto testamento per mano de notaro Francisco Russo et laxati soy heredi li serenissimi figlioli del Signor Re Federico et laxó quindece milia ducati per la fabrica de sancto Piero de Roma et più altri.
La quale con grandissime lacrime fo sepellita perchè nutriva in Napoli 600 persone senza le elemosine delli monasteri et laxò bono nome.
— «Cuius anima cum sanctis angelis requiescat in pace amen».
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