MARIA DEGLI ÁRPÁD-HÁZI. DONNA REGINA E LE CHIESE NAPOLETANE DEL TRECENTO – II parte Maria d’Ungheria – EAN 9788872973882 (off.lancio EURO 26,00 – cart.44)

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MARIA DEGLI ÁRPÁD-HÁZI,
FONDATRICE DEI MONASTERI DI DONNA REGINA IN TUTTO IL REGNO

[Émile Bertaux] Santa Maria Donna Regina.
— Qual nome più nobile di questo per una chiesa in una poesia o in una leggenda? Ma nella storia quale fu il significato preciso dell’augusto titolo; e chi fu la Regina?
Gli scrittori del Cinquecento, che furono i primi ad abbozzare la storia delle chiese napoletane, come Pietro de Stefano, Giovann’Antonio Summonte, Angelo di Costanzo, credettero che il monastero di Donna Regina fosse stato edificato a fundamentis da Maria d’Ungheria, moglie di Carlo II d’Angiò; e che fin d’allora il pio luogo avesse preso il duplice nome della Vergine Maria, che ne era protettrice, e della regina Maria, che ne sarebbe stata fondatrice. Quando dunque si leggeva o scriveva Monasterium Sanctae Mariae Dominae Reginae, si doveva intendere: Santa Maria della Signora Regina.
Ma Cesare d’Engenio, l’autore della Napoli Sacra, s’accorse che il monastero già esisteva con identico titolo nei primi anni del regno di Carlo I d’Angiò, cioè quando Carlo, suo figlio, ancora non aveva sposato la figliuola del re d’Ungheria, Stefano IV. Così il De Lellis, allorchè s’accinse a redigere le sue preziose Aggiunte Manoscritte al libro del d’Engenio, dovette cercare a sua volta pel nome di Donna Regina un significato diverso da quello dimostrato erroneo dai documenti. E si fermò all’ipotesi più naturale, cioè, che tutto il titolo si riferisse alla Madonna.
«Giudicar si potrebbe, egli soggiunge, che (il Monastero) così si chiamasse per lo titolo anche attribuito alla Madre Santissima di Dio, di Sovrana Regina del Cielo e della terra e di nostra Signora, pigliandosi il titolo di Donna Regina per Signora, tanto più che la chiesa è dedicata a Santa Maria dell’Assunta».
Dunque, secondo il De Lellis, noi dovremmo tradurre, non più Santa Maria della Signora Regina, ma « Santa Maria Signora e Regina ».
La questione si potrebbe dire risoluta, se negli atti pubblici e privati il nome del Monastero si trovasse scritto in questa forma. Ma ecco che in un documento del milletrecentoundici si legge: Monasterium Sanctae Mariae de Domna Regina, e in un documento del millesessantasei Sancta Maria de Domna Regina. Sarebbe dunque dovere. tenersi a questa forma, ch’è la più antica, ed abbandonare senz’altro l’opinione che vede nelle parole Donna Regina un titolo onorifico aggiunto al nome della Vergine Maria. Ma dove trovare nei tempi del Ducato Napoletano e dell’ Impero greco la regina che avrebbe imposto al monastero il suo nome?
Conviene quel nome cercarlo ancora più lontano, innanzi al mille. Attesta una pergamena del 780, conosciuta solamente per un riassunto del 1600, che esisteva in quei tempi, proprio dove sorse la vecchia chiesa di Donna Regina, una badía di Vergini col titolo di San Pietro del Monte di Donna Regina.
[Sicilgaita humilis abbatissa puellarum Dei monasterii Sancti Petri de Monte Domne Regine in bicolo Curtis Turris prope menia civitatis Neapolis. Anno DCCLXXX imperante Domino Constantino Porfirogenito Magno Imperatore, nec non D.na Irena ejus matre. Die XX Madii Indict. XIV Imperii anno]
E il nome primitivo così riferito lascia intendere ch’era quello della posseditrice del luogo dove la badía fu eretta. Quel monticciuolo doveva essere chiamato nel comune linguaggio monte « de domna Regina », di una signora cioè così denominata, i cui beni estendevansi sopra quella collina. Il nome di Regina era assai comune in Napoli, e più tardi si trova in varii documenti dell’epoca angioina.
Il titolo quindi di « Santa Maria Donna Regina » vuol essere considerato simile a quello di tanti altri monasteri fondati in Napoli all’epoca del ducato, che presero nome da località nobiliari, come « Santa Maria ad Albinum » e «Sant’Arcangelo a Baiano ».
Se non che quello di cui parliamo, ritenendo l’antico nome « de domna Regina », unito all’altro che gli fu dato quando venne posto sotto il patronato della Vergine Maria, valse a dare sfogo a tutte le fantasticherie popolari e forse erudite, prima ancora che intervenisse una regina della casa d’Angiò nella sua storia.
Si può credere anzi che le monache stesse non sapessero più dell’ umile significato topografico donde aveva avuto origine quello splendido nome; come, in Napoli stessa, avvenne anche del monastero detto di «Santa Maria de domna Galatea» e di quello di «donna Romita» che, eretto da una pia donna chiamata nei più antichi testi «Aromata», in seguito fu creduto opera di certe donne « romite ».
Così per rintracciare le mutazioni ed i diversi significati del nome di donna Regina, abbiamo dovuto spingerci indietro dal decimoquarto all’ ottavo secolo; ed ora per seguire le vicende del Monastero, scenderemo da quell’antichità oscura fino ai giorni nostri.
I documenti che permettono di ricostruirne la storia si trovano dispersi in alcune monografie d’ ineguale valore. La prima fu scritta nel 1862: quando l’autore, il sacerdote Zito, per difendere i diritti del Monastero, già minacciato di soppressione, raccolte in un riassunto le tradizioni che ad esso si riferivano, citò qualche diploma angioino o aragonese che rammentava la protezione data alle monache dai sovrani di Napoli. Due anni dopo, compiuta la soppressione, Luigi Settembrini, a proposito degli affreschi allora scoperti, mise a stampa un opuscolo, nel quale, tra le altre erronee notizie, asserì che le monache di Donna Regina, all’epoca sveva, si trovavano ancora ascritte all’ordine Basiliano. Ma ben poco ci volle a confutare le immaginose supposizioni dell’illustre patriota e letterato; e noi dobbiamo alla polemica allora suscitatasi una vera monografia del Monastero e della Chiesa scritta dall’erudito abate De Pompeis; la sola, che sia fondata sopra documenti certi, raccolti dagli annali del Wadding, dagli scrittori napoletani, da un primo lavoro del Minieri-Riccio. Il quale, credo nel 1878, cominciò a pubblicare tutte le notizie relative a donna Regina rinvenute hegl’ inediti Notamenti del De Lellis. Lo scritto, edito per la prima volta nel periodico «la Carità Italiana», fu anch’esso ristampato a parte, con qualche aggiunta, ed ho potuto (a stento) trovarne un esemplare, che m’ha fornito un elenco preziosissimo di testi autentici.
Questa serie d’opuscoli, tutti diventati rarissimi, formerebbero l’intera bibliografia del Monastero monumentale, se non si dovessero ancora ricordare un articolo del signor avvocato Giuseppe Fornari, dove, per la parte storica, si trovano riassunte con chiarezza le notizie date dal De Pompeis, e un fascicolo pubblicato da Demetrio Salazaro, dove vengono citati alla rinfusa parecchi documenti angioini, che non hanno nulla da fare con Donna Regina…
Oltre questi opuscoli stampati, m’ è riuscito, nello svolgere le Carte dei Monasteri soppressi all’Archivio di Stato di Napoli, trovare una Platea del Monastero di Donna Regina, redatta nel 1707, preceduta da un interessante compendio della sua storia antica, con riassunto di documenti, e specialmente di bolle pontificali, che più non esistono. Si troverà la pregevole compilazione qui pubblicata in appendice. E confrontando le notizie forniteci da questa Platea coi documenti citati dal De Pompeis e dal Minieri-Riccio, si possono stabilire i diversi periodi dello sviluppo del Monastero, del quale solamente i primordii rimangono nell’ombra».

[Del Giudice]
Nel 1295 fu il Monastero di Terramaggiore dell’ordine Benedettino, per volontà dei Pontefice conceduto ai Templarii, e però il Generale di quest’ordine richiese al Re di essere assicurato di tutti i beni feudali, già posseduti da quell’antico Monastero.
Ciò leggasi nel seguente diploma di Maria Regina di Gerusalemme e d’Ungaria, moglie di Carlo II.
– «Maria dei gratia jerushalem et Ungarie Regina etc. – Scriptum est… justitiario Capitanate, devoto suo etc. Pro parte Venerabilis et Religiosi Viri fratris jacobi de Mollay generalis Magistri domus milicie Templi jerosolomitani. dilecti Amici nostri fuit nobis noviter cum devocione petitum.
Ut cum dominus noster Summus Pontifex Monasterium Turris Majoris ordinis Saneti Benedicti, situm in decreta tibi provincia cum omnibus Castris Casalibus juribus et pertinentiis suis domui prefate unierit et in subsidium substentationis dicte Militie que continue militat pro reverencia crucifixi contra sarracenicam pravitatem incorporaverit et donaverit gratiose, assecurari dictum Magistrum pro domo prefafa ab hominibus dictorum Castrorum atque Casalium iuxta Regni consuetudinem mandaremus, quia ergo Religiosus vir frater Guilinus locumtenens dicti Magistri in Regno Sicilie et Apulie, tam pro ipso Magistro quam pro domo prefata, nobis pro domino viro nostro jerusalem et Sicilie Rege magnifico, pro dictis Castris atque Casalibus iuxta ipsam Regni consuetudinem fidelitatis prestitit juramentum, homagio ligio dicto domino domino Viro nostro in suis faciendo manibus reservato. dicti magistri circa hoc peticione admissa, tue devocioni precipimus quatenus recepto prius pro eodem domino Viro nostro ab eisdem hominibus et Vassallis, quos dictum Monasterium vel alius pro eodem in eadem decreta tibi provincia. iuste tenet et possidet fidelitatis debito juramento, facias dicto Magistro vel eius nuncio pro domo predicta assecuracionis debite iuxta predicti Regni consuetudinem sacramenta prestari, ac de omnibus consuetis et debitis intendi et integre responderi fidelitate Regia, Regiis et cuiuslibet alterius juribus semper salvis.

Description

LA TRAGEDIA DI «DONNA REGINA»,
UNA MADRE NELLA CRISI DEL TRECENTO

In questa seconda parte dedicata alla Regina Maria d’Ungheria si affronta fin da subito la fine di un sogno, quello reale, e l’inizio della decadenza, quella inaspettata. E’ la casualità delle cose che manda a monte il progetto degli Angioini sui troni d’Europa, l’evoluzione rinascimentale, per tornare alla radice religiosa, ma dei fraticelli del Trecento.
E’ così che la Regina diventa vedova di Carlo II, e da subito sirocchia, cedendo il posto alla nuora, Sancia di Maiorca, sposa dell’erede Re Roberto, sempre più indebolito dalle infiltrazioni dei Catalani in tutto il reame.
Preoccupazioni e piaghe si moltiplicano e la morte del bellissimo figlio Piero, perito nella storica Battaglia di Montecatini, segna l’inizio della fine di un sogno prestigioso. E’ il dolore che prende il sopravvento sulla politica di espansione, quello che trascina la stessa famiglia reale nel vortice aragonese e alla fine getta le armi per un riavvicinamento dei congiunti, vicini e lontani, e dell’Isola di Sicilia, a cui spetta il trono palermitano di Sicilia Citra.
Cronisti e storici afferrano al volo il personaggio e la Regina, da sciamana, diventa quasi monaca: ora costruisce chiese latine, fonda conventi di monache, favorisce ordini religiosi diversi. E i diari lasciano il posto alla forma letteraria, affinché a brillare sia la tragedia, il canto greco degli anni giovanili, il lamento per la morte del bellissimo Piero che diventa costruzione, studio, poesia.
La Regina é nuda, piange e si dispera, poi di scatto si riprende e costruisce chiese, favorisce i francescani e le donne monache. Lascia per se stessa soltanto un angolo nella chiesa di Donna Regina, dove innalzare il suo sepolcro, unico trofeo dell’invincibile battaglia contro la morte. Il suo testamento, come quello del fu marito a favore di Re Roberto, é l’albero della vita: dona tutto a tutti ancora in vita, dalle principesse ai servi: anelli e collane di perle, terre ricche e paludi sconosciute diventano il suo orgoglio testamentale.
L’incontro con i parenti-nemici siciliani, l’invocazione alla pace, la restituzione del Patrimonio di S.Pietro al Papa fanno da cornice a una scuola religiosa che si impone sulla scena e frena il pre-Rinascimento, schierando dalla sua parte una miriade di chiese che dettano legge al popolo.
Il bisogno del potere, che la portò a essere genitrice di 14 figli, si tramuta nell’amore di genitrice di tanti figli, nati chi alla corte di Nocera a S.Giovanni, chi a Rocca Baio di Partenope. E’ una storia di santi e di principi, di dame e cavalieri: la vera eredità quando il lutto prende il sopravvento. E’ il viaggio infinito della lunga vita reale di «Donna Regina»: Maria é la mamma di tutti i Napoletani, dei Pugliesi e degli Ungheresi che la generarono, ma anche dei Siciliani. Il Vespro, la setta dei Flagellanti che penetra a Palazzo, le reliquie del figlio che diventa Santo a Marsiglia, l’educazione di corte impartita ai nipoti e ai principi di mezza Italia si sgretolano, nelle ultime pagine di questa pimpante biografia regale. Obiettivo finale della Regina di Napoli é lasciare ai vivi chiese-scuola per insegnare ai paggi che esiste un mondo diverso da quello del lusso: la preghiera.
Da qui la necessità di assicurare un futuro ai Templari, a S.Maria Egiziaca, alla Maddalena, alla Casa dell’Annunziata AGP, e a San Martino. Ecco l’ultima ambizione di una sovrana.
Arturo Bascetta

indice

ricapitolazione
LA TRAGEDIA DI «DONNA REGINA»,
UNA MADRE NELLA CRISI DEL TRECENTO

1.
la tragedia di montecatini

— La sconfitta di Montecatini frena il Papa
— La battaglia in cui perse la vita il figlio
— Lamento per la morte del bellissimo Piero
— L’incontro con i parenti-nemici siciliani: la pace
— Roberto riconquista il Patrimonio di S.Pietro

2.
il testamento della regina

— La scuola religiosa freno del pre-Rinascimento
— Dalle chiese ai lasciti: la Regina madre detta legge
— Il lascito della Regina datato 1326

3.
l’eredita’ di 14 figli, fra vivi e morti

— Una corte di 14 figli: il primo fu Carlomartello
— Da Nocera a S.Giovanni: Rocca Baio di Partenope
— Berengario Honor M.S.Angelo e Pietro il Tempesta
— Gianni I Duca di Durazzo padre di Carlo II e Luigi
— Il Regno del primogenito ereditato da Re Roberto

4.
addio alla corte, si torna ai monasteri

— Maria porta il lutto, Sancia sfoggia nobiltà
— Le Regine si immergono nella vita religiosa
— Il Vespro e le trattative in nome di s.Onorato
— L’incontro fra sirocchia e genero Federico I
— La Biblioteca reale per diletto della Corte
— Lo sbocciare dell’arte religiosa
— Il ritiro di Maria e Sancia dalla vita di corte

5.
chiese e monasteri per i fraticelli

— La setta dei Flagellanti penetra a Palazzo
— Luigi è santo: le reliquie traslate a Marsiglia
— Egiziaca, Maddalena, AGP, e S.Martino a Carlo
— I reali puntano sul Duca, ma senza più il Papa
— Firenze scarica il Duca che passa a miglior vita
— Il Parlamento restituisce il Sannio alla Chiesa

6.
in morte della sirocchia

— La scomparsa della Regina d’Ungheria
— I sepolcri scomparsi nel Duomo di Napoli
— La lapide della defunta e il suo testamento

APPENDICE DOCUMENTARIA
n.1
FALSO INDIZIO SU MARIA FONDATRICE
DEL MONASTERO DI DONNA REGINA
di Émile Bertaux

APPENDICE DOCUMENTARIA
n.2
La Regina Maria approva i beni
dei Templari di Torremaggiore (FG)
di Giuseppe del Giudice

note bibliografiche

LA BATTAGLIA DI MONTECATINI

E LA  TRAGICA MORTE DEL FIGLIOLO

La famosa battaglia di Montecatini, avvenuta a mezzogiorno del 29 Agosto 1315, fu una delle più micidiali di quei tempi, ben descritti da Albertino Mussato. «Tanta fu la strage che molti corpi non furono più rinvenuti, molti non si poterono più riconoscere. Vi morirono il Conte d’Eboli, il cui cadavere non fu più ritrovato, Carlo di Calabria, il Conte di Battifolle, messer Francesco della Faggiola, Giacotto Malespini e moltissimi Capitani e Baroni tedeschi e soldati Guelfi».
I Ghibellini furono spietati, tali che Ranieri di Donoratico, «sul corpo di Carlo» prese le insegne di Cavaliere, giusto per vendicare il padre ucciso da Carlo D’ Angiò. Essi erano decisi a combattere fino all’ultimo sangue. «Fecero sul campo un grandissimo bottino, presero moltissimi prigionieri ed inseguirono i nemici fin oltre a sette miglia. Filippo di Taranto si rifugiò a Monsummano che presto cadde in potere del vincitore, e il Principe a stento potè salvarsi».
Nicolò Tegrimo, nella Vita di Castruccio, e poi il Machiavelli, attribuiscono a Castruccio il merito della vittoria, che in realtà tutti i cronisti danno a Uguccione, sebbene l’altro eroe ebbe gran parte in quella giornata, seppure ferito.
«Il grido della sconfitta di Montecatini ebbe una lunga eco di dolore nell’animo degli esuli Guelfi, e Roberto di Napoli dovè amaramente pentirsi di essere andato troppo a rilento nell’inviare aiuti, che, giunti prima e più validi, avrebbero evitata la strage e risparmiata la. morte dei suoi parenti. Da quali sentimenti dovesse essere agitato l’animo del Faytinelli è facile immaginare. Le saette infocate de’ suoi versi piovono addosso a tutti, ai collegati, ai Fiorentini, all’imbelle Re che schernisce fieramente. Neppure dalla divinità invocata è stato esaudito. Giura perciò di rinnegare la fede, di farsi ebreo, ariano, d’incrudelire come Nerone e come Medea. Tutto è perduto, il Faggiolano è Re di Toscana, il bel paese è messo a ruba, il nome guelfo spento in tutta Italia.

Veder mi par già quel de la Faggiola
Re di Toscana: io dico d’ Uguccione
Il qual terria le volpi tutte a scuola,
E parmi udir gridar già le persone:
Muoiano i guelfi! for, for mariola!
Muoia re Berta, quell’ avar treccone!
Veggo il Vicar gittar giù la mazzuola
E Messer Pier fuggir senza ‘l pennone;
E veggo incendio, taglia, ruba e stento,
Uomini e donne e fanciulli di cuna,
E in tutta Italia il guelfo nome spento.
Berta ci vende per empir la (Torre) Bruna
Ben meglio: ma per un ne sto contento
Chè Federigo avrà ciò ch’ ei rauna.

Il rimprovero che dal partito guelfo dovè esser fatto ai perdenti si trova nel sonetto del Faytinelli, Poi rotti sete a scoglio presso a riva, che è, come documento storico, molto importante, sebbene come poesia non sia gran che. Però si rialza in fine con un verso pieno di terribile ironia: – Qui fa mestier altr’ arma che di fuga.
Troviamo confermata la notizia dei cronisti sulla baldanza insultante dell’ esercito fiorentino, nelle parole: – Non si de’ nemico disdegnare, di che sentite grossa disciplina. Invita i Guelfi a radunare un altro stuolo: – Di quella franca gente che non schiva tedesca vista che vi fa tremare. Ma il poeta s’illudeva troppo. Le forze dei Guelfi avevano ricevuto tal crollo da non poter rilevarsi per un pezzo.
La battaglia di Montecatini diede argomento ad altri poeti. I cronisti e i poeti Ghibellini ne gioiscono con compiacenza. Esiste una ballata della massima importanza, storica non solo, ma calda di vero affetto e piena di movimento. Pubblicata in parte dal Bandini, fu riprodotta dal Giudici e con migliore lezione e con annotazioni fu ristampata dal Teza. Il Carducci chiuse con essa la raccolta delle Rime di Cino da Pistoia. Il Teza la intitola I Reali di Napoli alla rotta di Montecatini, e il D’Ancona osserva che meglio che Ballata potrebbe chiamarsi Lamento o Pianto. L’Autore non si sa chi sia, è indirizzata alla madre del Re Roberto, di Pietro il Tempesta e di Filippo di Taranto, cioè alla vedova di Carlo II di Napoli, Maria figlia di Stefano IX di Ungheria. Il Poeta si finge, e forse era, scampato dalla rotta di Montecatini; ha sul viso dipinte le fatiche e gli stenti della giornata: la regina al vederlo s’affretta a domandargli: – Deh avrestù veduto messer Piero. Poi che fu ‘l nostro campo sbarattato? Tuo viso mostra pur che vi sie stato.
Alle preghiere dell’ angosciosa e desolata madre il poeta riferisce che vide messer Pietro alla battaglia, fra i nemici, vide Carlotto pugnare valorosamente e cadere e Caroccio e Blasco vide pur anco: — Pier non si trova morto nè scampato.
Bellissimo è il lamento che ne fa la Regina: – Dunque, tapina, ov’è questo mio figlio? Ov’è il mio figlio e la mia rosa, e il fiore? Ov’è quel Dio d’Amore, nel qual non par ch’ errasse la natura? Piacesse a Dio che non fosse mai nato! 1
«Giuro che Pisa non può aver maggior distretta, deliberato avem di far vendetta. Il Poeta non crede che Roberto si lascierà smuovere dalla sua avarizia e che vorrà por mano ai tesori della Bruna, egli, fonte d’ avarizia: – Smaltirà il disonor, temendo ‘l danno. Lo Conte Nier si cinse con la spada sul corpo del tuo Carlo dilicato». Al triste ricordo la Regina Mria sembra volersi scattare con un’impetuosa vendetta:

— Se il sangue mio fu sparto per la fede
Da quella setta eretica, pagana,
Ghibellina e Pisana,
Spietata più che genti Saracine,
Di lor, sie certo, non si avrà mercede,
Che fien venduti e spersi di Toscana,
E Pisa farò piana,
Ararla e seminarvi sale e spine
Lodasi la vittoria in sul fine:
Per quello onde il Pisan ha trionfato
È pur mestier che sia diradicato».2

«Visto che Maria di Napoli è ferma a vendicarsi, la rincuora e le fa credere che Pietro sia stato assunto in cielo in carne ed ossa. Si chiude la ballatuzza con essere inviata a tutti i Guelfi, confortandoli alla rivincita, ma anche ammonendoli che i Pisani hanno vinto, non pel loro valore, ma per la guelfa mattia e perchè, come dice il Faytinelli, Dio ci tolse il cuore e la prudenza. L’intendimento politico di questa Ballata, che ha molti punti di contatto con il lamento di Atossa nei Persiani di Eschilo, è più che manifesto. Eccitare il Re, incuorare ed ammonire i Guelfi. Ma Roberto di Napoli non era l’uomo che in quel momento potesse accontentare gli animi turbati, vendicare il partito di cui era capo e la morte de’ suoi, con una pronta e tremenda riscossa. Troppo, all’asserzione unanime dei contemporanei, gl’incresceva spendere i suoi tesori in una causa per la quale non davasi gran pensiero. E perciò, deludendo le speranze e il desiderio dei Guelfi, si affrettò a far pace con Pisa, non solo, ma con Lucca, Firenze, Siena e Pistoia che mise d’accordo, insomma con tutti i Ghibellini di Toscana, contentandosi di ricevere da Pisa, come tributo, cinque galee quando facesse generale armata e che si erigesse una capella ed uno spedale per l’anime dei morti nella sconfitta di Montecatini, a perpetua memoria. Il che, osserva il D’Ancona, fu piuttosto trofeo di guerra, che monumento di pietà.
Il Faytinelli che aveva dapprima tanto sperato dall’esito della battaglia di Montecatini, e che, vista l’avversa riuscita, esortava i Guelfi a raunare un altro stuolo e ad adoperare altre arme che la fuga, aveva ben ragione di esclamare sdegnosamente contro Roberto:

— Non cura de le carni mal fatate
che son remase a’ lupi in quel deserto.
Mentre poco avanti rimproverando
i Guelfi delle divisioni e discordie
aveva rammentata loro
la trista giornata di Montecatini:
Non vi recorda di Montecatini
come le mogle e le madre dolenti
fan vedovaggio per gli Ghibellini?
e babbi, frati, figlioli e parenti
e chi amasse bene i suoi vicini
combatterebbe ancora a stretti denti.

Un altro poeta, Antonio Pucci, sullo stesso tenore, lamenta invece della «pace vergognosa».

— O signor miei, magnifici Reali,
Benigno sangue è il vostro che non volle
Mai far vendetta di sì fatti mali.
E altrove, ironicamente:
Nel diciassette torno il mio condotto
Che ‘l Re Ruberto con savi pensieri
Fece la pace coi Pisan di botto
E’ Fiorentin e gli altri Guelfi altieri
Ancor seguiron la sua voluntade
E pace fer molto mal volontieri,
E’l re fu biasimato di viltade
Perocchè i patti parver disonesti,
E pare a me così la veritade,
Nota, lettor, che ad ogni picciol male
È duro a fare ch’oggi si perdoni
È’l Re Ruberto del fratel carnale
E de’ nipoti morti e sì gran pieta
Fe’ co’ nemici pace generale».3

«È notevole come contro a questo sentimento dei poeti si levi la voce del guelfo Villani a difendere l’ opera del Re. Parlando della pace osserva che « con tutto che per gli Guelfi mal volontieri si facesse per la sconfitta ricevuta da loro (dai Ghibellini), e dando biasimo al Re Roberto di viltà, si il fece per gran senno e provedenza e per pigliare lena e forza per sé e per gli Fiorentini, e non urtare co’ nemici alla fortuna della loro vittoria, e per altri maggiori intendimenti». La fortuna di Uguccione dopo la battaglia del 29 Agosto era al colmo, ma non doveva molto durare. I Pisani sebbene da lui condotti alla vittoria erano scontenti delle sue maniere da despota e della sua crudeltà ed aspettavano l’occasione propizia per ribellarglisi. Intanto soffiavano nel fuoco le famiglie nobili che già avevano tenuto il primato nella Repubblica, e che ora si vedevano costrette ad inchinarsi ad un avventuriero, a un piccolo feudatario delle Marche. Fra esse primeggiava la potentissima famiglia della Gherardesca. L’occasione presto si offerse. Castruccio Castracani, il potente ghibellino che aveva data Lucca in potere del Faggiolano, accusato di omicidi e di ruberie nella Lunigiana, ove era andato come vicario, e di aver fatti uccidere a Camaiore trenta fuorusciti Ghibellini col pretesto che avessero macchinato contro la sua vita, preso e legato mentre cenava con Neri della Faggiola fu da costui condannato nel capo. Ma non osava il giovane Podestà trarre a morte un uomo, che non solo aveva diritto alla gratitudine di suo padre, ma che godeva tanto favore tra i suoi concittadini, e perciò Uguccione, avuto avviso dell’ irresolutezza del figlio, con quattrocento cavalieri si mosse alla volta di Lucca. Era appena a mezza via che Pisa si sollevò; la turba eccitata saccheggiò la casa del capitano gridando: — Libertà, libertà, muoia Uguccione il tiranno!
Uguccione n’ebbe notizia mentre stava desinando, tornò addietro ma trovò le porte di Pisa chiuse e guardate. Ritornò allora verso Lucca, ma già vi era sorto tumulto in favore di Castruccio che era stato proclamato Podestà. Uguccione col figlio, munito di un salvacondotto, dovè subito uscir di Toscana, dopo essersi fermato presso Spinetta Malaspina, Marchese di Fosdinuovo in Lunigiana, a Modena e a Montefeltro, giunse finalmente a Verona. Riuscite vane le sue pratiche coi Lanfranchi a fine di ricuperare la Signoria di Pisa, si strinse sempre più a Can Grande della Scala, militò per lui, e mori a Vicenza il 1° Novembre 1318. Grande esempio di mutevole fortuna».4
Dice Zambrini che lo stesso Antonio Pucci «accusa di ingratitudine i Pisani per essersi ribellati contro il loro Duce:

—Deh, per mio amor, lettore, alquanto nota
Come fortuna in brieve mise al piano
Uguccion ch’ era al sommo della ruota.
E’ nota il guiderdon che dal Pisano
E’ ricevette, avendolo innalzato
D’onor più ch’altro comune italiano.

Intorno alla perdita di Pisa correva in Toscana una tradizione, secondo la quale Uguccione avrebbe perso la città, perchè giuntogli l’avviso quando era a tavola, ed era gran mangiatore, non volle tosto levarsi e correre a sedare il tumulto. Onde Federigo Frezzi, pare alluda a questo, quando, finto di scendere all’inferno, fa dirsi dal Duce ghibellino:

— Io perdei Pisa e poi Lucca in un tratto
E questo il fe’ la mia pigrizia sola
Che non soccorsi com’ io potea ratto
Io fui già Uguccion dalla Faggiola.5

Di recente sono stati analizzati anche i lamenti funebri, che in origine si credevano circoscritti più alla Calabria, fatti risalire al tempo degli Angioni. E’ stato notato come lo strazio dei parenti e della corte alla morte de Re Carlo d’Angiò, così del figlio Re Roberto, è definito come «l’effetto di anisocronia dato dalla sospensione onirica e dilatatoria della immaginaria riparazione della colpa». Cioè «si ritorna al continuum temporale e la narrazione riprende dal momento preciso della morte di Roberto che dà origine allo strazio della corte». Dice Radaelli che «una scena enfaticamente simile è nella anonima «ballatuzza di lamento per la rotta di Montecatini» (29 agosto 1315) Deh, avrestù veduto messer Piero, al v.30, pronunciato dalla Reina madre Maria d’Ungheria all’annuncio della morte del figlio Piero il Tempesta, Conte di Gravina, fratello minore di Roberto: Chi biasma s’i’ mi straccio e mi scapiglio?; e più sotto, al v. 45 per voce del messaggero: [Reina] Non pianger né percuoter più tua faccia. Rappresentazioni molto vicine si trovano anche nel cantare di Fiorio e Biancifiore: Dal capo al piè si stracciò la gonnella, e nel serventese in morte del Duca di Calabria: Grave dolore che llo quore? mi quoce: Lo re Ruberto si stracciava il manto.6
Per la rotta di Montecatini è una composizione poetica sul canto funebre della Regina in morte del figliolo. Nella prima parte essa, non convinta della morte di Piero, principe di gran bellezza e prode cavaliere, chiede notizie al messaggero che è scampato alla strage, ricevendo le ferali notizie, invitandola a darsi pace: — Ti prego, dimmi se hai visto messer Piero, dopo che il nostro esercito è stato sbaragliato. Il tuo volto mi dice che c’eri. Non nascondere la verità a una madre disperata che altrimenti rimarrà priva di consolazione fino alla fine dei giorni; perché vedo dalla tua faccia spaventata che hai paura di portare brutte notizie e sei pronto a dirmi una bugia, dicendo che mio figlio è vivo, anziché morto. Ma se fosse vivo, tu lo diresti chiaramente, come dici di Carlo, Principe sfortunato; ma tremi in modo tale che io lo sappia per spacciato.
Il testo è quasi teatrale e alle domande della Regina finalmente risponde il messaggero, sostenendo di averlo visto battersi insieme al valoroso Carlotto, al valente Cavaliere Caroccio e a Don Brasco, ricevere e darne fino alla conclusione, quando non si è più trovato Piero, né fra i vivi e né fra i morti.
Incanza allora la Regina per sapere sulla fine del figlio: – dov’è il mio giglio, la mia rosa e il fiore?, in un lamento struggente, su quell’quell’angelo fatto uomo, fino a dolersene come una colpa: — Volesse Iddio che non fosse mai nato!
Il sonetto si conclude con le parole di corcostanza del messaggero su gioie e dolori della vita, e perciò che tutto ciò sia quasi una ammunizione a far cessare la guerra in Sicilia: — Non piangere, cessa di batterti il viso. Fa’ sì che re Roberto e il suo cognato (Federico di Sicilia) trovino un accordo, se vuoi che il tuo sangue possa essere vendicato.

Così la composizione:

— Deh, avrestù veduto messer Piero,
poi che fu ’ nostro campo sbaraltato?
Tuo viso mostra pur che vi sie stato.
Deh non celare il vero all’angosciosa
e desolata sua madre che fie
fin al suo stremo die
nuda d’ogni allegrezza e di conforto;
ch’io ’l veggio alla tua faccia paurosa;
ma temi di recar novelle rie
e d’apportar bugie,
cioè che vogli dir vivo del morto.
Se fosse vivo, tu ’l diresti scorto
(come tu di’ del prence infortunato),
ma palpi sì ch’io l’ho per isbrigato.
Poi che mia faccia turba t’ha scoverto
il tuo cordoglio, dicerotti il vero.
Io vidi messer Piero
gagliardo fra’ nemici alla battaglia,
vidi Carlotto un paladin per certo,
e seco il buon Caroccio cavaliero,
don Brasco ardito e fero
ricever colpi e darne di rigaglia,
ma poscia che rimasa fu la taglia,
Carlotto e chi ’l seguia vidi spezzato;
Pier non si trova morto né scampato.
Dunque, tapina, ov’è questo mio figlio?
ov’è il mio giglio e la mia rosa e ’l fiore?
ov’è quel dio d’amore
nel qual non par ch’errasse la natura?
Chi biasma s’i’ mi straccio e mi scapiglio?
che ’l sol dovea celar lo suo splendore
lo dì che tal signore
pervenne a morte far cotanto oscura,
pianger le pietre e ogni creatura
dovrebbe di quell’agnolo incarnato:
piacesse a Dio ch’e’ non fosse mai nato!
Reina, in sulle grandi avversitadi
lo senno uman si prova e paragona,
secondo uom ragiona,
e non quand’egli ha pur cosa che i piaccia.
Così di guerra van le novitadi
e cotai son le gioie che ci dona
il mondo, e non perdona
Morte a null’uom ch’al suo ’mpero soggiaccia.
Non pianger né percuoter più tua faccia.
Accorda il re Ruberto col cognato,
se vuoi che ’l sangue tuo sia vendicato.7

Maria è cambiata. Ora è una mamma affranta che ha perso il suo figlio più bello, e presto sarà anche una inconsolabile vedova. La letteratura sarà influenzata da questi episodi fino a tutto l’Ottocento. Nelle Rime di Cino da Pistoia la Regina è una timorata di Dio che chiede vendetta alla maniera greca, pronta a immolarsi, ma non prima di aver annullato il nemico. Il sonetto non manca di partire dal guelfus Carrocius di Fra’ Ranieri, tratto dal suo poemetto, o di citare Messere Caroccione e Misser Bianco da Raona connestabile de’ Fiorentini della Cronaca. Dalla Cronaca di Siena si aggiunge che misser Piero fratello del Prenze non si trovò mai: tenesi che annegasse nella Guisciana (o Gusciana). Tutti andavano contendendo da un pezzo per la Sicilia (l’isoletta), gli Angioini e gli Aragonesi, Roberto di Napoli e Federico di Sicilia, sposo di Eleonora sorella di Roberto e di Pietro.

SABATO CUTTRERA

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Editorial Review

LA BATTAGLIA DI MONTECATINI

E LA  TRAGICA MORTE DEL FIGLIOLO

 

La famosa battaglia di Montecatini, avvenuta a mezzogiorno del 29 Agosto 1315, fu una delle più micidiali di quei tempi, ben descritti da Albertino Mussato. «Tanta fu la strage che molti corpi non furono più rinvenuti, molti non si poterono più riconoscere. Vi morirono il Conte d'Eboli, il cui cadavere non fu più ritrovato, Carlo di Calabria, il Conte di Battifolle, messer Francesco della Faggiola, Giacotto Malespini e moltissimi Capitani e Baroni tedeschi e soldati Guelfi».
I Ghibellini furono spietati, tali che Ranieri di Donoratico, «sul corpo di Carlo» prese le insegne di Cavaliere, giusto per vendicare il padre ucciso da Carlo D' Angiò. Essi erano decisi a combattere fino all’ultimo sangue. «Fecero sul campo un grandissimo bottino, presero moltissimi prigionieri ed inseguirono i nemici fin oltre a sette miglia. Filippo di Taranto si rifugiò a Monsummano che presto cadde in potere del vincitore, e il Principe a stento potè salvarsi».
Nicolò Tegrimo, nella Vita di Castruccio, e poi il Machiavelli, attribuiscono a Castruccio il merito della vittoria, che in realtà tutti i cronisti danno a Uguccione, sebbene l’altro eroe ebbe gran parte in quella giornata, seppure ferito.
«Il grido della sconfitta di Montecatini ebbe una lunga eco di dolore nell'animo degli esuli Guelfi, e Roberto di Napoli dovè amaramente pentirsi di essere andato troppo a rilento nell'inviare aiuti, che, giunti prima e più validi, avrebbero evitata la strage e risparmiata la. morte dei suoi parenti. Da quali sentimenti dovesse essere agitato l'animo del Faytinelli è facile immaginare. Le saette infocate de' suoi versi piovono addosso a tutti, ai collegati, ai Fiorentini, all'imbelle Re che schernisce fieramente. Neppure dalla divinità invocata è stato esaudito. Giura perciò di rinnegare la fede, di farsi ebreo, ariano, d'incrudelire come Nerone e come Medea. Tutto è perduto, il Faggiolano è Re di Toscana, il bel paese è messo a ruba, il nome guelfo spento in tutta Italia.

Veder mi par già quel de la Faggiola
Re di Toscana: io dico d' Uguccione
Il qual terria le volpi tutte a scuola,
E parmi udir gridar già le persone:
Muoiano i guelfi! for, for mariola!
Muoia re Berta, quell' avar treccone!
Veggo il Vicar gittar giù la mazzuola
E Messer Pier fuggir senza 'l pennone;
E veggo incendio, taglia, ruba e stento,
Uomini e donne e fanciulli di cuna,
E in tutta Italia il guelfo nome spento.
Berta ci vende per empir la (Torre) Bruna
Ben meglio: ma per un ne sto contento
Chè Federigo avrà ciò ch' ei rauna.

Il rimprovero che dal partito guelfo dovè esser fatto ai perdenti si trova nel sonetto del Faytinelli, Poi rotti sete a scoglio presso a riva, che è, come documento storico, molto importante, sebbene come poesia non sia gran che. Però si rialza in fine con un verso pieno di terribile ironia: - Qui fa mestier altr' arma che di fuga.
Troviamo confermata la notizia dei cronisti sulla baldanza insultante dell' esercito fiorentino, nelle parole: - Non si de' nemico disdegnare, di che sentite grossa disciplina. Invita i Guelfi a radunare un altro stuolo: - Di quella franca gente che non schiva tedesca vista che vi fa tremare. Ma il poeta s'illudeva troppo. Le forze dei Guelfi avevano ricevuto tal crollo da non poter rilevarsi per un pezzo.
La battaglia di Montecatini diede argomento ad altri poeti. I cronisti e i poeti Ghibellini ne gioiscono con compiacenza. Esiste una ballata della massima importanza, storica non solo, ma calda di vero affetto e piena di movimento. Pubblicata in parte dal Bandini, fu riprodotta dal Giudici e con migliore lezione e con annotazioni fu ristampata dal Teza. Il Carducci chiuse con essa la raccolta delle Rime di Cino da Pistoia. Il Teza la intitola I Reali di Napoli alla rotta di Montecatini, e il D'Ancona osserva che meglio che Ballata potrebbe chiamarsi Lamento o Pianto. L'Autore non si sa chi sia, è indirizzata alla madre del Re Roberto, di Pietro il Tempesta e di Filippo di Taranto, cioè alla vedova di Carlo II di Napoli, Maria figlia di Stefano IX di Ungheria. Il Poeta si finge, e forse era, scampato dalla rotta di Montecatini; ha sul viso dipinte le fatiche e gli stenti della giornata: la regina al vederlo s'affretta a domandargli: - Deh avrestù veduto messer Piero. Poi che fu 'l nostro campo sbarattato? Tuo viso mostra pur che vi sie stato.
Alle preghiere dell' angosciosa e desolata madre il poeta riferisce che vide messer Pietro alla battaglia, fra i nemici, vide Carlotto pugnare valorosamente e cadere e Caroccio e Blasco vide pur anco: — Pier non si trova morto nè scampato.
Bellissimo è il lamento che ne fa la Regina: - Dunque, tapina, ov'è questo mio figlio? Ov'è il mio figlio e la mia rosa, e il fiore? Ov'è quel Dio d'Amore, nel qual non par ch' errasse la natura? Piacesse a Dio che non fosse mai nato! 1
«Giuro che Pisa non può aver maggior distretta, deliberato avem di far vendetta. Il Poeta non crede che Roberto si lascierà smuovere dalla sua avarizia e che vorrà por mano ai tesori della Bruna, egli, fonte d' avarizia: - Smaltirà il disonor, temendo 'l danno. Lo Conte Nier si cinse con la spada sul corpo del tuo Carlo dilicato». Al triste ricordo la Regina Mria sembra volersi scattare con un’impetuosa vendetta:

— Se il sangue mio fu sparto per la fede
Da quella setta eretica, pagana,
Ghibellina e Pisana,
Spietata più che genti Saracine,
Di lor, sie certo, non si avrà mercede,
Che fien venduti e spersi di Toscana,
E Pisa farò piana,
Ararla e seminarvi sale e spine
Lodasi la vittoria in sul fine:
Per quello onde il Pisan ha trionfato
È pur mestier che sia diradicato».2

«Visto che Maria di Napoli è ferma a vendicarsi, la rincuora e le fa credere che Pietro sia stato assunto in cielo in carne ed ossa. Si chiude la ballatuzza con essere inviata a tutti i Guelfi, confortandoli alla rivincita, ma anche ammonendoli che i Pisani hanno vinto, non pel loro valore, ma per la guelfa mattia e perchè, come dice il Faytinelli, Dio ci tolse il cuore e la prudenza. L'intendimento politico di questa Ballata, che ha molti punti di contatto con il lamento di Atossa nei Persiani di Eschilo, è più che manifesto. Eccitare il Re, incuorare ed ammonire i Guelfi. Ma Roberto di Napoli non era l'uomo che in quel momento potesse accontentare gli animi turbati, vendicare il partito di cui era capo e la morte de' suoi, con una pronta e tremenda riscossa. Troppo, all'asserzione unanime dei contemporanei, gl'incresceva spendere i suoi tesori in una causa per la quale non davasi gran pensiero. E perciò, deludendo le speranze e il desiderio dei Guelfi, si affrettò a far pace con Pisa, non solo, ma con Lucca, Firenze, Siena e Pistoia che mise d'accordo, insomma con tutti i Ghibellini di Toscana, contentandosi di ricevere da Pisa, come tributo, cinque galee quando facesse generale armata e che si erigesse una capella ed uno spedale per l'anime dei morti nella sconfitta di Montecatini, a perpetua memoria. Il che, osserva il D'Ancona, fu piuttosto trofeo di guerra, che monumento di pietà.
Il Faytinelli che aveva dapprima tanto sperato dall'esito della battaglia di Montecatini, e che, vista l'avversa riuscita, esortava i Guelfi a raunare un altro stuolo e ad adoperare altre arme che la fuga, aveva ben ragione di esclamare sdegnosamente contro Roberto:

— Non cura de le carni mal fatate
che son remase a' lupi in quel deserto.
Mentre poco avanti rimproverando
i Guelfi delle divisioni e discordie
aveva rammentata loro
la trista giornata di Montecatini:
Non vi recorda di Montecatini
come le mogle e le madre dolenti
fan vedovaggio per gli Ghibellini?
e babbi, frati, figlioli e parenti
e chi amasse bene i suoi vicini
combatterebbe ancora a stretti denti.

Un altro poeta, Antonio Pucci, sullo stesso tenore, lamenta invece della «pace vergognosa».

— O signor miei, magnifici Reali,
Benigno sangue è il vostro che non volle
Mai far vendetta di sì fatti mali.
E altrove, ironicamente:
Nel diciassette torno il mio condotto
Che 'l Re Ruberto con savi pensieri
Fece la pace coi Pisan di botto
E' Fiorentin e gli altri Guelfi altieri
Ancor seguiron la sua voluntade
E pace fer molto mal volontieri,
E'l re fu biasimato di viltade
Perocchè i patti parver disonesti,
E pare a me così la veritade,
Nota, lettor, che ad ogni picciol male
È duro a fare ch'oggi si perdoni
È'l Re Ruberto del fratel carnale
E de' nipoti morti e sì gran pieta
Fe' co' nemici pace generale».3

«È notevole come contro a questo sentimento dei poeti si levi la voce del guelfo Villani a difendere l' opera del Re. Parlando della pace osserva che « con tutto che per gli Guelfi mal volontieri si facesse per la sconfitta ricevuta da loro (dai Ghibellini), e dando biasimo al Re Roberto di viltà, si il fece per gran senno e provedenza e per pigliare lena e forza per sé e per gli Fiorentini, e non urtare co' nemici alla fortuna della loro vittoria, e per altri maggiori intendimenti». La fortuna di Uguccione dopo la battaglia del 29 Agosto era al colmo, ma non doveva molto durare. I Pisani sebbene da lui condotti alla vittoria erano scontenti delle sue maniere da despota e della sua crudeltà ed aspettavano l'occasione propizia per ribellarglisi. Intanto soffiavano nel fuoco le famiglie nobili che già avevano tenuto il primato nella Repubblica, e che ora si vedevano costrette ad inchinarsi ad un avventuriero, a un piccolo feudatario delle Marche. Fra esse primeggiava la potentissima famiglia della Gherardesca. L'occasione presto si offerse. Castruccio Castracani, il potente ghibellino che aveva data Lucca in potere del Faggiolano, accusato di omicidi e di ruberie nella Lunigiana, ove era andato come vicario, e di aver fatti uccidere a Camaiore trenta fuorusciti Ghibellini col pretesto che avessero macchinato contro la sua vita, preso e legato mentre cenava con Neri della Faggiola fu da costui condannato nel capo. Ma non osava il giovane Podestà trarre a morte un uomo, che non solo aveva diritto alla gratitudine di suo padre, ma che godeva tanto favore tra i suoi concittadini, e perciò Uguccione, avuto avviso dell' irresolutezza del figlio, con quattrocento cavalieri si mosse alla volta di Lucca. Era appena a mezza via che Pisa si sollevò; la turba eccitata saccheggiò la casa del capitano gridando: — Libertà, libertà, muoia Uguccione il tiranno!
Uguccione n'ebbe notizia mentre stava desinando, tornò addietro ma trovò le porte di Pisa chiuse e guardate. Ritornò allora verso Lucca, ma già vi era sorto tumulto in favore di Castruccio che era stato proclamato Podestà. Uguccione col figlio, munito di un salvacondotto, dovè subito uscir di Toscana, dopo essersi fermato presso Spinetta Malaspina, Marchese di Fosdinuovo in Lunigiana, a Modena e a Montefeltro, giunse finalmente a Verona. Riuscite vane le sue pratiche coi Lanfranchi a fine di ricuperare la Signoria di Pisa, si strinse sempre più a Can Grande della Scala, militò per lui, e mori a Vicenza il 1° Novembre 1318. Grande esempio di mutevole fortuna».4
Dice Zambrini che lo stesso Antonio Pucci «accusa di ingratitudine i Pisani per essersi ribellati contro il loro Duce:

—Deh, per mio amor, lettore, alquanto nota
Come fortuna in brieve mise al piano
Uguccion ch' era al sommo della ruota.
E' nota il guiderdon che dal Pisano
E' ricevette, avendolo innalzato
D'onor più ch'altro comune italiano.

Intorno alla perdita di Pisa correva in Toscana una tradizione, secondo la quale Uguccione avrebbe perso la città, perchè giuntogli l'avviso quando era a tavola, ed era gran mangiatore, non volle tosto levarsi e correre a sedare il tumulto. Onde Federigo Frezzi, pare alluda a questo, quando, finto di scendere all'inferno, fa dirsi dal Duce ghibellino:

— Io perdei Pisa e poi Lucca in un tratto
E questo il fe' la mia pigrizia sola
Che non soccorsi com' io potea ratto
Io fui già Uguccion dalla Faggiola.5

 

Di recente sono stati analizzati anche i lamenti funebri, che in origine si credevano circoscritti più alla Calabria, fatti risalire al tempo degli Angioni. E’ stato notato come lo strazio dei parenti e della corte alla morte de Re Carlo d’Angiò, così del figlio Re Roberto, è definito come «l’effetto di anisocronia dato dalla sospensione onirica e dilatatoria della immaginaria riparazione della colpa». Cioè «si ritorna al continuum temporale e la narrazione riprende dal momento preciso della morte di Roberto che dà origine allo strazio della corte». Dice Radaelli che «una scena enfaticamente simile è nella anonima «ballatuzza di lamento per la rotta di Montecatini» (29 agosto 1315) Deh, avrestù veduto messer Piero, al v.30, pronunciato dalla Reina madre Maria d’Ungheria all’annuncio della morte del figlio Piero il Tempesta, Conte di Gravina, fratello minore di Roberto: Chi biasma s’i’ mi straccio e mi scapiglio?; e più sotto, al v. 45 per voce del messaggero: [Reina] Non pianger né percuoter più tua faccia. Rappresentazioni molto vicine si trovano anche nel cantare di Fiorio e Biancifiore: Dal capo al piè si stracciò la gonnella, e nel serventese in morte del Duca di Calabria: Grave dolore che llo quore? mi quoce: Lo re Ruberto si stracciava il manto.6
Per la rotta di Montecatini è una composizione poetica sul canto funebre della Regina in morte del figliolo. Nella prima parte essa, non convinta della morte di Piero, principe di gran bellezza e prode cavaliere, chiede notizie al messaggero che è scampato alla strage, ricevendo le ferali notizie, invitandola a darsi pace: — Ti prego, dimmi se hai visto messer Piero, dopo che il nostro esercito è stato sbaragliato. Il tuo volto mi dice che c’eri. Non nascondere la verità a una madre disperata che altrimenti rimarrà priva di consolazione fino alla fine dei giorni; perché vedo dalla tua faccia spaventata che hai paura di portare brutte notizie e sei pronto a dirmi una bugia, dicendo che mio figlio è vivo, anziché morto. Ma se fosse vivo, tu lo diresti chiaramente, come dici di Carlo, Principe sfortunato; ma tremi in modo tale che io lo sappia per spacciato.
Il testo è quasi teatrale e alle domande della Regina finalmente risponde il messaggero, sostenendo di averlo visto battersi insieme al valoroso Carlotto, al valente Cavaliere Caroccio e a Don Brasco, ricevere e darne fino alla conclusione, quando non si è più trovato Piero, né fra i vivi e né fra i morti.
Incanza allora la Regina per sapere sulla fine del figlio: - dov’è il mio giglio, la mia rosa e il fiore?, in un lamento struggente, su quell’quell’angelo fatto uomo, fino a dolersene come una colpa: — Volesse Iddio che non fosse mai nato!
Il sonetto si conclude con le parole di corcostanza del messaggero su gioie e dolori della vita, e perciò che tutto ciò sia quasi una ammunizione a far cessare la guerra in Sicilia: — Non piangere, cessa di batterti il viso. Fa’ sì che re Roberto e il suo cognato (Federico di Sicilia) trovino un accordo, se vuoi che il tuo sangue possa essere vendicato.

Così la composizione:

— Deh, avrestù veduto messer Piero,
poi che fu ’ nostro campo sbaraltato?
Tuo viso mostra pur che vi sie stato.
Deh non celare il vero all’angosciosa
e desolata sua madre che fie
fin al suo stremo die
nuda d’ogni allegrezza e di conforto;
ch'io ’l veggio alla tua faccia paurosa;
ma temi di recar novelle rie
e d’apportar bugie,
cioè che vogli dir vivo del morto.
Se fosse vivo, tu ’l diresti scorto
(come tu di’ del prence infortunato),
ma palpi sì ch’io l’ho per isbrigato.
Poi che mia faccia turba t’ha scoverto
il tuo cordoglio, dicerotti il vero.
Io vidi messer Piero
gagliardo fra’ nemici alla battaglia,
vidi Carlotto un paladin per certo,
e seco il buon Caroccio cavaliero,
don Brasco ardito e fero
ricever colpi e darne di rigaglia,
ma poscia che rimasa fu la taglia,
Carlotto e chi ’l seguia vidi spezzato;
Pier non si trova morto né scampato.
Dunque, tapina, ov’è questo mio figlio?
ov’è il mio giglio e la mia rosa e ’l fiore?
ov’è quel dio d’amore
nel qual non par ch'errasse la natura?
Chi biasma s’i’ mi straccio e mi scapiglio?
che ’l sol dovea celar lo suo splendore
lo dì che tal signore
pervenne a morte far cotanto oscura,
pianger le pietre e ogni creatura
dovrebbe di quell’agnolo incarnato:
piacesse a Dio ch’e’ non fosse mai nato!
Reina, in sulle grandi avversitadi
lo senno uman si prova e paragona,
secondo uom ragiona,
e non quand’egli ha pur cosa che i piaccia.
Così di guerra van le novitadi
e cotai son le gioie che ci dona
il mondo, e non perdona
Morte a null’uom ch’al suo ’mpero soggiaccia.
Non pianger né percuoter più tua faccia.
Accorda il re Ruberto col cognato,
se vuoi che ’l sangue tuo sia vendicato.7

Maria è cambiata. Ora è una mamma affranta che ha perso il suo figlio più bello, e presto sarà anche una inconsolabile vedova. La letteratura sarà influenzata da questi episodi fino a tutto l’Ottocento. Nelle Rime di Cino da Pistoia la Regina è una timorata di Dio che chiede vendetta alla maniera greca, pronta a immolarsi, ma non prima di aver annullato il nemico. Il sonetto non manca di partire dal guelfus Carrocius di Fra’ Ranieri, tratto dal suo poemetto, o di citare Messere Caroccione e Misser Bianco da Raona connestabile de’ Fiorentini della Cronaca. Dalla Cronaca di Siena si aggiunge che misser Piero fratello del Prenze non si trovò mai: tenesi che annegasse nella Guisciana (o Gusciana). Tutti andavano contendendo da un pezzo per la Sicilia (l’isoletta), gli Angioini e gli Aragonesi, Roberto di Napoli e Federico di Sicilia, sposo di Eleonora sorella di Roberto e di Pietro.

SABATO CUTTRERA