Italia 1861

15,00


Copertina posteriore

Questo libro costituisce il quarto volume di una tetralogia: «Il Sud, un problema aperto»; «Il re è morto, viva il re – il Sud dai Borbone ai Savoia»; «La notte del Risorgimento – cause e sviluppo del Brigantaggio postunitario». Mentre i contenuti dei tre precedenti ineriscono alle condizioni del Sud prima dell’Unità, agli anni difficili e turbolenti del grande brigantaggio e alla nascita e sviluppo della questione meridionale, con quest’ultimo volume abbiamo inteso concludere il ciclo con uno studio il più possibile obiettivo e scevro di pregiudizi sulla formazione del nuovo Stato e sui suoi primi difficili e incerti passi. Il percorso dei contenuti si snoda dal confronto delle condizioni economiche e sociali tra il Regno delle Due Sicilie con quelle degli altri Stati preunitari per approdare al come e al perché lo Stato unitario venne a formarsi proprio nei modi e nelle forme in cui si venne a costituire e alle reazioni che ne seguirono, tra cui, la più importante, quella violenta del “Grande Brigantaggio”. In particolare il paragrafo l’economia meridionale prima dell’Unità e il capitolo relativo al brigantaggio sono, in parte, rielaborazioni sintetiche degli stessi argomenti trattati in altri volumi della tetralogia.
Abbiamo cercato di condurre la nostra analisi basandola essenzialmente sulla comparazione delle tesi di supporto all’una e all’altra parte, ossia a quella dei nostalgici del Regno del Sud e a quella degli autonomisti, federalisti o indipendentisti del Nord, sfrondando le une e le altre dei giudizi arbitrari non suffragati da testimonianze concrete e costruiti sulla fantasia e sull’emotività. Il risultato forse non potrà piacere a tutti, ma a costoro ricordiamo che la storia, ancorché scritta dai vincitori o dai vinti, dovrebbe contemperare e non obliare le ragioni dell’altra parte. L’equilibrio non è un principio soltanto della fisica, ma una categoria che comprende anche l’analisi storica, in quanto questa, già di per sé, richiede ponderazione e oggettività. Una seria analisi storica non può e non deve porsi al servizio di scelte ideologiche, non può e non deve rinfocolare antipatie e alimentare nostalgie. Deve, piuttosto, agevolare, attraverso lo studio del passato, la comprensione e la consapevolezza dei problemi del presente.
Un paragrafo a sé è costituito dal banditismo sardo che, pur non direttamente connesso alle vicende risorgimentali, trasse alimento, agli esordi dello Stato italiano, dai provvedimenti di legge di modernizzazione dell’agricoltura, a seguito dei quali in Sardegna una nuova e rapace borghesia si appropriò di terre e pascoli.
Michele Ceres

Description

Nell’ultimo ventennio, suppergiù a partire dagli inizi del nuovo secolo, sulla scorta di interpretazioni revisionistiche del processo di formazione dello Stato unitario da parte di una ristretta cerchia di storici accademici, che pur dissentendo dal come il medesimo si venne a costituire, non hanno mai messo in dubbio la soluzione unitaria, è fiorita una diffusa pubblicistica antiunitaria di giornalisti e storici estemporanei, che hanno proposto una lettura dell’unificazione nazionale dissacratoria, priva delle più elementari conoscenze del lungo ed articolato dibattito svolto sui temi risorgimentali da grandi storici: Croce, Salvemini, Omodeo, Candeloro e tanti altri che un cultore di storia, che tale ama definirsi, non può né sottovalutare né ignorare. Una vulgata pervasa, in particolare negli autori revisionisti meridionali, da nostalgismo per il Regno delle Due Sicilie, ossia per un regno felice di sviluppo e benessere, che in realtà non è mai esistito. È pur vero che la storia non si scrive una volta per sempre, in quanto il suo studio è oggetto sempre della ricerca di nuove testimonianze, che possono rafforzare tesi espresse in precedenza oppure, come talvolta capita, di rimettere in discussione ciò che prima sembrava acquisito in via definitiva, ma, in ogni caso, l’analisi storica mai e poi mai può essere viziata da stati d’animo emotivi e passionali. Se tanto è vero per i nostalgici neoborbonici, altrettanto lo è per leghisti, autonomisti e indipendentisti delle regioni dell’Italia del Nord, i quali dimenticano o ignorano che il divario, esistente già prima dell’unificazione a favore degli Stati preunitari del Centro-Nord, subì un incremento già all’indomani della proclamazione del nuovo Stato. Con l’unificazione del debito pubblico vi fu, infatti, un trasferimento di risorse dal Sud al Nord, ossia dalle parti meno ricche e meno indebitate della penisola verso quelle più ricche e più indebitate. La stesa cosa successe, in seguito, con la grande emigrazione, quando le rimesse degli emigranti meridionali presero, tramite le banche, la via del Nord per finanziare iniziative di investimenti produttivi. Lo stesso avvenne con le politiche protezioniste degli anni Ottanta dell’Ottocento, che favorirono le industrie del Nord e incisero in maniera negativa sulla già mortificata agricoltura meridionale.
Certo, successivamente, molte delle risorse destinate allo sviluppo delle regioni meridionali non hanno sortito l’effetto sperato, per cause spesso addebitabili ai meridionali stessi e alle loro classi dirigenti, ma anche in questi casi ad avvantaggiarsi dei sussidi statali spesso sono state le imprese del Nord. Tuttavia, al di là delle mode revisionistiche degli uni come degli altri, è giunto orami il tempo di interrogarsi su come effettivamente siano andate le cose, ossia su come sia stata articolata la costruzione politica, amministrativa e giuridica dello Stato unitario, quando il 78% della popolazione non sapeva né leggere né scrivere, quando poche centinaia di migliaia di cittadini eleggevano un Parlamento per la quasi totalità composto di aristocratici e borghesi possidenti terrieri, i cui interessi collidevano dramma-ticamente con quelli della gente comune sia del Sud sia del Nord, ma soprattutto del Sud. Ma fu il Sud e non il Nord a lasciarsi rappresentare da una classe parlamentare che, ad eccezione di alcuni personaggi di indiscutibile valore, quali: Francesco De Sanctis; Antonio Scialoja; Pasquale Stanislao Mancini; Silvio Spaventa; Francesco Crispi; Ruggiero Bonghi; Emerico Amari; Francesco Ferrara e non molti altri, fu una semplice e pura espressione del notabilato locale, costituito di proprietari terrieri, signori della rendita e sensali di voti, interessati soltanto a conservare il loro potere e totalmente estranei alle esigenze di vita dei loro concittadini. Ecco perché, anche a costo di sconfessare miti e credenze della storiografia libresca postrisorgimentale, occorre guardare al passato con onestà intellettuale e senza farneticanti pregiudizi. Diversamente fatti e fenomeni della nostra storia sfuggirebbero al criterio dell’obiettività e rischierebbero l’esaltazione acritica e la mistificazione.

Dettagli

EAN

9788872970133

ISBN

887297013X

Pagine

96

Autore

Ceres

Editore

ABE Napoli

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Editorial Review

Quello sguardo d’assieme del dopo unita’

 

Il 17 marzo 1861 veniva proclamato il nuovo Regno d’Italia. Dopo circa 1400 anni dalla fine dell’Impero Romano d’Occidente, gli Italiani avevano un proprio Stato, che si estendeva dalle Alpi alla Sicilia. Il re Vittorio Emanuele, in quanto re d’Italia, avrebbe dovuto essere Vittorio Emanuele I. Volle, invece, conservare l’ordine di successione dinastico del Regno Sardo per dimostrare che tra il Regno subalpino e quello italiano non vi era discontinuità. Fu, questa, una decisione non da tutti condivisa, che contribuì a rafforzare il convincimento, specie tra democratici e federalisti, che l’unificazione, in sostanza, si era ridotta ad un’annessione da parte del Piemonte degli altri Stati preunitari.
Il Risorgimento, tuttavia, ebbe quella e non altra conclusione, perché in quella situazione e in quelle condizioni un’altra soluzione, democratica o federalista, sarebbe stata oltremodo difficile se non impossibile da realizzare. I Savoia, pur con tutte le loro pecche, ebbero, comunque, il merito, rispetto ai Borbone di Napoli, di aver ampliato l’orizzonte della loro politica, ossia di aver saputo adeguarsi allo spirito dei tempi.
Il Risorgimento avrebbe potuto avere un esito diverso se Ferdinando II, re delle Due Sicilie, il più esteso e il più popoloso tra gli Stati preunitari, non avesse rinchiuso il proprio Regno in un anacronistico isolazionismo, non capendo che in un modo o nell’altro l’Italia si sarebbe unificata, e se suo figlio Francesco II, fedele alla politica estera paterna, non avesse respinto nel giugno 1859 l’invito del Piemonte di entrare in guerra contro l’Austria a fianco dei franco-piemontesi, nonostante che il corso della guerra stava procedendo favorevolmente agli alleati. Il 4 giungo, infatti, i franco-piemontesi già avevano sconfitto gli austriaci a Magenta. Proclamato il nuovo Stato, la cosa più urgente da fare era di infondere il senso dello Stato medesimo in un popolo che uno Stato di siffatte dimensioni non l’aveva avuto sin dal crollo dell’Impero Romano. Occorreva, pertanto, dargli consistenza attraverso l’adozione di adeguati ordinamenti amministrativi e giuridici. Il primo quindicennio di vita postunitario rappresentò perciò, un periodo in cui la classe dirigente fu più occupata a fare l’Italia che gli Italiani, contrariamente a quanto affermava Massimo d’Azeglio.
La Destra storica, che allora governava il Paese, adottò una serie di azioni energiche di centralizzazione dei poteri. Riuscì, così, a salvare lo Stato dal fallimento cui sembrava destinato, secondo un’opinione largamente diffusa tra le cancellerie delle potenze europee, ma fece poco o niente per migliorare il rapporto tra paese reale e paese legale.
Era difficile per un popolo, in gran parte costituito di contadini poveri e analfabeti, sentirsi parte attiva e partecipe di uno Stato, che li sottoponeva ad una politica distante dalle loro aspettative e a un regime di pesante tassazione. La classe dirigente della Destra storica era costituita prevalentemente di aristocratici e borghesi possidenti terrieri, uniti intorno ai Savoia e partecipi del progetto politico di Cavour.
Si dice che fosse di proverbiale onestà, anche se già all’indomani dell’unificazione, nel 1868, fu interessata dallo scandalo della reggia tabacchi, il primo dei tanti scandali della tormentata storia dei parlamentari italiani. Fu una classe dirigente che compì sforzi enormi nel dare forma e sostanza al neostato italiano, ma non fu sufficientemente interessata all’ampliamento democratico delle basi dello Stato medesimo con l’emancipazione politica delle plebi.
Dopo il plebiscito furono istituite nell’ex Regno delle Due Sicilie due luogotenenze, l’una a Palermo retta dal marchese piemontese Massimo Cordero di Montezemolo e l’altra a Napoli retta da Carlo Luigi Farini, il quale, scrivendo a Cavour, ebbe a dire: - Che paesi sono questi, il Molise e la Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è l’Affrica: i beduini, a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile. Non diversamente si espressero altri esponenti di spicco della Destra storica, quali per esempio Giovanni Lanza e Diomede Pantaleoni.
Il disprezzo verso i Meridionali connotava la miopia politica di non pochi esponenti di quella classe dirigente, che lessero la realtà del Mezzogiorno in chiave etnica, vista per di più in un momento di disordine e di anarchia, conseguente al crollo verticale di un regno ultracentenario. Una realtà a loro sconosciuta, che andava letta, invece, per quella che in effetti era, ossia una realtà complessa bisognosa di attenzione e di comprensione, che presentava non pochi problemi lasciati in eredità dai Borbone, cui era doveroso e necessario porvi rimedio. I liberali al governo usarono, invece, metodi draconiani, quali la centralizzazione di tutti poteri e la repressione senza quartiere del fenomeno del brigantaggio. Per la classe dirigente unitaria non vi potevano essere soluzioni di autonomismo locale con gente che, secondo essa, incarnava l’anti-Italia e che costituiva una seria minaccia per l’unità dello Stato appena nato. Di qui e non soltanto di qui le origini della diffusione tra le popolazioni del Sud del fenomeno del manutengolismo, che si sostanziava nel sostegno e nel supporto ai briganti.
Nel 1865 il grande brigantaggio poteva dirsi sconfitto, ma altre rivolte scoppiarono in altre parti del Paese. Toccò alle popolazioni del Nord ribellarsi, quando nel 1868, per esigenze di bilancio, fu introdotta la tassa sul macinato, fra tutte la più odiosa. Anche in questo caso non si andò per il sottile, fu scelta la linea dura. La repressione fu, infatti, feroce; lasciò sul campo 257 morti e 1099 feriti.
Se tali furono i limiti della Destra storica, alla stessa vanno comunque ascritti anche meriti indubitabili, connessi prevalentemente all’individuazione e alla risoluzione dei tanti problemi conseguenti all’Unità e di altri lasciati in eredità da un pesante passato, la cui soluzione non poteva essere procrastinata; problemi che richiedevano tempo, ponderazione e condivisione, che nel seguito della nostra riflessione cercheremo di trattarli in maniera più puntuale e approfondita. Ne citiamo solo alcuni a mo’ d’esempio: l’unificazione doganale e quella de pesi e delle misure; la creazione di un mercato unico nazionale; la costruzione delle infrastrutture necessarie alla modernizzazione del Paese, in particolare la rete ferroviaria; i primi provvedimenti tesi a combattere l’analfabetismo, a potenziare l’istruzione secondaria e ad assorbire nel sistema dell’istruzione le università degli stati preunitari e, infine, le annessioni al Regno italiano del Veneto e di Roma.
Nel 1876 la Destra storica conseguì l’obiettivo del pareggio del bilancio, per anni perseguito. Si trattava, però, di un risultato più formale che sostanziale, in quanto il pareggio non significò affatto l’introduzione di un equilibrato andamento delle imposte e delle tasse e, soprattutto, non significò un effettivo sollievo delle condizioni di vita dei ceti medi e delle plebi rurali...