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Nell’ultimo ventennio, suppergiù a partire dagli inizi del nuovo secolo, sulla scorta di interpretazioni revisionistiche del processo di formazione dello Stato unitario da parte di una ristretta cerchia di storici accademici, che pur dissentendo dal come il medesimo si venne a costituire, non hanno mai messo in dubbio la soluzione unitaria, è fiorita una diffusa pubblicistica antiunitaria di giornalisti e storici estemporanei, che hanno proposto una lettura dell’unificazione nazionale dissacratoria, priva delle più elementari conoscenze del lungo ed articolato dibattito svolto sui temi risorgimentali da grandi storici: Croce, Salvemini, Omodeo, Candeloro e tanti altri che un cultore di storia, che tale ama definirsi, non può né sottovalutare né ignorare. Una vulgata pervasa, in particolare negli autori revisionisti meridionali, da nostalgismo per il Regno delle Due Sicilie, ossia per un regno felice di sviluppo e benessere, che in realtà non è mai esistito. È pur vero che la storia non si scrive una volta per sempre, in quanto il suo studio è oggetto sempre della ricerca di nuove testimonianze, che possono rafforzare tesi espresse in precedenza oppure, come talvolta capita, di rimettere in discussione ciò che prima sembrava acquisito in via definitiva, ma, in ogni caso, l’analisi storica mai e poi mai può essere viziata da stati d’animo emotivi e passionali. Se tanto è vero per i nostalgici neoborbonici, altrettanto lo è per leghisti, autonomisti e indipendentisti delle regioni dell’Italia del Nord, i quali dimenticano o ignorano che il divario, esistente già prima dell’unificazione a favore degli Stati preunitari del Centro-Nord, subì un incremento già all’indomani della proclamazione del nuovo Stato. Con l’unificazione del debito pubblico vi fu, infatti, un trasferimento di risorse dal Sud al Nord, ossia dalle parti meno ricche e meno indebitate della penisola verso quelle più ricche e più indebitate. La stesa cosa successe, in seguito, con la grande emigrazione, quando le rimesse degli emigranti meridionali presero, tramite le banche, la via del Nord per finanziare iniziative di investimenti produttivi. Lo stesso avvenne con le politiche protezioniste degli anni Ottanta dell’Ottocento, che favorirono le industrie del Nord e incisero in maniera negativa sulla già mortificata agricoltura meridionale.
Certo, successivamente, molte delle risorse destinate allo sviluppo delle regioni meridionali non hanno sortito l’effetto sperato, per cause spesso addebitabili ai meridionali stessi e alle loro classi dirigenti, ma anche in questi casi ad avvantaggiarsi dei sussidi statali spesso sono state le imprese del Nord. Tuttavia, al di là delle mode revisionistiche degli uni come degli altri, è giunto orami il tempo di interrogarsi su come effettivamente siano andate le cose, ossia su come sia stata articolata la costruzione politica, amministrativa e giuridica dello Stato unitario, quando il 78% della popolazione non sapeva né leggere né scrivere, quando poche centinaia di migliaia di cittadini eleggevano un Parlamento per la quasi totalità composto di aristocratici e borghesi possidenti terrieri, i cui interessi collidevano dramma-ticamente con quelli della gente comune sia del Sud sia del Nord, ma soprattutto del Sud. Ma fu il Sud e non il Nord a lasciarsi rappresentare da una classe parlamentare che, ad eccezione di alcuni personaggi di indiscutibile valore, quali: Francesco De Sanctis; Antonio Scialoja; Pasquale Stanislao Mancini; Silvio Spaventa; Francesco Crispi; Ruggiero Bonghi; Emerico Amari; Francesco Ferrara e non molti altri, fu una semplice e pura espressione del notabilato locale, costituito di proprietari terrieri, signori della rendita e sensali di voti, interessati soltanto a conservare il loro potere e totalmente estranei alle esigenze di vita dei loro concittadini. Ecco perché, anche a costo di sconfessare miti e credenze della storiografia libresca postrisorgimentale, occorre guardare al passato con onestà intellettuale e senza farneticanti pregiudizi. Diversamente fatti e fenomeni della nostra storia sfuggirebbero al criterio dell’obiettività e rischierebbero l’esaltazione acritica e la mistificazione.
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