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RIEPILOGO
L’ANONIMO SI RIVELA COPISTA DI CASTALDO
MA AUTORE DELLE AGGIUNTE fra i 4 libri
Finalmente, in questo terzo libro, il Ns Anonimo si rivela e confessa di non essere Antonino Castaldo, il notaio autore del testo originale, ma il suo copista, pur senza fare il nome. Ma fa di più, dice, letteralmente di aver aggiunto dei pezzi di storia, a volte interi brani, specie nel periodo che precede l’arrivo del Granvela.
Esso riguarda soprattutto gli anni in cui la Vicaria di Napoli ebbe un giudice speciale, il figlio mezzo matto, ovvero sui generis, nientemeno che di Re Filippo II, le cui bizzarrie di amicizie e raccomandazioni sono descritte dal nostro Anonimo nel manoscritto inedito. Ugedo, questo il suo nome, creò non pochi guai al Reggente della Vicaria durante la ristrutturazione degli uffici, ammodernizzati con la camera delle torture in quella che stette per diventare la sede del Consiglio della Rota.
C’è da dire che neppure i copisti dei mansocritti napoletani, a cominciare da B, sembrano conoscere tali episodi, ignorando queste ultime pagine sui fatti di Ugedo, a quanto pare inserite dall’Anonimo e non opera del Castaldo, atteso che i copisti napoletani passano direttamente al nuovo Viceré, allorquando i vari testi sono quasi identici, a meno di nomi cambiati, insert di documenti e intermezzi di pasquinate, prima di ricominciare tutti la Historia ripartendo dall’arrivo del Granvela. B aggiunge questa premessa: «Avvenne poi, che Papa Pio IV uscì di vita; onde congregato il Conclave, fu creato Pontefice il Cardinale Alessandrino di santa vita, e di singular zelo e severità circa le cose della Religione. Nell’anno 1571. D. Parasan s’infermò gravemente; ed avendo domandato a Medici, che gli dicessero la verità del caso suo, inteso che fra poche ore dovea finir la vita, animosamente s’accinse alla morte; e per quanto potè in quelle poche ore spedì molti negozj».
La trascrizione Ms. delle Historie del Castaldo, seguendo la versione dell’Anonimo, aggiunge una decina di corpose pagine, inserendo nella storia soprattutto il personaggio Ugedo, alias Carlo, figlio ‘insano’ di Re Filippo II, e fatti minori vissuti da contemporaneo oppure copiati da altri storici.
«Io hebbe da Dio tanta gratia, et felicità, che fui degno sei ò otto volte, stipular contratti con l’Altezza sua, per conto dell’occorrenze di quell’impresa, dal quale fui benignamente ascoltato, et mirato. Dalla quale Lega soccesse la memorabil rotta dell’armata turchesca fra i scogli curzulani alla bocca del golfo si Lepanto con tanta stragge de barbari, et perdita di tanto gran numero di galere, come nell’Historia si legge, ove l’ardito heroe regale mostrò l’animo, valore, et prudenza sua sopra l’etate, et se dechiarò per degno fratello di Sua Maestà et figlio di Carlo V°. Cossì nella resolution del combattere, come ne fatto di quella gran giornata, favorita senza alcun dubio dal voler de Dio, et dalle devote horationi del sommo Pontefice Pio V°, et perche l’invidiosa fortuna sempre tende insidie alle felicitade humane, darrò con questo allegra fine à questo quarto libro».
E’ sempre l’Anonimo che parla e dice che finirà il quarto volume, facendo intendere che con il terzo terminerebbe il lavoro del Castaldo, in quando subito dopo aggiunge una sua frase.
Egli scrive: — Lasciando alli historici illustrissimi la narration del che seguirà, finisce il Castaldo, anchorche in questa Historia vi sian [ag]gionte molte historie, et narrationi d’esso non narrate.
Insomma l’Anonimo dice di voler seguire lo stile del predecessore ma che i fatti a seguire non furono narrati dal Castaldo, senza aggiungere se sono frutto di una sua cronaca oppure di una sua raccolta sommaria tratta dalle Historie di diversi studiosi, come sembra intuirsi.
Così dice: — Perciò che seguendo lo principiato stile del Castaldo, narreremo molte cose soccesse da lui non narrate.
E così termina il libro: — Como à dire, che con Sua Altezza vennero in Regno molte gente de serviggi, et altre persone da lui molto amate, et mentre n’andò in Sicilia per congiunger l’armata della Lega, lasciò in Napoli molte persone racomandate al Signore Cardinale Granvela, et ad altri supremi officiali, de li quali farremo mentione nel governo del Signore Marchese de Mondejar, quale fù eletto da S.Maestà al governo di questo Regno, et perche nel governo del Signore cardinal Granvela soccessero molte cose per la jurisdittione regale, con molti vescovi, et sua Santità, et non facendo al mio proposito, per questo li ho lasciati.1
1. Ugedo, un figlio del Re, inviato a Napoli per giudice
Proseguiamo il nostro viaggio post-inquisizione nel pieno dell’era che mise al bando le eresie, contro ebrei, marrani e cittadini comuni condannati dalla Corte della Vicaria. A far data dalla morte del Viceré Toledo scopriamo anche che questo antico tribunale si è impreziosito di una camera delle torture e di una camera chiamata della Rota, che presto si trasformerà nella sede di un Collegio giudicante di giudici, coadiuvati da cancellieri e mastrodatti.
Prima di allora però l’ultima parola spetterà sempre al Viceré e la penultima al Reggente della Vicaria, sebbene, come vedremo in queste pagine, con l’arrivo in Vicaria del figlio di Re Filippo II, il giudice chiamato Ugedo, malsano fisicamente e mentalmente, avverranno anche liberazioni e torture a suo piacimento.
La fine del secondo libro del Castaldo, riscritto dall’Anonimo, è però concentratta sulla fuga del Principe di Salerno, la sua morte e quella della Principessa, lasciando la stirpe dei Sanseverino, già decimata in precedenza e unita a quella degli Aragona, ancora una volta senza eredi.
2. Il Principe di Salerno torna e saluta il Vicere’ in ritardo
Ed eccoci a seguire l’Anonimo, il quale riscrive l’Historia del Castaldo nella sua cronaca tratta dalle copie originarie del famoso notaio napoletano della Vicaria, sebbene con l’aggiunta di pasquinate, lettere in spagnolo e di buona parte dell’ultimo volume.
Sul finire del terzo libro egli parla di Sanseverino e dice che «in questo mezzo fu licenziato il Principe da S.M. con ordine, come s’intese, che se ne venisse in Regno ad’ubedire al Vicerè, e’ delle cose pubbliche più non s’impacciasse, che ciò facendo, il Vicerè non averebbe avuto, che far con lui. Venne il Prencipe in Regno, e’ giunto in Aversa, come dovea venire in Napoli, e con gli sproni a piedi salutare il Vicerè, ed offerirsegli a servirlo, l’uomo altiero et vano, per non mostrar di venir sogetto al Vicerè, ò per altra causa che fusse, di là se ne andò a Salerno, dove se ne stette a bellaggio da otto giorni, et poi se pose in ordine per venire a Napoli a goder l’aura vana popolare, et visitare il Vicerè. Fu veramente cosa maravigliosa questo giorno, il veder tante genti e Nobili, e Popolari uscir da Napoli ad incontrarlo, come universal redentore. Tanta è la sciocchezza del volgo, e delle persone appassionate, che molti andorno à piedi infino alla Torre del Greco. Placido, et D. Cesare Carrafa fin presso a San Giovanni a Teduccia l’andorno incontro, et come lo sroprirno, smontorno da cavallo a baciargli le mani».
Il Principe tornò in città acclamato dalla popolazione e perciò turbando l’animo del Viceré, il quale tentò fin dal primo giorno di offuscarne la reputazione. Scrive l’Anonimo che «il Prencipe venne in Napoli seguito da moltitudine infinita, et altrettanta ne trovò per le strade, ma come che questo giorno dovea essere à lui infelice, et à noi infausto, non mancò il Cielo di mostrar ed prodigij et portenti, però che turbato il tempo ad un tratto con tuoni lampi, et pioggia terribil fe’ segno de la mala augurata sua venuta in Napoli: egli allogiò con Madama Francesca sorella del Prencipe di Bisignano presso Santo Sebastiano, dove visitato da tutto il Populo, da cavalieri infiniti, ma egli che doveva andar subbito dal Viceré, ò solo, ò con pochi à far il suo debito». Questo periodo è interamente ignorato e non trascritto dagli storici napoletani che lo firmano a nome del Castaldo e che noi abbiamo identificato come trascrizione dalla copia B.
Ma seguiamo il Manoscritto, quando dice che, «giungendo leggerezza a vanità, cavalcò tre giorni continui per Napoli , satiandosi dell’inchini et riverentie delle brigate, poi fe’ intendere al Vicerè, quando gli era commodo, ch’egli andasse a baciarle le mani.
— Venga il Principe quando vuole, rispose il Vicerè, che sarà il ben venuto.
D’onde il Principe il quarto giorno se ne andò in Castello, accompagnato da quattrocento cavalli almeno, essendo tutto il Largo del Castello pieno di gente, per curiosità di vedere ed intendere la visita.
Il Vicerè ne stava in quella loggetta, ch’è nel mezzo del Parco. Martin di Vero reggio portiero per ordine di S.E. fe’ intrare solo il Principe, e gli altri fece aspettare, et la visita durò assai poco, perchè il Principe tanto tosto ritornò à quei, che l’aspettavano.
Quel che fra questi doi pochi amici passasseno, non si seppe, perocchè il Principe non ci parlò altrimente, ma io che haveva molta familiarità, e servitù con il Principe, per ester suo notaro ordinario, et molto famigliare, ebbi ardire de supplicarlo, che si quello che haveva passato col Vicerè nella visita, si possea dire, me ne avesse fatto grazia, perchè scrivendo simili particolari, io venissi a scrivere la verità.
Egli benignamente cossì me riferì che camminando col portiero avanti verso il Vicerè, avvicinatosi a lui vidde il volto suo tanto lieto e di buona tempra, ch’il Principe, ancorchè sapeva, ch’il Vicerè l’era capital nemico, fu per credere, che li volesse bene.
Steva il Vicerè assiso in una sedia, con’uno sgabello alto sotto i piedi; et subito, che il Principe sali quei pochi gradini, e gli fe’ riverenza, et poste l’una e’ l’altra mano sopra le barre della seggia, mostrandosi d’alzarsi alquanto, disse:
— Perdoname V.S. que las gottas me trattan muy mal.
Fù dato una seggia pocho dopo’ quelle parole al Principe, et il Vicerè mirandolo con allegro occhio, disse:
— Por cierto que las cariçias della Senora Princessa hazen milagros, por que yo nunque he visto V.S. mas lindo d’hoy.
Questo forse disse il Vicerè per rimproverare al Principe, che prima se ne avesse voluto andare à Salerno, che venire a Napoli a visitarlo.
Rispose il Principe:
— Las carizias della Prencessa por cierto son tales que me parezio un’ora mil’annos de gozarle.
Dopoi il Vicerè domandò al Principe, come l’avea trattato il cammino, e come di salute avesse lasciato l’Imperadore.
II Principe con brevità di tutto gli diede buon conto; et in questo tutti doi tacquero.
Et il Principe à lui:
— Signore, partendo io di Corte, S. M. mi comandò, che venisse a servire V.E.. Sono cqua per offerirmeli per servidore, et le dico per certo, che in tutto quello, che V.E. mi comanderà, non troverà in questo Regno servidore più pronto, nè più onorato di me.
Et il Vicerè à lui:
— Tambien S.Magestad hà mandado à mi, que yo tenga à V. S. por hijo, y a si lo have, y encodas las cosas que se offezieren. Io ne era’ mas por las obras, que por las palabras.
Tornarono a star chieti un’altra volta, et il Principe colta l’occasione della podagra, dice:
— Ve do V. E. travagliata da le gotte, et per questo non voglio darli più fastidio per ora. Io sono per ritornar domani in Salerno con sua buona gratia, si me hà da comandare altro, eccomi ad ubedirla sè no, gli dimando licentia.
Il Vicerè rispose:
— Vaya V. S. en muy buon’hora, y hagame merce de encomendarme muccho alla Senora Princesa y diale mij vasamanos.
Cossì s’alzò il Principe et licenziato se ne tornò.
Io credo, che quel Signore mi dicesse il vero, però che breve fù la visita; et io cossì l’ho scritta, come egli me la riferì à punto, venne dopoi nuova certa, che il Serenissimo Principe di Spagna Filippo, figlio, e successore legittimo di S M., passava in Italia».2
3. Ambasciatori a Genova per il Principe Filippo
Castaldo continua a parlare in prima persona del Principe per quasi tutta la fine del III libro, come trascritto dall’Anonimo, in vista dell’arrivo del figlio del Re a Genova, dove, pur non essendo stato invitato, si recò ugualmente, «laonde la Città creò li suoi Ambasciadori, per mandare a visitare, e baciar le mani di sua Altezza, i quali furono l’infrascritti:
— Per Capuano il Signor Antonio Grisone.
— Per Nido il Signore Spina.
— Per Montagna il Signore Carmignano.
— Per Porto il Signore Ligorio.
— Per Porta nova il Signore Mormile.
[nomi abrasi in B] et per lo Populi
— Pier Antonio Sapone.
Et gionti à Genova, dove sua Altezza era arrivato, et introdutti per quello effetto, il Signor Antonio Grisone fù quello, che parlò per la Nobiltà assai acconciamente, ralegrandosi della sua venuta in Italia, e dicendo, che Napoli sommamente desiderava, che l’avesse colla sua presenza favorita.
Et il Sapone per il Popolo disse cose assai, li quali furo da quel Serenissimo Principe benignamente ricevuti.
Vi andò ancho il Principe di Salerno, come uno de li principali Signori del Regno, a far il suo debito, ma, per questo io ne intese d’alcuni suoi cortegiani, egli non ebbe da sua Altezza tutte quelle sodisfationi, de ricevimento, che forsi desiderava, onde partita Sua Altezza da Genova, se ne tornorno nel Regno».3
4. La Principessa di Salerno è incinta, ma non c’è l’erede
Sanseverino è nell’occhio del ciclone e presto sarà accusato, pare di rapporti amorosi occulti con uomini e donne, e sicuramente di essere libertino e poco atto, tanto alla politica, quanto alla procreazione. Da qui sarebbe nata la falsa notizia della gravidanza della Principessa.
«Non molti mesi dopoi accadde, che ò per retentione de ministri, ò per altra causa, che si fusse, ingrossò il ventre alla Principessà di Salerno con alcuni movimenti, che potevan fare giudizio d’esser gravida. Talché vi furno chiamare le più esperte ostetrice di Napoli, et di Salerno, et quasi tutte dissero la Principessa esser gravida con effetto. Solo Lucia Napoletana, ostetrice famosissima fù de contrario openione, et perciò vi furno chiamati medici, et altre persone prattiche, che quasi tutti concorsero al parere del magior numero, d’onde notificata la cosa al Viceré mandò a Salerno per sopra sante della gravidezza, et futuro parto il Consigliero Francesco d’Achirre con il Consigliero Scipione d’Arezzo, li quali stettero questi molti et molti giorni à Salerno ben regalati dalla Principessa, et dal Prencipe, il quale sempre lor disse tener per fermo, che la Principessa altrimente non era gravida, ma per non discontentarla lasciamo che se soddissacesse à suo modo.
Nè per questo si mancò di far gli apparati convenienti per tal parto. Onde per l’allegreza universale, che se haveva in Napoli , se pose in ordine una commedia per recitarla à Salerno, la quale era Li Menemi di Plauto assai ben tradotti, et raconciati dal Signore Angelo di Costanzo, et tutto ad istantia del Signore D. Cesare Carrafa di Magdaluni, che per amicitia che teneva con li detti Prencipi procurava a sue spese di farla recitare, ne la quale Io fui eletto per Prolago, et per uno de’ li recitanti, ma quando se aspettava questo benedetto parto, andò ogni cosa in fumo.
Imperocchè passati da molti, et molti giorni il debito tempo de partorire, scopersero, che non era gravidezza, ma non sò che infermità cagionata dalla retenzione de menstrui.
Nè restorno di dire molti che il Principe con parto supposito, quando li fusse riuscito, cercava de ingandar il Ré, cosa à mio gioditio, aliena dalla mente d’ambi quei Signori, nei quali giamai per lo adietro fu scoperto, ne suspettato animo ingandevole, ò fraudolente.
Questa cosa forsi tolse al Principe gran parte di credito. Tutta non resterò de dire, che quando poi il Principe si fe’ ribelle, come dirrò appresso, uscì un disticore latino contro lui, che diceva à questo modo».
Così il distico:
— Quæ tua non potuit coniux erumpere partu, rupisti Principes Gallus eras.4
5. Brancaccio giustiziato, il Principe si fa beffa del Vicere’
Il Vicerè, intanto, vuoi per la malattia, vuoi per l’avvicinarsi del fine vita, divenne sempre più aggressivo e cattivo non solo con i Sanseverino, ma anche con i nobili napoletani trovati in flagranza di reato.
«Soccese non molto tempo dopoi, ch’il Vicerè havendo fatto banno circa lo scalar le case alcuni di notte, sotto pena de vita, Colantonio Brancatio figliolo di Giacomo del seggio de Nido, fù una notte trovato con la scala de seta nelle pertinenze del seggio di Portanova, onde fù menato prigione in Vicaria.
La mattina seguente cominciandosi a proceder contro di lui per lo fisco; molti Signori e Cavalieri parlorno al Vicerè in suo agiuto, ma al fine fù condennato à morte, tanto più presto, et volentieri, quanto che Giacomo Brancazo suo padre era odioso à S.E., per averli, nelle Piazze fatte à tempo de romori in quel seggio, sempre contrariato, et mostratoseli nemico et il giorno ch’il reo uscì a giustitiarsi passò per tutti li seggi della Città, dovendoseli troncar la testa in sul talamo fatto nel loco ove fù preso.
Fatigando molto la Principessa di Salerno, et la Príncipessa di Solmona di salvarli almeno la vita, ma tutto in vano, perchè il Vicerè, che per l’odio, che à Giacomo portava, si ancho per esser il primo, ch’era incorso alla pena del banno, disse non poterlo fare in conto alcuno, et cossì s’eseguì la giustitia.
Ma come che quel giorno hor un pezo, et ora un altro pioveva, li Confrati in più case con il reo introrno a fermarsi, finchè la pioggia cessasse, et con il reo intorno à fermarsi, finche la pioggia cessasse, et con essi era pocho guardia di sbirri, che molto facilmente se haveria potuto scampare, ma come che la speranza, s teneva in quelle Signore era granne, de pocho in pocho ingannati, non fù alcuno, che à liberarlo uscisse, et cossì fra timore, et speranza condotto al luogo, fu decapitato, ma non andò cossì un caso simile d’un nepote de Paulo Poderico, affettionatissimo del Vicerè, per chè essendo ancho egli stato preso con la scala, fù ben condennato à morte, et fatto il talamo, et mandato il ceppo, et il ferro nel luogo del delitto con gran dispiacere de Paulo.
Tanto che un giorno se ne venne scandalizato dal Vicerè, havendone avuto poca buona risposta; onde tutto il mondo predicava S. E. per molto giusto Principe, poi che in simisi casi alli suoi più cari non perdonava, ma quando si stava aspettando l’esecutione della giustitia, piovve dal Cielo una bolla de clericato, onde il reo fù rimesso alla Corte Ecclesiastica, e poco dopo fù liberato.
Hor dopo’ questo il Vicerè non cessava potendo con giusta apparenzadi travagliare il Prencipe.
Era Michel Giovanni Comez stato magiordomo della Principessà di Salerno, et perciò prattico delle cose della casa del Principe.
Costui fatto Presidente della Camera, trovò scritture, come il fisco potesse dar lite al Principe sopra la Dohana di Salerno.
Onde li fu mossa lite sopra la relazzione di detta Dohana, con li frutti di tanti anni, che ne portava tutto quesi lo Stato suo.
Dispiacque molto al Principe tal lite, et se ne venne in Napoli, et nel giardino del Marchese di Vico fè collegiare la causa dalli più valenti avvocati di Napoli.
Et in effetto, per quanto se disse, se vidde, che la molestia era indebita, et ch’il Principe haveva giustitia.
Non dimeno egli mandò Tomase Pagano in corte, dottore et gentilhuomo salernitano, il quale dopo’ esser stato in alcuni giorni, et mesi, con difficoltà havuta odienza, ottende da S. M. una semplice lettera al Vicere, comandando che non si facesse aggravio al Principe, ma che si vedessero le cose sue di giustitia.
Parlò di tal lite il Prencipe col Vicerè, ma quello s’escusava, ch’alle pretendenze del fisco egli opporre non si poteva; imperoche il tutto sarebbe mirato con’ogni circospettione.
Tuttavolta la causa caminava in fretta, cominciosse à sdegnare il Principe, et il Vicerè à scoprirseli per nemico, perchè l’anno del 1549, dovendosi fare il Parlamento per lo donativo ordinario, ch’ogni terzo anno al Ré farsi si soleva, et chiamati al solito li baroni, et le Terre demaniali, venne il Principe à Napoli per tale effetto.
Et intrando la Porta Capuana, fù onoratamente ricevuto et accompagnato dal Marchese de Vico, della Terza, dal Conte de Populi, dal Duca di Monte Leone, del Consiglio di S.M., et altri.
Ma il Vicerè che la voleva col Principe, gli fè mover lite dal Conte di Castro Gran Cancelliero del Regno, pretendendo, che nel dare il voto al Parlamento, egli prima del Principe, si bene come primo barone si toccava voltare, dovesse parlare et dare il voto.
La cosa fu rimessà al Consiglio Collaterale di dove uscì decreto, che il Conte come Gran Cancelliero al Principe precedesse nel dar il voto, dal quale il Principe ne appellò à Cesare, però usò una astutia bella, perciò chè egli in un foglio di carta di sua mano scrisse il suo voto, et poi intrando nel Parlamento lo diede al Segretario della Città Giovanni Antonio de Palmiero à tenere per quando bisognasse.
Et quello che ricever non lo doveva, perchè il solito era di dare i voti à bocca, et non darli in iscritto, ò come pocho prattico, ò pure allettato dalle belle parole del Principe parendoli esser favorito da lui, lo ricevì e tenne.
Quando poi si cominciò il Parlamento, et ch’il Conte hebbe parlato prima, l’usciero disse al Principe che avesse vottato appresso.
Ma il Principe sorridendo disse:
— Quanto è, ch’io hò detto il voto mio, eccolo là, che lo tiene il Segretario, non bisogna altro.
Il Conte replicò che ciò far non poteva, onde il Principe rivolto all’usciero disse:
— Rispondete voi per me al Signor Conte.
Hor la cosa restò così, et lo Parlamento se fernì; ma non se terminorno le male volontate de li doi inimici.
Hor io sono gionto ad’un passò che non so’ come risolver mi debbia à scriverlo.
Pero chè lo scrivere è pericoloso, e’ il non scriverlo toglie la verità dell’Historia.
Ma poi che il mio pensiero non è dimandare altramente in stampa questa cosa, ma lasciarla a’ miei figliuoli, acciò ne sappiano ragionare, non voglio mancare de scriver quello, che se disse percerto, poi seppe la verità del fatto l’anno 1550.
Si fece l’impresa d’Africa, il General di Terra fù il Signor D. Garzia di Toledo, et quello del Mare il Principe d’Oria fra gli altri capitani di fanteria vi andò il capitano Tomase de Ruggiero gentilhuomo salernitano.
Hor per che dopo’ li tumulti di Napoli il Principe di Salerno haveva fatto stretta amicizia col Principe di Bisignano suo parente, et già à sua instigatione havea Bisignano fatto uscir di casa del Marchese della Valle callellano del Castello nuovo, Donna Dianora Sanseverina sua siglia, et nora di quel Marchese, essendo già morto il marito, et questo, perche il sciocco volgo diceva delle cose assai, et il Principe di Salerno ne faceva grande istanza, come chè la cosa dispiacque al Marchese molto.
Egli, venuta questa occasione di Tomase, trattò, come se disse, rimettendomi sempre al vero, con Don Garzia che disponesse Tomase à far ammazare il Principe.
Tomase, ò da promesse, ò da altro che si fusse sospinto, et allettato, promese di far fare l’opra da Perseo suo fratello gran cacciatore, et tiratore di scoppetta, ma di poco sano cervello.
Et cossì fu eseguito, perciò che Tommse disse à Perseo, che era espediente, et necessàrio per l’onor della lor casa de ammazar il Principe, et questo le disse per non scoprir il conserto d’Africa, et non perchè in verità cosa havesser di honore veruna contro di quel Signore.
Perseo, che da piccola levatura era, et poco saggio, credendo alle parole del fratello, promesi di farlo, et cercava, et aspettava l’opportunità».
6. L’attentato ordito a Cava per mano di Perseo Rugiero
Ma le cose stettero per cambiare e il Principe di Salerno cominciò il conto alla rovescia, sebbene fosse tornato a Napoli «a negoziar col Vicerè nella fine del mese di Maggio del 1551, et al ritorno, che fece à Salerno a’ 4 di Giugno seguente».
In realtà qualcuno pensò bene di toglierlo di mezzo ponendo fine alla sua vita, ma non si hanno riscontri sul vero mandante. Questo l’episodio dell’agguato.
«Perseo stava in agguato, aspettandolo sopra un cespuglio alto dalla strada assai, tal chè per andarvi bisognava girare un pezzo di paese. Quivi tre giorni avante, era venuto provisto da mangiare, et da bere. Era il luogo nella strada, che và dalla Cava, à Vietri sopra il Casale detto la Molina, per dentro il quale, come per un sopportico si scende in giù coverto dal destro, et dal sinistro lato di siepe selvagge et alta, et quando poi finisce, di là come per una porta s’esce all’altra strada, ad cui dirimpetto, et il cespuglio, ch’io disse, come il Prencipe fu all’uscita, et la sua Achinea scese un gradone, Perseo gli pose la mira al petto, ma spuntando d’un de lati verso il Principe una soma d’oglio, il Principe tirò la retina, et alzò il cavallo sopra il gradone.
Intanto Perseo sparò l’archibugio, et come la palla doveva percuotergli il petto secondo la mira, lo feriva tre, ò quattro dita sopra il sinistra, et la palla fuor quelli nervi passando, se ne uscì senza farli altra offesa.
Il rumore fu grande di quei che accompagnavano il Principe et gli huomini di quel Casale vi accorsero subbito.
Il Principe dubitando di peggio, disse, che niuno da lui si discostasse, et rivolto a quegli huomini da bene, disse con molta pietà:
— E che ho io mai fatto ai Cavajoli, che me hanno voluto ammazare.
Queste parole accesero gli animi di quelli; onde salendo per quelle siepi e greppi, si posero a perseguitar il malfattore, già udito il caso, era accorso quivi il Governadore della Cava, e si pose a cercare anch’egli, ma sarrebbe stato il cercarlo [vano, aggiunge B].
Pero chè Perseo havendo corso molto s’era imboscato a piè d’un Monte, ov’era un acqua fresca, et mezo morto d’ansietà, et di travaglio, ivi se ricreava. Ma due donne, che zappando l’aveano da lungi veduto correre, loro aditorno il luogo verso dove l’aveano veduto correre. Onde egli fu intanto trovato, et preso, ne mai volle accettar, ch’egli havesse tirata quell’archibugiata, anzi dicea non saperne altro, et ch’era ivi venuto à caccia, come far solea. Il Governadore lo menò in carcere, et ne avisò il Vicerè. II Principe se n’andò in Salerno a curarsi, et saputo, che colui era stato di Casa de Rugiero, tutti quelli di tal famiglia disgratiò, et se levò da casa».
Perseo è posto alla corda, ma non confessa.
«Il Vicerè inteso il caso, mandò subito a torre da tal fatto informatione Gio: Andrea della Corte, et Scipione d’Arezzo reggi Consiglieri et fece intendere al Principe, che havesse cura di sua salute, che nel resto li volea far vedere la più signalata giustitia, che mai fusse stata fatta in Regno. Ma il Marchese della Valle tosto fù dal Vicerè, et come amico gli scoperse ogni cosa, il che sommamente le dispiacque, per esservisi impicciato D.Garzia suo figlio. Ma come fu certificato, che Perseo posto mille volte alla corda, non potea dir altro, se non che il fratello lo avea fatto fare per onor della casa, restò assai quieto, et fece andar le cose più ritenute. Ma perche il Principe offeso bravava, sospettando, che se ella gli veneva dal canto del Viceré, egli bene haverebbe vendicato.
Il Vicere passò più oltre, et lo cominciò à perseguitare, et processare d’heresia d’alloggiar fuorusciti, et di haver parte de latrocinj di quelli, ed ancho de sodomia. Così venute le cose à guasto, cominciorno l’ire, gli odj alla scoverta à ripulusare d’ogni parte.
Ma il Vicerè scrisse all’Imperadore il caso essère per conto di donne, et che teneva presa li malsattori, perchè fu preso anco Tomase; et si delle cose passate col Principe si voleste S.M., gli haverebbe ambi due vivi.
Tra tanto ebbe Perseo la corda, ne disse altro, se non che per ordine del fratello l’aveva fatto per la suddetta causa.
Fu chiamato Tomaso, et fattogli l’affronto, mentì al fratello, come pazzo, et disse ch’egli per capriccio de huomo stolido fatto l’haveva, à cui furon date le defensioni.
Mentre queste cose s’agitavano in questo modo, per parte del Prencipe si fe’ istanza, che i malfattori come suoi vassalli, se gli rimettessero.
Ma perche quando il Principe Ruberto suo padre era sato reintegrato, non hebbe assicuratione de Vassalli, non potè ottenerlo.
Anzi trattandosi di far morire li delinquenti, dando per esempio, ch’à Gio: Berardino d’Acampora privato cittadino era stata tirata una archibugiata, et se bene non haveva fatto effetto, il giorno seguente era stato l’assassino giustiziato.
Et ad’u Prencipe di Salerno tirata, et colta una archibugiata in strada publica, et accettato dal delinquente il delitto, non si procedeva contro li malfattori altrimente, come s’il Princípe fuste stato il più vil huomo del Regno.
Il Vicerè non respondeva altro, sol che questo:
— No es tiempo hagora, quando fuira tiempo, se proveerà, nè volse dir mai d’avere scritto a S.M., e d’aspettarne la risposta».5
7. Il Viceré fa assediare il Principe che fugge a Venezia
Ed eccoci giunti all’epilogo di quella storia, perché «questo modo di procedere al Principe s’arrecò tanto in dispreggio, et dispetto, che non si poteva quietare. Et già se apparecchiava d’andare alla Corte à far intendere a Sua Maestà i maltrattamenti, ch’il Vicerè li faceva, cossì de non far giustitia de suoi offensori, come de processarlo indebitamente».
Ma non solo. Il giovane rampollo « pensò de ingannare, come ingandò il Vicerè, perochè disse di voler prima andare per lo Stato suo, et farsi da Vassalli soccorrere de denari, et poi venir poi da lui a licenziarsi per la Corte».
Da qui l’assedio delle truppe spagnole e l’arresto ordinato da Don Pedro, sebbene non ebbe seguito per la fuga organizzata dal Sanseverino. Seguiamo l’episodio.
Il Principe «mandò per tanto Gio: FrancescoTorre suo creato a supplicare il Vicerè, che gli desse licenza d’estraere cavalli, ed argenti dal Regno per questo suo viaggio, acciò chè al suo ritorno dal Stato non avesse à negoziare altro, che di baciarle le mani, et torli licentia.
Il Vicerè sperando così d’aver il Principe nelle mani, tosto fè spedire dal Segretario in Laustri la Patente, et fra tanto fe’ accostare verso San Severino le Compagnie Spagnuole.
Ma il Principe come fu nella Basilicata, se ne andò verso Termole, et d’indi s’imbarcò per Venetia, mandando nondimeno la sua lettica, et le sue genti per terra.
Così uscì dalle mani del Vicerè, il quale al Tronto avea mandato cavalli, e genti a pigliarlo.
Ma io fui à Salerno quattro giorni prima della partita per pigliar da lui la ratificazione d’alcune vendite fatte per Clemente Panariello suo procuratore, et gli piacque de ragionar meco dentro il suo giardino di quelli suoi accidenti.
Le sue parole erano piene di sdegno e d’ira contro la Casa del Vicerè, tanto perchè dubitava, che di là non fusse proceduta quella offesa, quanto per chè vedeva procedere cossì lentamente contro li rei del delitto suo, et mi hebbe à dire:
— Antonino, se l’archibugiata mi vene da parte più granne, che non è quella di Don Pietro, non sapendolo, non sò che farci, ma si ella mi vien da casa sua, non sia io Ferrante Sanseverino, s’io non me ne pago insino alle gatte.
Io per quanto lo stato mio richiedeva, con quelle ragioni, ch’io seppe migliori, gli persuasi ad haver sofferenza nel caso suo, et pigliar l’adversità dal giusto, et occulto voler de Dio, et d’andare à S.M. come s’intendeva ch’egli voleva fare in ogni modo.
Il che mi rispose, da voler farli senza tardanza alcuna, et che voleva gridar tanto avante all’Imperadore, ch’insin da Napoli se haveriano udite le voci, et che sperava che ci dovesse proveder de maniera, che non havesse da far più con Casa Toleda.
Hor Io me licentiai da lui et me ne ritornai in Napoli, et egli se partì poi, come hò detto, dal Regno molto mal sodisfatto de trattamenti ricevuti et nel modo, che di sopra ho narrato».
Con l’attentato e la fuga a Venezia del Principe Sanseverino, rimasto senza eredi e senza stato feudale, si conclude il 2° Libro del Castaldo, trascritto dall’Anonimo, al foglio 111, e incomincia il libro 3°
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