Description
LA CITTA’ DI APICE E L’OPPIDO BADIALE DI APICE, DUE PAESI GENERATI DALLA STESSA PROGENIE DI ASCOLI SATRIANO
Con questo libro, sulla scia dei tanti già pubblicati relativi alla storia in senso lato, si dà quindi inizio all’approfondimento vero e proprio, in vErità già cominciato con le pubblicazioni sulle cronache dei giornalisti del 1400 e del 1500, che hanno ridato valore alle battaglie sostenute dagli apicesi in ogni tempo in nome della libertà.
Non è quindi un excursus che solitamente ci si immagina, ma un vero trattato di storia locale inserito nella storia nazionale che fa comprendere in maniera esemplare che ci fu un passaggio da un’Apice all’altra, proprio come accaduto ai nostri tempi, fra un’Apice nuova ed un’Apice vecchia che però, allora, era unita alla contea di Ariano ma rappresentò anche prima sempre un valore religioso diverso, quasi di rito bizantino, in quanto, in “origine – come scrive l’editore -, non essendoci arcivescovi, gli abati avevano come punto di riferimento un cardinale. E’ quanto accadde per Apice, ora con la sua antica abbazia di S.Maria di Venticano sul fiume Calore (ancor prima che gli apicesi fondassero Pietradefusi), ora con quella di San Giovanni spoletano suo primo abate. A prescindere dai castelli, infatti, le abbazie rappresentarono il potere politico e religioso nei momenti più delicati del trapasso da un’epoca all’altra, sostituendo il rito latino a quello greco e poi fondendosi con esso. Sulle porte di bronzo del Duomo di Benevento, il vescovo di Ariano, da cui Apice dipese, ancora era raffigurato con mitra e pastorale. Lo stesso bassorilievo in marmo rinvenuto nella chiesa apicese raffigura un ecclesiastico di rito diverso”.
Ma quando il potere della chiesa si sfaldò col terremoto del 1348, che vide la nascita di un nuovo Principato Ultra che comprese meno di 30 paesi e della metropolia nell’attuale Benevento, Apice mutò volto, anzi, raddoppiò, fondando anche una Terra comunale: si ebbero quindi un castello che appartenne ai reali e un paese di proprietà dei suoi abitanti in luoghi diversi. “Col trascorrere degli anni, però, – scrive Bascetta – non bastò ad un centro abitato con una grande abbazia essere una Civitate e considerare i suoi abitanti degli uomini liberi. Ciò avveniva infatti solo nel momento in cui il sovrano pro tempore, cioè la massima espressione del comando, concedeva dei privilegi facendo diventare quella Terra feudale, o quella città, di proprietà della Corona, cioè una Città regia. Durante le vacazio dinastiche si è appurato che paesi di confine con Benevento, città rientrante fra gli stati della Chiesa, potessero essere salvaguardati dall’ala militare di un gonfaloniere papalino. Salta all’occhio del lettore il coraggio dimostrato dagli apicesi, nonché l’astuzia nell’abbandonare al momento giusto il partito perdente per darsi al nuovo conquistatore. Un’attenzione accresciuta con le medaglie meritate sul campo, specie dopo la conquista, l’assoggettamento e il ripopolamento di una precedente Civitate chiamata Ascola fatta nascere da una colonia apicese. Un atto che permise ai valorosi di possedere quel territorio come Terra, esprimendovi dei sindaci eletti dai nobili, ma mantenendo la precedente Apice come Castello della Corona, e quindi venendo esentati dalle tasse. Col terremoto del 1348, che distrusse la provincia ecclesiastica beneventana della Capitanata, infatti, facendosi nascere l’arcivescovado a Civitate Beneventana, cioè nell’attuale Benevento, si rebbe la sede metropolitana di un arcivescovo (gettando le basi alla scomparsa di fatto del potere cardinalizio e degli abati). La nuova Apice fu quindi ricostruita in un luogo diverso e rientrò nel girone di un Principato Ultra e nell’orbita del vescovo di Ariano, poi soggetto all’Urbe beneventana”.
Vennero pubblicati cioè i primi privilegi angioini di cui si ha notizia durante l’invasione trecentesca del Re d’Ungheria, sebbene se ne trovi riscontro solo nel 1412 con la nascita di un’amministrazione pubblica, alla stregua della capitale. Un momento felice che permise alla piccola città di crescere intorno alla sua abbazia sotto gli Angioini, indi con la casa d’Aragona.
I privilegi furono poi assorbiti parte dalla globalizzazione arcivescovile beneventana e parte dalla nuova dinastia catalana, ma restarono però in vita alcuni regolamenti feudali che in qualche modo si rifacevano agli antichi atti, sebbene dettati da un “don” e non piu’ dal sovrano. In totale sono trascorsi 600 anni dalla istituzione in Apice del primo sindaco, con tanto di Amministrazione dell’Università comunale.
Ma cominciamo da S.Maria Venticano sul confine fra Apice e Pietradefusi. Intorno al 1320, molto vicina ad Apice, era una antica abbazia che nei documenti antichi viaggia spesso unita al toponimo della vicina Civitate Beneventana.
Si tratta di S.Maria in Venticano. A tal proposito va ricordato che l’attuale Comune di Venticano è nato poco più di mezzo secolo fa da una costola di Pietradefusi. Quel paese ebbe ridisegnati i confini storici intorno al Casale di Campanariello e non all’antica abbazia di Venticano, che si diceva sul Ponte appiano, proprio quello dell’Appia antica che qualche metro più in là incontra Ponte rotto di Apice.
Venticano attuale nacque dunque da una costola di Pietradefusi, ma giova sapere che la chiesa madre di Pietradefusi fu fondata con un beneficio dell’Abate di San Lorenzo di Apice appena tre secoli orsono.
Il forte legame di Apice con il territorio circostante, spesso appartenuto a questo antico feudo, allo stato delle ricerche, non ci permette di affermare altro, ma da recenti scoperte sappiamo per certo che l’antica abbazia di S.Maria di Venticano era sul fiume Calore da cui fu inghiottita, in seguito ad una piena oppure ad un terremoto, col suo monastero di San Martino.
A fare di tutta l’erba un fascio furono le fondazioni ecclesiastiche beneventane, a cui questi luoghi, ribattezzati coi toponomi originari, pervennero dopo le diverse distruzioni. Da qui il via vai di casalini, provenienti da questo o quel casale vicino, inviati ora in un fondo ora nell’altro per riabitarlo. Ciò permise di ricostruire altre chiese anche con gli stessi nomi e in luoghi poco distanti ma rientranti nell’altro “atto”, parola in uso ancora oggi a Venticano, quindi nel territorio oltre il fiume.7
I fuggiaschi riabitarono altresì il feudo del Cubante in San Martino Sannita, oltre che il nuovo monastero di Santa Maria di Venticano in Diocesi di Montefusco e non più di Ariano. L’area su cui era l’antica abbazia di Venticano restò quindi in un territorio soggetto direttamente al Vaticano di Roma – presumibilmente col nome di Terre Beneventane -, mentre il ricostruito monastero di Venticano, non essendo ancora nata Pietradefusi, fu fra i possedimenti di Montefusco poi donati a Montevergine, ma rientranti nella provincia di Giustiziario Principato. Da qui la similitudine della provincia di Giustiziario Principato (beneventano) e Montagna di Montefusco con il Principato (salernitano) e Montagna di Amalfi.
A partire dal 1308, fra le chiese della diocesi di Montefusco, in Monte Fuscolo eiusdem Diocesis, iscritte nella Rationes decimarum Italiae della Campania, compare il Monasterium Venticani che paga un’oncia e mezza, mentre tutte le altre chiese soggette direttamente al papa pagano pochi tarì. Si tratta di un versamento fatto dagli abati di tutte le abbazie che possedevano il vecchio nome, sebbene alcune fossero state ricostrute in luoghi diversi. Lo stesso abate di Montefuscolo, Symeon de Fulco, sborsa solo 15 tarì, l’abate Nicolaus de Fulco 6 tarì, l’abate Nicolaus de Vinfrido 12 tarì, l’abate Iohannes de Vinfredo 7 tarì e mezzo, l’abate Nicolaus de San Georgio 6 tarì, l’abate Rogenius filius Guilberti 6 tarì, un’oncia è per i benefici del fu abate Raonis de Niclisio, e così via dicendo. Fra i 53 vassalli soggetti al Vaticano nominati nel documento, oltre agli abati, si distinguono il Domino Henricus Manerice che paga 6 tarì, il figlio del Domino Guillelmi Symonis de Goffrido che paga 2 tarì, il fu figlio di Guerrerii de Molisio con 4 tarì per il suo beneficio, il magister Martino de Palma che paga 6 tarì. I restanti nomi dell’elenco appartengono solo a presbiteri. Le decime vaticane del 1327 sono elencate per comunità religiose, a meno di Venticano che figura come monastero: il clero di Montisaperti paga 7 tarì e mezzo, quello de Montefalzono sborsa 12 tarì, quello di Montemilitum paga 15 tarì e quello di Montefuscolo 3 once. Il Monasterium Venticani paga 20 tarì. Nel 1328 i tarì pagati da Venticano come monasterio scendono a 10, mentre negli altri paesi continuano a pagare i preti: Monte Aperto sborsa 3 tarì, Monte Mileto 9 tarì e Montefuscolo 1 oncia e 2 tarì.8
Sette abati, quattro beneficiati e quarantadue presbiteri sono l’intera provincia delle Terre Beneventane? Essi scompaiono fra il 1308 e il 1328 perché il potere amministrativo è assorbito da Benevento con la rifondazione di casali e grancìe, che divenne interesse primario delle abbazie feudali “provinciali”, come lo erano S.Sofia di Benevento e Montevergine. Lo scopo di espandersi ed incamerare anche le decime un tempo incassate dal Vaticano su questo territorio appartenuto all’antica Diaconia delle abbazie facenti capo a Civitate (in Daunia), era ora assorbita dagli abati feudali beneventani sempre più potenti in vista della nascita dei nuovi sedili vescovili di Frigento e Avellino, con due nuove province religiose da annettere alla nascente metropoli dell’arcivescovo in Benevento.
Piccoli e inspiegabili sconvolgimenti locali che però lasciano intendere cosa accadesse nelle città importanti da cui ricavavano profitto papi o re. E’ il caso della nostra Civitate Beneventana, anch’essa ricostruita più volte.
Recensioni
Non ci sono ancora recensioni.
Only logged in customers who have purchased this product may leave a review.