ABECEDARIO AVELLINESE 1. EAN 9788872974421 LA CITTA’ PRIMA E DOPO IL 1861

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CON NOTIZIE ACCERTATE E COMPARATE SUI FATTI DI ARIANO IRPINO

 

Il 22 maggio 1859 Re Ferdinando II di Borbone passava a miglior vita, forse avvelenato dal Vescovo di Ariano Michele Caputo durante il suo ultimo viaggio. Quello stesso giorno restò a bocca asciutta l’ammiraglio Principe Luigi, fratello del defunto, il quale aspirava al trono sostenuto da Maria Teresa, seconda moglie del morto e matrigna di Franceschiello. Seguendo le volontà del dipartito, il Presidente del Consiglio dei ministri, proclamò ufficialmente Re il figlio ventitreenne, acclamato dai religiosissimi sanfedisti e dai politici più anziani della camarilla.

§ — Un nuovo Sovrano sul trono, ma niente Costituzione

Francesco II, con un po’ di anticipo, già due giorni prima della nomina ufficiale dei ministri del Regno delle Due Sicilie, si fece giurare fedeltà dalle truppe a Largo Castello di Napoli.1
Il Sovrano novello, soprannominato affettuosamente dal suo popolo Franceschiello, nonostante la sua giovane età, da principe ereditario, aveva ricevuto un’educazione fatta di studi amministrativi e giuridici. Ciò faceva sperare nella istituzione di una monarchia costituzionale, sulla scia del consolidamento delle alleanze europee. Appena Napoli lo proclamò Re, Francia e Inghilterra, spedirono nella metropoli i loro diplomatici per sondare le idee del nuovo Sovrano e spingerlo sulla via della monarchia costituzionale, in contrapposizione all’ambasciatore piemontese, che non mancava di elogiarlo nelle lettere spedite a Cavour.
— E’ giovane, senza esperienza, non è un idiota, come ne hanno spesso detto, parla molto bene di tutto con un certo possesso e con molto buon senso; talvolta ha l’aria di capire l’epoca, è imbevuto dei più esagerati principi del sanfedismo: di carattere molto debole e molto timido, costantemente circondato da una camarilla furiosamente retrograda e reazionaria, la quale impedisce che la verità arrivi fino a lui.2
Francesco appariva un sovrano dalle idee aperte, ma era frenato su ogni iniziativa dalle parole del padre, Costituzione eguale Rivoluzione, divenute motto dei conservatori, nonchè dall’opposizione degli stessi zii, il Principe Luigi Conte dell’Aquila e il Principe Leopoldo Conte di Siracusa. Era grande il timore che applicando la Costituzione, ritirata nel 1848, si ripetessero i moti per togliergli il trono o anche solo la Sicilia. Nè intese discostarsi dal freno che veniva dall’Austria, avendo sposato Maria Sofia, sorella dell’Imperatrice, concessagli in moglie per i buoni rapporti intrattenuti col defunto Re. Fu per questo che Franceschiello non diede ascolto, il 7 giugno 1859, ai liberali che lo invitavano a scendere in guerra al fianco del Piemonte. Un’alleanza che non avrebbe mai fatto, sebbene fu spinto a nominare Presidente del Consiglio, e ministro della Guerra, Carlo Filangieri, che domò la rivolta della Sicilia, dove era rimasto come Luogotenente fino al 1855.
— Quel povero giovane mi ha domandato aiuto in modo che io non ho potuto negarglielo.3
Il 9 giugno, Ruggero Gabaleone, Conte di Salmour, diplomatico inviato da Cavour a Napoli, rinnovò al Re l’invito a ripristinare la Costituzione congelata dal padre, riproponendogli l’alleanza con i Piemontesi nella guerra in corso contro l’Austria. Ma l’accordo saltò perchè il Re di Sardegna aveva fomentato la nascita del Governo provvisorio a Firenze nell’aprile precedente, dichiarando decaduto il Gran Ducato di Toscana, da sempre nella sfera del parentado borbonico. Salmour così fallì.
— Almeno per il momento l’alleanza con Napoli è impossibile, poiché, vista la situazione esterna e lo stato dei partiti all’interno, il Re e il Governo si sentono perfettamente rassicurati. Il solo e unico modo di arrivare al nostro scopo è di agire qui come nelle altre parti d’Italia, ossia di provocare la caduta della dinastia e l’acclamazione di Vittorio Emanuele.4
Il 7 luglio i soldati della milizia svizzera in Napoli, senza salario adeguato, si rivoltarono, dividendosi fra favorevoli e contrari ad abbandonare il Regno. Dopo il sanguinoso scontro, nelle tasche di morti e feriti furono rinvenute monete d’oro, distribuite dalle spie inviate dai Piemontesi. Di qui l’errore di rispedire le guardie in Svizzera. Con l’armistizio franco-austriaco di Villafranca dell’11 luglio 1859, il ministro Filangieri ritenne di affrettare i tempi e chiedere ai giuristi di redigere una nuova Costituzione. Consigliò il Re di stringere amicizia con la Francia, il cui ambasciatore, il Console Conte Alessandro Brenier, aveva collaborato alla stesura delle nuove leggi, dopo aver influenzato il Principe Luigi, ormai pendente dalla sua bocca.
— Presentai al Re quel progetto di Statuto, supplicandolo di leggerlo. A tale mia preghiera Sua Maestà non si degnò far buon viso, ne’ crede’ sottomettere quel manoscritto alla disamina dei suoi ministri o al parere degli uomini politici nei quali avesse avuto più fiducia che in me.5
Alla notizia circa uno sbarco in Calabria di rivoltosi salpati da Genova alla guida di Garibaldi, Filangieri si dimise e il Re cominciò a temere nuovi moti liberali. Che fare? A costo di restare solo non avrebbe concesso la Costituzione. Il 28 settembre tenne una riunione.
— Le risposte a noi pervenute sono poche ed orientate verso la soluzione conservatrice.6
Seguì un’ondata di arresti, come ai tempi del padre, che screditò il Governo di fronte all’opinione pubblica internazionale: l’Austria lo abbandonò e l’Inghilterra, vista la mancanza di apertura costituzionale, gli tolse la garanzia di intervento in caso di rivoluzione. Franceschiello non immaginava che Comitati spontanei di liberazione, guidati da adepti repubblicani di Mazzini o da insurrezionali garibaldini, stavano per spuntare nelle province del Regno, proprio dove era più forte l’attaccamento alla Corona.

§ — Franceschiello regge col Governo retrò, lo Zio trama

Con la nascita del Comitato Centrale di Napoli i liberali del Principato Ultra ripresero coraggio, confortati dai primi successi a Campobasso. Le sette dei mazziniani di Avellino e Benevento intensificarono gli incontri segreti per fare fronte comune con gli insurrezionali, occupando Avellino ma con l’idea di nominare il Governo provvisorio provinciale ad Ariano prima del Comitato di Benevento che, una volta cacciato via il Nunzio apostolico del papa e nominato un Governo provvisorio beneventano, avrebbe sforato i confini storici. Fu l’inizio della fine degli Stati di Francesco II e del Papa, ma anche dello sfaldamento del Principato Ultra.
A Capodanno 1860 Francesco II e Maria Sofia fecero la tradizionale cerimonia del baciamano a Palazzo Reale. Seguì la gran festa del 16 gennaio per il ventiquattresimo compleanno del Re sulla fregata a vapore dell’Armata Borbone al largo di Castellammare di Stabia, mentre lo zio, il Principe Luigi, tramava per obbligarlo a concedere la Costituzione concordata sottobanco con Napoleone III e con i Piemontesi. A fine gennaio 1860, il Marchese di Villamarina, diplomatico inviato da Cavour, a Francesco II scritto da Vittorio Emanuele II.
— La Casa Savoia non è mossa da fini ambiziosi o da brama di signoreggiare l’Italia. Lungi dal volere e dal desiderare che sia turbato alla Reale casa di Napoli il pacifico possesso degli Stati che le appartengono. Non sarebbe migliore salvaguardia dell’indipendenza d’Italia che il buon accordo fra i due maggiori potentati di essa.
Era la proposta di spartizione dell’Italia fra il nuovo ed ampliato Regno di Sardegna e il Regno delle Due Sicilie a cui sarebbero state lasciate anche le Marche da strappare al Papa. Era un tranello? Invadere le Marche per dare a Vittorio Emanuele il pretesto di occupare le Due Sicilie? La risposta fu secca.
— Vuie che dicite mai. Chella è robba d’ ‘o Papa!
Il 16 marzo il Re rinnovò il Governo napoletano con un numero di ministri ottantenni, scaricando definitivamente Filangieri e altri fidi e cercando di contrastare lo Zio Luigi.
— Non poteva seguire nè i consigli di Elliot né quelli di nessun altro uomo politico perché era rimasto schiavo di un mondo nel quale lo aveva collocato la nascita, l’educazione, la Religione da un lato, l’ambiente di Corte, la struttura dell’Esercito e dell’amministrazione ereditata dal predecessore, dall’altra. La situazione internazionale, affrontata con cultura, mezzi e uomini assolutamente inadatti, lo trascinò alla rovina. Egli pure come suo padre si comportò da sovrano del XVII e del XVIII secolo in un momento in cui sarebbe stato necessario avere il coraggio di affrontare questa nuova realtà.7
Prima di Pasqua, secondo tradizione, il Re lavò i piedi ad una decina di poveri, senza che nulla facesse presagire il peggio, mentre il 2 aprile 1860 i deputati di quattro dei sei stati dell’Italia si riunirono a Torino tranne le Due Sicilie e la Chiesa. Mancava un mese al primo tracollo, quando il 3 aprile, l’altro zio, il Conte di Siracusa Leopoldo Borbone, gli inviò una missiva che lo invitava a consolidare la politica estera adeguandosi ai tempi.
Parole inascoltate, quelle del fratello del padre che preferiva essere salutato “colla bandiera allo stemma dei Savoia e non col borbonico professandosi suddito di S.M. Vittorio Emanuele II, solo Re degno di regnare sull’Italia”. Così dirà all’Ammiraglio piemontese Pellion di Persano, nel ricevere, in cambio del suo tradimento, il titolo di Luogotenente della Toscana.8
L’ultimatum a Franceschiello avvenne ad aprile, mentre le spie piemontesi erano già in Sicilia a fomentare i liberali promettendo una anomala autonomia previa annessione al Regno sabaudo. Anche gli insurrezionali di Avellino e Benevento, nati fra i banchi del liceo, erano pronti. Ma divennero sempre più mazziniani che garibaldini, sentendosi chiamati alla giusta causa della rivolution, anticipando sul campo la discussione politica post-unitaria che darà vita ad una miriade di giornali locali. 9

 

Description

ABECEDARIO di AVVELLINO. I PARTE: il 1800

PRESENTAZIONE
di Fausto Baldassarre

1.
le acque nei cunicoli di montevergine,
patiboli e marchingegni di hugo e mazas

2.
dal borgo al largo dei tribunali:
la futura piazza della liberta’

3.
dalla collina di «terra di campana»
al regio teatro di re ferdinando

4.
i liberali del liceo «colletta»
nei moti del 1848 e nella rivolta del 1860

5.
giornali e politica locale
nel regno d’italia dopo il 1861

6.
sbocciano mestieri, arti, professioni
e la classe impiegatizia di fine secolo

7.
sbocciano mestieri, arti, professioni
e la classe impiegatizia di fine secolo

8.
da festa, farina e forca
a moda, militari e trattorie

APPENDICE

I LIBERALI DI AVELLINO E GLI ERRORI DEL 1861
a cura di Sabato Cuttrera

Gli antefatti liberali e la scintilla del cospiratore

– Settari del Principato su Benevento: i Morante di Apice

– Don Isernia, il cospiratore garibaldino dei Dragoni

note

La congiura di Corte contro il Re conservatore

– Un nuovo Sovrano sul trono, ma niente Costituzione

– Franceschiello regge col Governo retrò, lo Zio trama

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Editorial Review

 

TUTTE LE COSE CHE NON SAPEVATE SULLA NUOVA CITTA' DEDICATA AL RE DI BRONZO

SULLA POLITICA, LA STORIA, LA MODA E LA CULTURA DI AVELLINO NEL 1800

Note di S.Cuttrera

Le truppe francesi non erano mai piaciute agli avellinesi per via della repressione del 1799, quando scesero dalle colline delle Selve e dei Cappuccini per occupare la città. Avellino - scriveva Raffaele Valagara in Un secolo di vita avellinese edito dalla Tipografia Pergola - era colpevole di aver abbattuto l’albero della libertà. Durante il conflitto sulle Selve avevano perso la vita centinaia di cittadini nel giorno dell’Ascensione, proprio mentre erano in corso i festeggiamenti solenni del popolo. Ne seguì il saccheggio nella notte. Le truppe francesi guidate dal colonnello Sigismondo Hugo, padre del celebre Victor, rubarono di tutto. Il giorno dopo fecero il resto i predoni dei paesi vicini.“Quando l’11 giugno il cardinale borbonico Ruffo sfilò per Avellino, i presagi della distruzione francese furono imminenti. E così, mentre si discuteva se accettare o meno l’editto dell’8 agosto 1806, molti signori avellinesi si dichiaravano contrari ai francesismi, in quanto con l’istituzione dell’Intendenza e dei Tribunali in Avellino sarebbero giunti solo impiegati, classe che si sarebbe appropriata perfino delle «migliori qualità di pesce al mercato»: la paura di un ritorsione borbonica era evidente. Eppure a nulla servì acclamare il cardinale Ruffo abbattendo quell’albero della libertà eretto nel 1799 durante i cinque mesi di governo sanfedista. Ma se i Francesi erano stati così duri mettendo a ferro e fuoco una città tardiva a piegarsi, come si sarebbero comportati adesso che Avellino aveva continuato ad amare quei principi che avevano fatto rifiorire il commercio? Ad avere paura fu proprio quella borghesia ottocentesca che faceva maggior uso di carne e di pesce che ivi giungeva da Salerno nei giorni di martedi, mercoledi, venerdi e sabato per la mulattiera che dalla marina portava direttamente al borgo S.Antonio Abate. E quando non arrivava voleva significare che i predoni avevano assaltato i carri sulla montagna di Serino che divide Forino da Montoro.
L’occupazione militare francese del 1806 aveva portato un profondo sconvolgimento, soprattutto politico spostando, dopo due secoli e mezzo, la sede dell’amministrazione della Giustizia, cioè il carcere della provincia, da Montefusco in Avellino. La città era alquanto giovane, né è l’antica Abellinum, invenzione della storiografia, in quanto La Villina, rifondazione della Villa di Atripalda, fu confusa dagli studiosi con Abellainatium = Abella in Atium del Principato di Puglia. Basta considerare che la sua Università comunale, nel 1552, non arrivava che a 700 abitanti, sviluppandosi solo grazie alla protezione dell’ultima dinastia dei principi quando, abitando il Casino del Parco di campagna, nei pressi dell’antica Rocca della Contea beneventana dei Capuani, provvidero a proteggere i caseggiati del vicino Borgo di S.Antuono che eveva accolto i superstiti provenienti chi da Villa Atripalda e chi dai casali salernitani.“Avellino era una città giovane anche perché i casali risorti intorno a simili castelli baronali, cioè i castrum o rocche che dir si voglia, tra il 1500 e 1600, contavano più residenti. E’ il caso di Gesualdo che veniva tassato per 2.000 abitanti; di Pietrastornina per quasi 1.000; di Mercogliano per quasi 2.500 casalani; Altavilla ne annoverava 1.500. Ci vollero 150 anni, bisognerà infatti attendere il 1700, ai tempi della principessa Colonna e di Marino gran cancelliere del Regno, per vedere aumentare la popolazione avellinese a poco più di 3.000 unità.
Il grande esodo insomma c’era stato solo tra il 1700 e il 1800 grazie al commercio del grano che dalle Puglie doveva raggiungere Napoli; dove si cominciarono a vendere anche frutti locali, come castagne e nocciole, e prodotti lavorati, come la pasta, che permisero lo sviluppo delle botteghe per la riparazione delle carrozze e la costruzione di nuove abitazioni degli operai e dei bottegai a ridosso delle taverne e di Piazza della Dogana, risalendo per il Largo dei Tribunali (piazza Della Libertà) col successivo nascere del Corso, sulla via di «fore ‘e chioppe».
Paradossalmente, senza questo via vai tra le due porte della città, non sarebbe nato nulla; fu invece proprio la Dogana a portare i benefici del dazio ai re di Napoli, permettendo a essi, o a chi per essi, di costruire i primi palazzi settecenteschi, le fontane e le nuove piazze. Grazie al fiorire del commercio e alle comodità del borgo, insomma, la gente dei casali si spostò e si fermò intorno al Duomo e a Piazza della Dogana dando luogo alla cittadella che nel 1806 contava 15.000 abitanti. Questa crescita fu possibile anche perché a tenere il feudo di Avellino erano stati gli stessi principi Caracciolo-Rossi ininterrottamente per 224 anni. Erano stati cioè feudatari dal 6 maggio 1581 fino all’abolizione della feudalità, nel 1805, con l’invasione francese delle truppe del colonnello Hugo, il quale, in quell’8 agosto, dichiarava Avellino capoluogo del Principato Ulteriore, ponendola non solo a capo della amministrazione della giustizia provinciale, scippata a Montefusco, ma anche della provincia politica, primato appartenuto all’ex Ducato di Atripalda e prim’ancora a Benevento.
Con i Francesi si spostò da Montefusco anche l’Intendente: il colonnello Mazas, di origine spagnola, giunto a Napoli con i Borbone, ebbe da subito un potere enorme sulla popolazione, grazie alla sua esperienza maturata in Toscana e a Montefusco. Raccolti intorno a sé i notabili della città, Mazas li rassicurò che non ci sarebbe stata una nuova impiccagione, che non bisognava piantare alcun tiglio della libertà e ne’ bisognava ricorrere alle armi. Del resto la città era stata già distrutta dall’esercito francese che aveva depredato case e rubato oro e argenti ai notabili e opere d’arte alle chiese. Non restava che ricostruire un novello capoluogo in base al modello di legge francese, anche se il sindaco Sebastiano Plantulli, non sembrava molto d’accordo.
Il primo progetto fu quello di far nascere una strada rotabile che congiungesse Avellino a Salerno, capoluoghi dei due Principati, magari prima di Serino, paese che già aveva ottenuto l’autorizzazione per la strada di Turci, altrimenti la città sarebbe stata addirittura tagliata fuori dal commercio che aveva il suo sbocco a mare. La strada avrebbe preso nome proprio di Via dei Due Principati, congiungendo essa direttamente i centri abitati delle due città, scimmiottando l’isolata Benevento vaticana.
Mazas propose poi la costruzione di una fontana nel bel mezzo della piazza dei Tribunali e una strada diretta fra Avellino e Atripalda che poi si ricongiungesse con la Basilicata. Tutte queste opere furono pensate non prima dell’apertura di una grande via che allargasse lo Stretto per congiungere la Piazza fino al Duomo, la qual cosa non fu mai realizzata. Bisognava fare presto, troppo tempo si era già perso. Naturalmente il processo evolutivo ebbe i suoi pro ed i suoi contro e le condizioni di vita non mutarono da un giorno all’altro dopo una sudditanza durata duecento e passa anni.
Commercianti, artigiani e contadini dovevano pensare più alla qualità della vita che alla quantità richiesta dagli ex feudatari. Con l’allontanamento del principe dalla città furono vendute tutte le sue proprietà, dalle gualchiere alla tintiere, alla dogana, mentre altri beni vennero incamerati direttamente dal Comune. Nell’ex palazzo del principe Caracciolo (attuale sede dell’Amministrazione Provinciale), acquistato dal Municipio per 24.000 ducati, furono istituiti i Tribunali con la Gran Corte Criminale, dove si alterneranno avvocati del foro napoletano del calibro di Giuseppe Poerio. Lavorazioni e produzioni di ferro, pellami, cappelli, pannilana e seta (poco rifinita e quindi poco pregiata) rimasero per lungo tempo a livello artigianale, contrariamente a quanto accadeva nel circondario, cresciuto a dismisura con le ferriere di Atripalda e le concerie di Solofra. Erano ormai i contatti con la cultura napoletana, le sole porte che si aprivano.
Uno dei primari desideri da soddisfare fu quello dell'acquedotto cittadino che, a partire dal 1810, fece felice un po' tutti i notabili che avevano la possibilità di portare l'acqua potabile sotto casa. In quegli anni fu ampliata infatti la condotta del Loreto, raggiunta fin dalla fine del 1700 da uno dei tre canali provenienti da Montevergine che si raccoglievano nella vasca del Tritone, quella situata sopra al Ponticello in Piazza Demanio a Ospedaletto d’Alpinolo...