600° ANNIVERSARIO DEGLI STATUTI ANGIOINI DELLA CITTA’ DI APICE IN VALLE BENEVENTANA. Gli statuti municipali concessi dai Re di Puglia e di Napoli Giovanna I d’Angiò, Ladislao Durazzo, Giovanna II d?Angiò. Magna Carta della provincia di Principato Ultra Benevento e Capitanata

30,00


Copertina posteriore

Castelvetere Benevento, Giustiziario Principato e Terre B.

La città antica, quella col vecchio castello di Benevento detta Castelvetere, contesa da papi e re, tornò in dominio della Chiesa dal 1266.
A Napoli era il tempo di Re Carlo II d’Angiò alla guida del reame di tutto il sud, detto Regno di Sicilia, almeno fino a quando non si dividerà in tre pezzi. Una delle parti, quella al di qua del Faro, essendo detta pure Sicilia, “come può vedersi in alcune lettere di Corrado”, generò ulteriori confusioni storiche, mentre l’attuale Sicilia e Maiorca venivano invase dai Catalani, spintisi fino a Reggio Calabria e non solo.1
Per tale motivo, anche quelle che oggi sono località di campagna possono nascondere un’orgine più antica rispetto agli attuali centri urbani e confondersi con omonime cittadelle già presenti nell’una e nell’altra Sicilia. A questo va aggiunto il continuo spostamento umano da un punto all’altro dello stesso territorio o anche in uno dei casali distanti ad esso soggetti, cosicché quello che era un castello diventò un rudere e quello che era un feudo inabitato, magari solo con un’abbazia isolata, poté trasformarsi in paese, intorno alla fondazione di un successivo palazzo baronale creduto essere la fortezza originaria. Nessuno, più degli apicesi, sa cosa significhi spostarsi da un colle all’altro, fra frane e terremoti.
Qualcosa del genere accadde anche per l’antica Benevento, mentre gli Angioni, osteggiati dai Catalani sbarcati su isole ed isolotti del Mediterraneo (giunsero oltre l’Equatore), guerreggiavano per spartirsi il territorio. Le province rientrarono così ora in un regno, ora nell’altro e, laddove non fu possibile conquistarle, restarono giustizierati, a loro volta divisi fra feudi abitato o abbandonati col placet del signore che si sottometteva oppure subiva distruzioni e imposizioni, vedendosi sottrarre i beni da un diverso domino.
Ne nacquero infinite contese fra le entità religiose annesse all’uno o all’altro partito, costrette a rifondare qua e là casali per l’amministrazione del potere religioso e temporale. Le discordie più comuni di quei tempi che riguardano l’area del Castelvetere erano fra conti e Rettore di Benevento per accaparrarsi i profitti derivanti dal lavoro dei vassalli.2
Vale come esempio quel che accadde nel 1319, quando Raone, elevato a vescovo di Ariano da Bonifacio VIII, ebbe il compito di derimere la lite fra i monaci di S.Mariae de Crypta e quelli di S.Maria de Gualdo rappresentati dal cappellano papale di Santa Romana Ecclesia, il domino Guillelmo de Balaeto Archiidacono Ecclesiae Forolivieb, nominato a Rettore di Benevento dalla sede centrale della Diaconia di Napoli. Motivi che portarono papa Giovanni XXII a decidere di far costruire in città una Rocca dei Rettori ed assicurare più tranquillità a tutti nella sua Terra Beneventana, quella che intese far staccare dalla provincia del regno, che si cominciò a chiamare Valle Beneventana, e dal Giustizierato a cui era stata legata.
In verità, nel 1323, i tumulti continuarono proprio contro il Rettore beneventano Guglielmo de Balaeto, facendo accorrere Carlo Duca di Calabria, figlio di Re Roberto, al palazzo del Magistrato Arnaldo (regio arcidiacono-cappellano rettore pontificio di Campania e Marittima) per una causa di terzo grado. Un fatto scottante per il papa, il quale, da Avignone, si degnò di raccomandare Guglielmo in modo speciale a Tommaso di Marzano Conte di Squillace e Maresciallo del Regno di Sicilia, affinché lo assistesse nel governo di Benevento.3
Alla morte del Conte Roberto di Apice, avvenuta nel 1323, i suoi beni e la proprietà feudale di Calabritto, non avendo egli lasciato eredi, passarono alla sorella Roberta, moglie di Guglielmo Sabrano di Ariano, creando altri dissapori sul nascente confine fra Contea della provincia e Stato della Chiesa. Ne approfittarono i padulesi, vassalli di Guglielmo Sabrano, per tassare i territori dei beneventani fra i fiumi Calore e Tammaro, andando “contro il tenore de’ privilegj conceduti alla città dal Re Carlo I”.
Era allora Rettore di Benevento, Marittima e Campagna, Gerardo della Valle (priore di S.Tommaso di Monpellier), il quale, vedendo che Guglielmo invece di reprimere l’orgoglio dei suoi vassalli, “prestava ad essi tutta la sua assistenza, né reggendosi il cuore di soffrire la perfidia dei padulesi, determinò di chiedere giustizia al Re Roberto” Re Roberto, fra l’altro impegnato nel completamento del Monasterii Hostiae Sanctae de Civitate Neapolis affidato alla Regina nel 1316 coi proventi del tenimentum illud quod vocatur Corrigia Trojana che dovevano consentire anche il completamento della Cattedrale Madre della Città di S.Maria Lucera, liberata dai Saraceni.4
Ad ogni modo, il 18 novembre 1325, in Neapoli ante Castrum novum, presso l’ospizio appartenuto al fu Giovanni de Adissiaco, si tenne consiglio fra il Duca di Calabria e Gerardo della Valle o de Valle, Rettore di Campania Maritime e Benevento, deputato dalla s.Sede, il quale comparì davanti al giudice beneventano Riccardo Pantasia, ambasciatore e nunzio.
La storia era vecchia di almeno 38 anni, in quanto si rifaceva ad un precedente documento del 1287, quando erano ancora vivi i militi Guglielmo de Molisio e Unfrido Rogerii di Montefusco, cittadini beneventani dell’allora Justitiario Principatus, provincia del regno di Carolus dei Gratia Rex Sicilie, cioé il Justituario Principatus, & Terre Beneventane &c, vale a dire la zona Ultra e Citra della provincia di Giustiziario delimitata dalla Serra Montorio (oggi San Bartolomeo in Galdo). La data è del 4 agosto, al II anno di regno, scritta in quel di Melfi (futuro capoluogo di provincia della Basilicata). E’ proprio la querelle sui “vassalli de Castro Paduli, ultra citraque Flumina Calori & Tammaria habere”. In essa si nominano i papi Onorio e Clemente: Damus ecce per speciales literas nostras formam presentium continentes, Justitiariis Principatus Ultra Terras Montorii. Il documento, prendendolo per autentico, fu presentato al processo di Neapoli del 24 gennaio 1325, per Bartholomei de Capua Militem Logothetam, & Prothonotoraium Regni Sicilie, quando, il giorno seguente, sotto l’intestazione di Roberto Rex, si riparla della provincia di Justitiaruus Principatus ultra terras Montorii, provvedendo ad inviare una missiva al conte Guglielmo Sabrano: ad notizia vestram perferre providimus quod pro Civibus Beneventi Nobili Viro Guillelmo de Sabrano Ariani & Apici Comiti nostras Literas in ha forma presentialiter destinamus.5
Apice, intanto, pervenuta ai baroni Shabran, passò ad Elzeario de Sabrano, definito Comes di Ariano dal 1327, indi ad Ermingano di Sabrano, il quale ottenne il titolo di Conte d’Apice e Signore di Calabritto. Questo noto cavaliere medioevale fu governatore di Vibo Valentia.
In quella città calabrese allargò e rafforzò il Castello costruendo una torre esagonale ed uno sperone triangolare. A completamento della cinta muraria eresse anche una delle sette porte detta “del Conte d’Apice”, riconoscibile dall’adiacente chiesetta della Madonna dei Poveri.6

Description

LA CITTA’ DI APICE E L’OPPIDO BADIALE DI APICE, DUE PAESI GENERATI DALLA STESSA PROGENIE DI ASCOLI SATRIANO

Con questo libro, sulla scia dei tanti già pubblicati relativi alla storia in senso lato, si dà quindi inizio all’approfondimento vero e proprio, in vErità già cominciato con le pubblicazioni sulle cronache dei giornalisti del 1400 e del 1500, che hanno ridato valore alle battaglie sostenute dagli apicesi in ogni tempo in nome della libertà.
Non è quindi un excursus che solitamente ci si immagina, ma un vero trattato di storia locale inserito nella storia nazionale che fa comprendere in maniera esemplare che ci fu un passaggio da un’Apice all’altra, proprio come accaduto ai nostri tempi, fra un’Apice nuova ed un’Apice vecchia che però, allora, era unita alla contea di Ariano ma rappresentò anche prima sempre un valore religioso diverso, quasi di rito bizantino, in quanto, in “origine – come scrive l’editore -, non essendoci arcivescovi, gli abati avevano come punto di riferimento un cardinale. E’ quanto accadde per Apice, ora con la sua antica abbazia di S.Maria di Venticano sul fiume Calore (ancor prima che gli apicesi fondassero Pietradefusi), ora con quella di San Giovanni spoletano suo primo abate. A prescindere dai castelli, infatti, le abbazie rappresentarono il potere politico e religioso nei momenti più delicati del trapasso da un’epoca all’altra, sostituendo il rito latino a quello greco e poi fondendosi con esso. Sulle porte di bronzo del Duomo di Benevento, il vescovo di Ariano, da cui Apice dipese, ancora era raffigurato con mitra e pastorale. Lo stesso bassorilievo in marmo rinvenuto nella chiesa apicese raffigura un ecclesiastico di rito diverso”.
Ma quando il potere della chiesa si sfaldò col terremoto del 1348, che vide la nascita di un nuovo Principato Ultra che comprese meno di 30 paesi e della metropolia nell’attuale Benevento, Apice mutò volto, anzi, raddoppiò, fondando anche una Terra comunale: si ebbero quindi un castello che appartenne ai reali e un paese di proprietà dei suoi abitanti in luoghi diversi. “Col trascorrere degli anni, però, – scrive Bascetta – non bastò ad un centro abitato con una grande abbazia essere una Civitate e considerare i suoi abitanti degli uomini liberi. Ciò avveniva infatti solo nel momento in cui il sovrano pro tempore, cioè la massima espressione del comando, concedeva dei privilegi facendo diventare quella Terra feudale, o quella città, di proprietà della Corona, cioè una Città regia. Durante le vacazio dinastiche si è appurato che paesi di confine con Benevento, città rientrante fra gli stati della Chiesa, potessero essere salvaguardati dall’ala militare di un gonfaloniere papalino. Salta all’occhio del lettore il coraggio dimostrato dagli apicesi, nonché l’astuzia nell’abbandonare al momento giusto il partito perdente per darsi al nuovo conquistatore. Un’attenzione accresciuta con le medaglie meritate sul campo, specie dopo la conquista, l’assoggettamento e il ripopolamento di una precedente Civitate chiamata Ascola fatta nascere da una colonia apicese. Un atto che permise ai valorosi di possedere quel territorio come Terra, esprimendovi dei sindaci eletti dai nobili, ma mantenendo la precedente Apice come Castello della Corona, e quindi venendo esentati dalle tasse. Col terremoto del 1348, che distrusse la provincia ecclesiastica beneventana della Capitanata, infatti, facendosi nascere l’arcivescovado a Civitate Beneventana, cioè nell’attuale Benevento, si rebbe la sede metropolitana di un arcivescovo (gettando le basi alla scomparsa di fatto del potere cardinalizio e degli abati). La nuova Apice fu quindi ricostruita in un luogo diverso e rientrò nel girone di un Principato Ultra e nell’orbita del vescovo di Ariano, poi soggetto all’Urbe beneventana”.
Vennero pubblicati cioè i primi privilegi angioini di cui si ha notizia durante l’invasione trecentesca del Re d’Ungheria, sebbene se ne trovi riscontro solo nel 1412 con la nascita di un’amministrazione pubblica, alla stregua della capitale. Un momento felice che permise alla piccola città di crescere intorno alla sua abbazia sotto gli Angioini, indi con la casa d’Aragona.
I privilegi furono poi assorbiti parte dalla globalizzazione arcivescovile beneventana e parte dalla nuova dinastia catalana, ma restarono però in vita alcuni regolamenti feudali che in qualche modo si rifacevano agli antichi atti, sebbene dettati da un “don” e non piu’ dal sovrano. In totale sono trascorsi 600 anni dalla istituzione in Apice del primo sindaco, con tanto di Amministrazione dell’Università comunale.
Ma cominciamo da S.Maria Venticano sul confine fra Apice e Pietradefusi. Intorno al 1320, molto vicina ad Apice, era una antica abbazia che nei documenti antichi viaggia spesso unita al toponimo della vicina Civitate Beneventana.
Si tratta di S.Maria in Venticano. A tal proposito va ricordato che l’attuale Comune di Venticano è nato poco più di mezzo secolo fa da una costola di Pietradefusi. Quel paese ebbe ridisegnati i confini storici intorno al Casale di Campanariello e non all’antica abbazia di Venticano, che si diceva sul Ponte appiano, proprio quello dell’Appia antica che qualche metro più in là incontra Ponte rotto di Apice.
Venticano attuale nacque dunque da una costola di Pietradefusi, ma giova sapere che la chiesa madre di Pietradefusi fu fondata con un beneficio dell’Abate di San Lorenzo di Apice appena tre secoli orsono.
Il forte legame di Apice con il territorio circostante, spesso appartenuto a questo antico feudo, allo stato delle ricerche, non ci permette di affermare altro, ma da recenti scoperte sappiamo per certo che l’antica abbazia di S.Maria di Venticano era sul fiume Calore da cui fu inghiottita, in seguito ad una piena oppure ad un terremoto, col suo monastero di San Martino.
A fare di tutta l’erba un fascio furono le fondazioni ecclesiastiche beneventane, a cui questi luoghi, ribattezzati coi toponomi originari, pervennero dopo le diverse distruzioni. Da qui il via vai di casalini, provenienti da questo o quel casale vicino, inviati ora in un fondo ora nell’altro per riabitarlo. Ciò permise di ricostruire altre chiese anche con gli stessi nomi e in luoghi poco distanti ma rientranti nell’altro “atto”, parola in uso ancora oggi a Venticano, quindi nel territorio oltre il fiume.7
I fuggiaschi riabitarono altresì il feudo del Cubante in San Martino Sannita, oltre che il nuovo monastero di Santa Maria di Venticano in Diocesi di Montefusco e non più di Ariano. L’area su cui era l’antica abbazia di Venticano restò quindi in un territorio soggetto direttamente al Vaticano di Roma – presumibilmente col nome di Terre Beneventane -, mentre il ricostruito monastero di Venticano, non essendo ancora nata Pietradefusi, fu fra i possedimenti di Montefusco poi donati a Montevergine, ma rientranti nella provincia di Giustiziario Principato. Da qui la similitudine della provincia di Giustiziario Principato (beneventano) e Montagna di Montefusco con il Principato (salernitano) e Montagna di Amalfi.
A partire dal 1308, fra le chiese della diocesi di Montefusco, in Monte Fuscolo eiusdem Diocesis, iscritte nella Rationes decimarum Italiae della Campania, compare il Monasterium Venticani che paga un’oncia e mezza, mentre tutte le altre chiese soggette direttamente al papa pagano pochi tarì. Si tratta di un versamento fatto dagli abati di tutte le abbazie che possedevano il vecchio nome, sebbene alcune fossero state ricostrute in luoghi diversi. Lo stesso abate di Montefuscolo, Symeon de Fulco, sborsa solo 15 tarì, l’abate Nicolaus de Fulco 6 tarì, l’abate Nicolaus de Vinfrido 12 tarì, l’abate Iohannes de Vinfredo 7 tarì e mezzo, l’abate Nicolaus de San Georgio 6 tarì, l’abate Rogenius filius Guilberti 6 tarì, un’oncia è per i benefici del fu abate Raonis de Niclisio, e così via dicendo. Fra i 53 vassalli soggetti al Vaticano nominati nel documento, oltre agli abati, si distinguono il Domino Henricus Manerice che paga 6 tarì, il figlio del Domino Guillelmi Symonis de Goffrido che paga 2 tarì, il fu figlio di Guerrerii de Molisio con 4 tarì per il suo beneficio, il magister Martino de Palma che paga 6 tarì. I restanti nomi dell’elenco appartengono solo a presbiteri. Le decime vaticane del 1327 sono elencate per comunità religiose, a meno di Venticano che figura come monastero: il clero di Montisaperti paga 7 tarì e mezzo, quello de Montefalzono sborsa 12 tarì, quello di Montemilitum paga 15 tarì e quello di Montefuscolo 3 once. Il Monasterium Venticani paga 20 tarì. Nel 1328 i tarì pagati da Venticano come monasterio scendono a 10, mentre negli altri paesi continuano a pagare i preti: Monte Aperto sborsa 3 tarì, Monte Mileto 9 tarì e Montefuscolo 1 oncia e 2 tarì.8
Sette abati, quattro beneficiati e quarantadue presbiteri sono l’intera provincia delle Terre Beneventane? Essi scompaiono fra il 1308 e il 1328 perché il potere amministrativo è assorbito da Benevento con la rifondazione di casali e grancìe, che divenne interesse primario delle abbazie feudali “provinciali”, come lo erano S.Sofia di Benevento e Montevergine. Lo scopo di espandersi ed incamerare anche le decime un tempo incassate dal Vaticano su questo territorio appartenuto all’antica Diaconia delle abbazie facenti capo a Civitate (in Daunia), era ora assorbita dagli abati feudali beneventani sempre più potenti in vista della nascita dei nuovi sedili vescovili di Frigento e Avellino, con due nuove province religiose da annettere alla nascente metropoli dell’arcivescovo in Benevento.
Piccoli e inspiegabili sconvolgimenti locali che però lasciano intendere cosa accadesse nelle città importanti da cui ricavavano profitto papi o re. E’ il caso della nostra Civitate Beneventana, anch’essa ricostruita più volte.

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Editorial Review

DAL PARTENIO ALLA VALLE BENEVENTANA, LA DOTE MATERNA NEI CONTRATTI PATERNI

La gonnella imperiale di saia scarlatta

 

Risalire ai vestiti femminili per antonomasia che le donne della Valle Beneventana si tramandavano di madre in figlia attraverso la dote non è impresa facile. Possiamo però dire, alla luce delle ricerche effettuate presso hli Archivi di Stato di Napoli e di Avellino, di aver reperito, fra i volumi notarili conservati, sebbene spesso illegibili, la raccolta di alcuni atti che si sono rivelati utili per il paragone fra i paesi della Montagna di Montefusco e del Partenio, prendendo a campione la centralità di Torrioni e di Pietrastornina, sedi di primari notai del Principato Ultra.5
Ricerca che potrebbe risultare non vana in un confronto fra i paesi di sopra e di sotto le due Montagne che dividono Avellino da Benevento e che frenano un’idea iniziale di similitudini storiche che non accompagnano le due valli. Stando a questi pochi, ma preziosi fogli, è stato quindi possibile capire come fossero fatti gli abiti, quelli che oggi chiameremmo costumi tradizionali, che le donne da marito, quelle definite vergini in capillis dopo i dodici anni, poi chiamate “zite” se i tempi si allungavano, portavano in dote nel giorno del matrimonio.
C’è da dire, aprendo una parentesi, che è stato possibile decifrare qualche pagina anche alla fine del 1400, ma è evidente che i vestiti sono di gran lunga precedenti, in quanto si ripetono ugualmete da donna in donna, da madre in figlia, sebbene solo gli ornamenti siano di diversa fattura in base al ceto sociale. Seguiamo, a titolo di esempio, qualche passo dei Capitoli Matrimoniali del notaio di Apice, paese di confine, dove la provincia di Principato Ultra e lo stesso Regno lasciavano il confine allo Stato della Chiesa di Benevento.
Il primo è del 1741 e si riferisce alla zita in capillis Teresa Verucci figlia legittima di Biaso Verucci e Barbara Galiarde, i quali, si abbiano di dotare à Andonio Cociniello, della altra parte, [in quanto prossimo marito e] figlio di Cirijaco Cociniello è Cecilia Laurito; e il predetto Andonio si contenta di pigliarsi per sua cara e ligittima sposa alla detta Teresa seconno comanna il rito della Santa Madre Chiesa Cattolica, che si sono convenuti, dalla una è dalla altra parte, cioè detta Teresa, di pigliarsi al predetto detto Andonijo per sua cara e legittima sposa alla predetta Teresa, e dalla aldra parte il detto Bijaso e Barbara, i quali, si obbligano di dotare sua figlia seconno Iddio li spira e non facenno crede che sia detta robba di detto Biaso.
Ed ecco la dote:
in primis promette di darli di contanti Docati 40,0 con annui cinque di tempo, con pagarne ogni anni Docati 8 e Carlini spari;
item anna tre di panni di tutte sorte; item [per] rama e ferro, Carlini 3.2.10;
più un letto fornito solamente il materazzo mangante;
più una gonnella di saia imperjale con maniche di saia scarlatina;
più cassa di noce di tomola 3.
Dal citato documento veniamo a sapere che ad Apice, quando si maritava una vergine, i genitori avevano diversi anni di tempo per pagare la dote al marito. Soldi che serviranno alla famiglia (danaro, asciugamani, lenzuola, rame e ferro per il letto). Mentre fin da subito avviene la dotazione del materasso, regali vari ma, principalmente la veste. Essa è rappresentata da una gonnella di saia imperjale con maniche di saia scarlatina.
Nel confronto con l’area prettamente avellinese, a Valle di Mercogliano, si parla invece di una gonna con goverdina di seta semplice verde. E’ un atto del 1790 del notaio Zigarelli sulla concessione a causa di matrimonio di Gennaro della Pia in causa con gli eredi della futura sua sposa Angiola, figlia di Raimondo, avendo avuto questa due scotonazze di lana con veste, quattro coscine di lana anco con veste, una cosolina di rame, una gonna con goverdona di seta semplice verde, dodici libbre di seta, una croce d’oro per uso di donna consistente in pietre rosse, ed verdi, un paio di fioccagli d’oro, e tutti gli altri mobili esistenti in detta sua casa tanto di rame, biancherie, un sumarro c r e tutto quanto acquista esso Gennaro s’intende donato alla detta Angiola sua futura sposa.6
Il mercoglianese Paolo dello Russo, nel 1746, accompagnato dal padre Angelo, dovendo sposare Rachele Vecchiarelli, figlia della vedova Teresa di Ruggiero, si reca dal notaio Salvatore de Leo, per dare seguito ai capitoli matrimoniali contratti, secondo cui la promessa la dote del valore di 35 ducati, cioè la robba s’avesse da consegnare a padre e figlio dello Russo prima della consagrazione del matrimonio. Si trattava di 15 ducati, già ricavati dalla vendita del legname, e di altri 20 riferiti al valore della sua robba consistente in una gonna di drappo di colore di feccia con fiori d’oro e d’argento apprezzata, estimata e valutata per il prezzo di ducati 16, una filza di sennacoli d’oro al numero di 54, apprizzata, stimata e valutata per il prezzo di ducati 9, tre lenzuola nuove di tela di casa per carlini 30, due camicie di donna, una tovaglia e mocaturo di donna con pezzilli attorno per carlini 30, ed un mantesino di tela di cassetta nuovo, un saccone di tela per carlini 15, e 25 braccia di tela nova per carlini 24, che in tutta fanno la somma di ducati 34 e carlini 9.7
Per il matrimonio fra Rosaria Paragone e Domenico Altiero di Apice, fra i beni dotali, vi sono il letto fornito, consistente in un saccone, un materazzo con rotoli venti di lana, con due coscine, una manta di lana di libre venti, una co[pe]rtina di straccia in pezzi 24 con pontilli in mezzo, due lenzuola di panno... In questo caso il genitore ha quattro anni di panni secondo l’uso e consuetudine di questa Terra [all’in]fuori delle due lenzole. Item Docati cinque di rame e ferro. La consuetudine appare quindi la fornitura di biancheria, che possa bastare per quattro anni, oppure i 5 ducati di rame e ferro. L’atto notarile non facilemente decifrabile e non ci viene incontro nella ricerca. Ma la curiosità è subito soddisfatta da un capitolo successivo, del 1742, relativo al matrimonio fra Vittoria di Sunno e Gennaro Vetere. In questo caso il genitore di parte femminile deve soddisfare tre anni di pannamenti secondo l’uso di questa Terra fra il termine di anni 3. Item carlini 30 di rame e ferro per il termine di anni 2. Quindi la fornitura, nello stesso paese, richiamandosi alla stessa usanza, non pare il termine temporale, nè il valore del rame e del ferro: tre anni di lenzuola e due anni di rame e ferro.
Si citano quindi altri beni: il solito materazzo con rotole di lana, il saccone [di foglie di pannocchia altrove dette preglie], una manta cardata di lana di Ducati 4,50. Finalmente ricompare, fra le cose dotali, una gonnella di sai[a] imperiale con maniche guarnita con trame [o trene=lacci?] di seta. E’ questo tipo di gonna, quindi, l’elemento preciso, sempre presente, che si tramanda di madre in figlia, insieme alle lenzuola e al materasso, ma anche a rame e ferro.
E’ come se le doti fossero un bene delle moglie che però era amministrato dai mariti, come risulta da un atto del 1801. Un paio di fioccagli d’oro da 6 ducati, quattro cuscini di lana, una manta di lana, un telaio di legno da 3 ducati per far tele, un covertino di bambace, quattro lenzole di canapa e stoppa, una guancia di borattino, un sacconte di tela di stoppa e una veste di matarazzo di finiello e altro ancora sono la dote che Aniello Napolitano della Terra di Summonte attesta come marito ed amministratore legittimo di Saveria di Grezia di Ospedaletto.8
Un altro documento, del 1742, riguarda il matrimonio fra Teresa Pagliuso e Bartolomeo Carchietta di Apice. Teresa porta in dote un saccone, un materazzo con rotoli di lana [che] è proprio quello tale e quale che fu di detta quondam sua moglie con le cuscine, una manta cardata di Ducati 4, una co[pe]rtina di braccia 24, un tornaletto. Ma eccoci al vestito della festa: una gonnella di saia con maniche di saia scarlattina. E’ proprio simile alla dote precedente, ma appare più signorile, la veste che Rosa Pagliuso porta allo sposo Giovanni Chiucchiuso, nel 1742: una gonna di saia imperiale di saia scarlatta guarnita però le maniche con trame di seta. Altri due documenti del 1742. Il primo, quasi indecifrabile, fra le altre cose, annovera sicuramente quattro camicie a ccannatora di tela e pizzilli, due mesali di bambacie fine, due sarvietti in tela a coppetiello e due mesali pure a coppetiello. La Cacciatora, invece, ben più ricca, porterà in dote la gonnella di saia imperiale con maniche anche di saia, guarnite solamente le maniche e il busto di trame d’argento da darola in die sposalitij.
Il documento che sancisce il giorno del matrimonio come il momento in cui viene consegnata la gonna che rappresenta una sorta di testimone che, nella parte del busto e delle maniche, si impreziosisce di trame d’argento: una dote che si caratterizza dalla donazione, nel giorno dello sposalizio, di una gonna scarlatta con fregi diversi a seconda dello stato sociale delle donne: gonnella scarlatta di saio imperiale con maniche in saio; gonnella scarlatta di saio imperiale con maniche in frene di seta; gonnella scarlatta di saio [imperiale] con maniche in saio; una gonn[ell]a scarlatta di saio imperiale con maniche in frene di seta; una gonnella [scarlatta] di saio imperiale con maniche maniche e busto in trame d’argento. I costumi ufficiali maschili sono rappresentati dall’uomo in pantalone e camicia bianca e dalla donna in abito lungo scarlatto con fregi ai polsi dello stesso tessuto, seta o anche d’argento. Presumibilmente si tratta quindi di una gonnella di panno scarlatto tagliato a guisa di toga o stola fino al tallone e lavorata a mano. E’ ornata nel lembo da varie fasce sempre di scarlatto o vellutino in seta uguale o diverso da quello della toga. Le cuciture delle maniche sarebbero quindi ornate di liste di scarlattino o vellutino forse ad interlaccio che può ornare anche il busto. Il caso dell’argento è forse propriamente della chiusura della pettina, così come in alcuni usi, con bottoni d’argento o lacci di seta.
L’abito a gonnella si completerebbe quindi, nella parte sottostante, con la vera tunica senza maniche, una sorta di casacca, mentre le gambe, a questo punto, sarebbero coperte da calzette ricamate in seta con ai piedi i classici pianelli ma anch’essi ricamati. Non resta che rovistare nelle soffitte alla ricerca della veste scarlatta.9
Abbiamo quindi rinvenuto in ben cinque casi su sette una dote che si caratterizza dalla donazione, nel giorno del matrimonio, di una gonna scarlatta con fregi diversi a seconda dello stato sociale delle donne di Apice:
1. gonnella scarlatta di saio imperiale con maniche in saio.
2. gonnella scarlatta di saio imperiale con maniche in frene di seta.
3. gonnella scarlatta di saio [imperiale] con maniche in saio.
4. una gonn[ell]a scarlatta di saio imperiale con maniche in frene di seta.
5. una gonnella [scarlatta] di saio imperiale con maniche maniche e busto in trame d’argento.
I costumi ufficiali di Apice sono rappresentati dall’uomo in pantalone e camicia bianca e dalla donna in abito lungo scarlatto con fregi ai polsi dello stesso tessuto, seta o anche d’argento.
Presumibilmente si tratta quindi di una gonnella di panno scarlatto tagliato a guisa di toga o stola fino al tallone e lavorata a mano. E’ ornata nel lembo da varie fasce sempre di scarlatto o vellutino in seta uguale o diverso da quello della toga. Le cuciture delle maniche sarebbero quindi ornate di liste di scarlattino o vellutino forse ad interlaccio che può ornare anche il busto. Il caso dell’argento è forse propriamente della chiusura della pettina, così come in alcuni usi, con bottoni d’argento o lacci di seta. L’abito a gonnella si completerebbe quindi, nella parte sottostante, con la vera tunica senza maniche, una sorta di casacca, mentre le gambe, a questo punto, sarebbero coperte da calzette ricamate in seta con ai piedi i classici pianelli ma anch’essi ricamati.
Consuetudine ancora diversa per Altavilla Irpina, secondo i dettami dell’antica consuetudine che pare richiamarsi ai governatore feudali locali. Vale la pena citare la ricca dote che il notaio Antonio Cajfassi annuncia nel 1576 e stipula nel 1579, portatosi dal notaio Crescitiello di Altavilla, in favore della figlia damigella. Si tratta della domicella Angelella Criscitello citata in presenza del governatore del feudo di Altavilla, cioé dell’agente generale Francesco Bruno. Il notaio Cafasso redige quindi l’impegno della dote da farsi dall’onorabilis Berardino de Criscitello alla figlia Angelella il 12 luglio 1579, in un capitolo matrimoniale che ricorda la bona mobilia del valore di 27 ducati da restituire in caso di morte della sposa, secundum istrumento, e antiqua consuetudinem G[overnator]i Terre Altaville, cioè il detto G.i Altaville.
Questa la nota della sposa:
- 1 saccone novo ad braccia venti, Ducati 1.0.0.
- 1 coltra nova di braccia 20 co lo piomazzo, 4.2.0.
- 20 tomola di penne, 4
- 1 paro di lenzola co’ Lenole torchine de 24 braccia nove, 4
- 1 altro paro di lenzola nove, uno di essi co Lenole torchine e l’altro bianco, 4
[Subtotale D.17.20]
- 1 lenzuolo nuovo braccia 12 molence di raso, 2.0
- 1 coperta nova bianca, 3.1.10
- 1 paro di cammise con riticella bianche di filo bianco n(u)ove, 2
- 1 altro paro di cammise non lavorate de intagliato ma alle maniche e l’altra scheotta increspata alle maniche, 2.1.0
- 1 mesale novo calabrese di una canda e mezza, 0.4
- 3 tovaglie intocchi lavorate tutte de intaglio, 1.4.10
- 1 torclo di tovagli braccia dieci, 1.1.0
- 1 coscino lavorato a sete carmosino, 0.2.10
- 1 altro coscino lavorato di seta negra, 0.1.10
- 1 tovaglia lavorata di seta carmosina e reticelle del med., 0.4.0
- 1 vantesino lavorato de intaglio bianco ed reticelle del medesimo, 0.4.0
Anche in questo caso, dunque, quell’antica consuetudine, diremmo del feudo altavillese della famiglia Di Capua, cambia completamente, senza gonnella e fornitura annuale di biancheria, se non unatantum.
Insomma la consuetudine è diversa da luogo a luogo, per non parlare delle influenze che ancora pervengono dalla Puglia nel 1587, quando è ancora stretto il legame di Monte Rotario di Foggia con Casalbore. Per questo confronto abbiamo scelto come sempio il notaio Ferdinando Lombardo, sive Terre Montis Rotari, et Casalis Novi, et eorum castro, habitat ione fortellitio dominus vassallis, mediante istrumento rogato in Curia del Magnifico Anelli de Martino de Neapoli. Qui si costituiscono il magnifico Angelo de Ruvio o Ruccio della Terre Casearboris, cioè Casalbore, e l’Illustrissima Donna Lucretia Pignatella de Neapoli juere romano rum utilis padrona Terre Montis Rotari, et Casalis Novi. In dicta Terra Montis Rotari, et Casali Novo proprio di statiaj loci.
Ciliegina sulla torta spetta a Benevento, dove, come si ricava dall’atto della Magnifica Cassandra Schinosa di Benevento chità per il matrimonio con Giacomo Masone, si dice che questi, per le nozze, guadagna et s’intende guadagnare la quarta seguendo l’uso di Terra ipsa, cioè 40 ducati, in qualità di sposo.10