GIOVANNA D’ARAGONA (I, II, III parte). Juana la Vecchia, II parte: VOGLIA DI RINASCIMENTO

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Giovanna e suo marito, il Re Ferdinando I

 

Ferdinando I si era sposato in seconde nozze con Giovanna d’Aragona, divenuta sovrana e giovane matrigna dei quattro figli legittimi della fu Isabella Chiaromonte:
– Don Alfonso II (1448-1495),
– Don Federico (1452-1504),
– Don Giovanni (1456-1485),
– Don Francesco (1461-1486).
Quest’ultimo, in particolare, nato sotto Corona, era sì gentile cavalero, quanto mai avesse tutto lo emispero.1
Ferrante, come lo chiamavano i napoletani, impalmata la cugina nella speranza di poter mantenere in forma autonoma il Regno di Napoli, staccato dalle Spagne, aveva ridato colore alle sue giornate. Più giovane di lui di 31 anni, Joanna l’Infant, figlia di Giovanni II d’Aragona e di Navarra e Giovanna Enrìquez, godeva di un patrimonio dotale, fra Teramo e la Puglia, che fece da cuscinetto per l’unità del Regno. Nonostante la differenza di età dimostrarono di poter essere una coppia aperta alla modernità.2
E la Regina piaceva proprio a tutti, specie a Don Alfonso. Negli ultimi tempi i regnanti avevano ricevuto a corte decine di maestri delle botteghe napoletane per dare calore al loro freddo castello. Ora per creare un ornamento di piperno, ora per scegliere un laccetto d’oro con nuovi motivi primaverili, ora per commissionare libri illustrati di un certo pregio.3
Nicola Rapicano era già citato nelle annotazioni del tesoriere regio come miniatore ufficiale della biblioteca di corte. La Regina non badava a spese. Il suo nome di Cola compare sul libro paga, risultando come stipendiato dallo Stato già dal 1451.
Ne sono riprova le miniature del Codice Ambrosiano, sontuosamente decorato non più solo con figure di nobiltà, ma con ispirazioni di getto; con gente umile, in cerca di sollievo, presa a modello. Perfino il profilo di Ferrante, illustrato sulla copertina della Reprehensio sive objurgatio in calumniatorem divini Platonis di Andrea Contrario, emana una luce diversa, più popolare e meno autoritaria, quasi sorridente e da cartone animato.4
Sono bottegai venuti su in maniera spontanea. Lo stesso Cola, in un primo momento, lavorò con Alfonso Spanyol, e dal 1471 si fece riconoscere per il suo stile. E a chi, se non alla Regina, venne l’idea di fargli disegnare le Favole di Esopo (1473), la cartina di Strabone e gli Statuti dell’Ordine del Toson d’Oro, quando, a quella del maestro, si aggiunse la firma dell’allievo Cristoforo Majorana. I codici trascritti da Venceslao Crispo saranno poi miniati da Matteo Felice e da Gioacchino de Gigantibus, compresi quelli delle botteghe fiorentine….

Description

S.Francesco de Paola nell’orto di S.Luigi alla Croce amato dalla Regina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una notizia più allegra la si ebbe a febbraio, quando il cronista Passero, attesta il passaggo di frate Francesco di Paola, donde tutta Napole l’ei andata a basare la mano all’Horto de santo Loise in pede lo Pennino della Chiesa della Croce de fora Napole. San Francesco era partito da Paola il 2 febbraio 1483 e fece un lungo viaggio, come racconta il cronista.16
Il sant’uomo Fra’ Roberto, chiamato a corte dal Principe Carlo VIII, lasciò Paterno Calabro diretto a curare Re Luigi XI di Francia, gravemente ammalato.
Prima di mutare nome e diventare San Francesco di Paola, frate Roberto di Calabria, fu un eremita di gran fama, di buona e di santissima vita, e perciò da tutti chiamato il Santo huomo. In Francia era addirittura venerato dal Re, in honore del quale Carlo ottavo suo figliolo fece poi edificare un tempio nell’entrata del parco della Città di Tours in contracambio della Cappella ch’era nell’estremità del ponte vicino à sudetto parco.
Partito per il lungo viaggio e giunto nel Vallo di Diano, l’eremita fece sosta a Polla e poi all’abbazia di S.Maria la Nova di Campagna, indi a Salerno.
Si fermò proprio perché chiamato a curare l’infermità del Re di Francia, addirittura con la mediazione della Regina. Ma se la prese con calma, in modo da farsi un po’ pregare da tutti, visto che andava ripetendo che mai s’indurrebbe a recarsi da un Re, il quale incominciava dal domandargli un miracolo. Ma stavolta l’ordine venne dal Papa, che gli ingiunse di sottoporsi alla volontà del sovrano francese.
Giunto a Napoli, il 25 febbraio 1483, fu accolto da una folla festante. Portato a corte in gran trionfo fu ricevuto dai reali come se fosse stato uno di famiglia, tanto era piacevole ascoltarlo, ben nascondendo la sua ignoranza. Questo romito dell’età di 12 anni infino alli 43, ch’egli haveva quando venne in Francia, habitò sempre sotto un’altissimo sasso. Andovi à torlo un suo maestro di casa in compagnia del Principe di Taranto figliuolo del Re di Napoli, percioché esso frate non volle quindi partirsi senza commissione del papa, e del suo Re; la qual cosa, per huomo idiota, e semplice, fu fatta giudiciosamente. Costui haveva fatte due chiese in quel luogo dove egli dimorava; non mangiò in tutta sua vita carne, pesce, latte, ova, né alcuna sorte di grassezza. Et in quanto à me, non vidi mai huomo, che menasse vita così innocente, e pura; ò nella bocca del quale lo spirito santo meglio favellasse: percioché egli non era letterato, ne giamai apprese cosa alcuna; vero è che la sua lingua italiana moveva assai le persone à maraviglia. Passò per Napoli, riverito e visitato dal Re, e dai suoi figliuoli al paro d’un grande apostolico legato. Ragionava con esso loro, come se fusse stato nodrito, e allevato in corte.17
Non disdegnò omaggi e visite a principi e grandi del Regno, raccomandandosi verso Re Ferdinando sugli obblighi di un reale e sui doveri dello stato. Poi operò qualche prodigio e ottenne l’ospitalità a Castelnuovo e qualche donazione per la sua fondazione calabrese.
I napoletani si ‘commuovevano’ alle novelle che si facevano in tutta la città, come quella sul piatto pieno di monete d’oro e d’argento donatogli dalla Regina. Era un continuo freno a quella corsa contro il tempo, fin quando fra’ Roberto non si incamminò per Roma. Lì fu visto assiso in una bella sedia presso del Papa per lo spazio di tre o quattr’ore, lo che fu riputato grand’onore per così umile uomo.18
Sisto IV lo accolse a braccia aperte e si disse pronto a trattare l’istituzione di un ordine francescano, prim’ancora di imbarcarsi a Civitavecchia. A Roma, del resto, fu onorato dai cardinali e per tre volte hebbe segreta udienza dal papa e sempre si sedette tre, e quattro hore appresso a lui in seggia pontificale (honor grandissimo ad huomo di si picciola qualità). Rispondeva sì saviamente, che ciasciuno ne rimaneva stupefatto. Ottenne di poter istituire l’Ordine dei Romiti di San Francesco.
Giunto in Francia, il frate, ormai al cospetto di Luigi XI, fu ricevuto come se fusse stato il sommo pontefice. Il Re, dal canto suo, si mise in gran cerimonia, inginocchiandosi avanti à lui, e chiedendogli sanità, e lunghezza di vita. E l’eremita rispose ciò che savio huomo rispondere doveva. Lo stesso cronista Filippo di Comines lo udì spesso ragionare e colloquiare con il Re e i grandi del Regno di Francia. Dopo anco due mesi, ma pareva bene alle cose, che diceva, e insegnava, ch’egli fusse inspirato da Dio, perché altrimenti era impossibile, ch’egli havesse saputo ottimamente parlare di tutto, come faceva. Vive ancora, e perché potrebbesi cangiare in meglio, ò in peggio, perciò mi taccio.
In verità, appena giunto, alcuni si beffavano della venuta del Romito, chiamandolo sant’huomo, ma cotali non erano ben informati de’ pensieri di questo prudentissimo Re, ne ben havevano vedute le cose, che gliene dierono cagione.
Re Luigi XI, però, anziché migliorare, sembrò giunto al capolinea: assomigliavasi più ad un huomo morto, che vivo, cetanto magro egli era divenuto. Vestiva riccamente, e assai più che non haveva per costume di fare inanzi alla malattia. Voleva le robbe di raso cremesino foderae di pretiosi martori, e donavano a questo, e a quello, senza che noino havesse osato di chiedergli cosa veruna, ne pur di favellargli. Faceva de crudeli esecutioni, per essere temuto, e per dubbio, che non gli fusse tolta l’ubidienza. Le sue stravaganze continuarono nel comprare muli in Sicilia e cavalli a Napoli.
— Percioché egli medesimo lo mi disse. Levava gli ufficiali dal luogo loro; cassava la gente di guerra, sminuiva le pensioni, e anco toglieva in tutto. Dissemi pochi giorni avanti la sua morte, ch’egli passava il tempo a fare, e disfare.
E di lì a poco se ne morì.19
Il 1483 non preannunciava nulla di buono, per le tante dipartite di quell’anno. Un uomo ricordato come potente fu sicuramente Don Ciccio Coppola, segretario regio e poi Ministro d’Azienda, oltre che medico e fratello di Don Luigi, morto anch’egli insieme a diversi messeri-dottori: Don Luca Tantalo, Francesco del Balzo Duca d’Andria, Francesco Carafa, Galiota, Gattola, Baravallo, Bartolomeo Mastrogiudice.
Morì perfino lo stesso notaio che attestava i fatti, perché a li 31 d’agosto 1483 è dato no truono a lo Castiello del Ovo, ed ave ammazzato Notar Matteo della Nunziata……..

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Editorial Review

AI TEMPI DI MASUCCIO SEGRETARIO DEL PRINCIPE DI SALERNO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In questi anni era nel pieno della maturità letteraria Masuccio Guardato da Lervo (1410-1475) detto Masuccio Salernitano, per via della patria, scrivendo opere in prosa e in rime, di cui non resta che il Novellino, realizzato in onore di Donna Ippolita, prima del 1484, mentre veniva su il suo mastodontico Palazzo della Duchesca. Segno che lo scambio culturale con altre realtà, provenzali, veneziane, fiorentine, divenne un vero lavoro per muratori, intagliatori, scalpellini, decoratori, ebanisti, vetrai. Sono maestri d’arte, che chiedevano uno spazio sociale a gran voce. Essi provenivano dalla provincia, magari scoperti da un principe e chiamati per abbellire la cappella di famiglia, o da un abate, per rifare un altare in marmi policromi.
— Nel tempo che il famofo maestro Onofrio da Giordano avea pigliata l'impresa del mirabile edificio del Castello nuovo, la maggior parte de maestri e manipoli della Cava si conducevano a Napoli per lavorare alla detta opera, ove tra gli altri furono due giovani del Casale di Priato, li quali non meno desiderofi di veder Napoli, che anco stati non vi erano, che per vaghezza di guadagno. Una domenica mattina dietro a un maestro fi avviarono, e camminando con molti altri Cavotti alla sfilata, avvenne che costoro che di camminare non erano ufi, rimafero una gran via dietro, e per la pesta degli altri (ancora che non fapeffero il cammino) tanto seguirono che quafi al tardi giunfero alla Torre del Greco... arrivarono al diritto del Ponte Rizzardo... per la via di Somma... non dopo molto a Napoli...6
Ancora un’attestazione della vivacità artistica che riprese a fiorire sul tracciato latino della Via Antiqua Major, quella che risaliva l’acquedotto del Sarno in direzione di Palma Campania, svoltando a Somma e raggirando il Vesuvio, Pompei e Ercolano. Masuccio, dal canto suo, scrisse cinquanta novelle dedicate a Ippolita d’Aragona, Duchessa di Calabria, nuora acquisita della Regina, con ogni storia ispirata ai romanzi del Boccaccio e dedicata ad un reale, con stile soverchiamente fiorito e adorno di sforzate eleganze, lordata di latinismi e idiotismi del volgare pugliese. Un lavoro forse meno nobile dei colleghi, ma più vivo e festoso, con soggetti pregni di ridicolo, maschere oscene e dispettose, per alcuni ispirate o copiate dal Luciano o da Bertruzio Salernitano, secondo Gesnero. Si tratta di racconti su personaggi realmente vissuti e di casi di cronaca, come annotarono i critici. A dire dell’erudito Drejero essi uscirono dalla viva penna del Masuccio, informato conoscitore e medico di professione, già segretario del Principe di Salerno, ancor prima del Tasso.7
Egli pose in stampa in francese, a Parigi, le prime diciannove novelle, da cui attinsero altri come Giambattista Casti, con l’ultima edizione, a Venezia, nel 1484, dopo la sua morte. L’ammiraglio Roberto Sanseverino, IX conte di Marsico, divenuto Principe di Salerno, fu il primo del Regno a mettere mano ad un nuovo tipo di costruzione. Lo si vide quando cominciò ad edificare il palazzo napoletano situato di rimpetto a S.Chiara, poi ridotto a chiesa del Gesù nuovo, nel 1584, che non fu compita prima dell’anno 1470.8
La casa palazziata era rivestita di pietre aguzze a punta di diamante, “come ancora si vedono alla facciata del Gesù, ed al lato interno d’occidente il portone del palazzo era quello della chiesa attuale. Sulla porta dello stesso pose la sua arma, consistente in uno scudo con fascia rossa in campo d’argento, con due corni di bue sull’elmo”. Poiché un nobile, preso dall’invidia, parlava male di Roberto e inveiva contro i fregi di quell’insegna, egli, spiritosamente, volle aggiungere a quell’arma alcune parole impresse sul muro: Porto le corna come ognun le vede; ma tal le porterà chi non se lo crede...