10. Tavernola Casale d’Atripalda nel 1754

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Copertina posteriore

La comunità riunita intorno a parrocchia, confraternite e piazza

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Anche a Tavernola, come ad Aiello, vi sono diverse cappelle erette dalle Confraternite, altrimenti indicate come oratori.60
Ad Aiello, come si ricorderà, l’Oratorio di San Carlo Boromeo, infatti, viene anche detto il Pio Monte dei Morti eretto nella Chiesa parrocchiale e possiede una casa ed un’altra casa di quattro membri sita nel luogo detto Lo Mondezzaro. Invece, il Sacro Oratorio sotto il titolo di Santa Maria del Carmine, eretto nella Chiesa di San Sebastiano, possiede due terreni, una casa ed un’altra casa sita nel luogo detto Lo Trave, venendo tassato per oltre 81 once, poco distante dal Beneficio sotto il titolo di San Francesco di Paola, eretto nella stessa Chiesa di San Sebastiano, che possiede un terreno da 84.10 once. Sono i Luoghi Pij di Aiello da cui ricaviamo che la Chiesa di San Sebastiano possedeva terre e selve, mentre la Chiesa di Santa Maria delle Grazie: due terreni, una casa sita nel luogo detto La Piazza ed un’altra casa sita nel luogo detto La Fontana. In questa chiesa era stato eretto il povero (solo 1,3 once) Sacro Oratorio sotto il titolo dell’Anime del Purgatorio in possesso di vari terreni, una casa sita nel luogo detto La Fontana ed un’altra casa sita nel luogo detto La Cupa. Seguono le Cappelle così elencate: del SS.Rosario, della SS.Consolazione, di San Filippo Neri, di San Giuseppe, della SS.Passione, di San Biaso, oltre quella già nominata detta Cappella di San Tommaso d’Aquino.61
La parrocchia, di per sè, non è una struttura, bensì il raggruppamento delle anime su cui ha potere il vescovo (diremmo “il partito”), mentre la chiesa parrocchiale è un edificio di padronato (ossia “la sede”), cioè di proprietà dell’Università, benchè la nomina del parroco spettasse al feudatario. Di sicuro la Venerabile Chiesa parrocchiale di suddetto casale d’Aiello era stata già incorporata alla mensa vescovile della Città d’Avellino, godendo anche di alcune rendite in quanto la sommatoria delle tasse assommava a 195 once.62
Erano poi presenti in paese le organizzazioni religiose forastiere, rubricate nella sezione dè luoghi pij forestieri bonatenenti. Si tratta di due monasteri.63
Dalle tasse sui propri beni, la Chiesa aveva facoltà di dedurre dalla somma da pagare le spese ordinarie descritte nell’Onciario. Sarà sempre meglio quindi distinguere prima la Parrocchia, così come accaduto per altri luoghi. Questo perchè una Parrocchia può essere anche vacante e la chiesa funzionare lo stesso, come abbiamo sottolineato anche oltre la montagna del Partenio, da Caserta a Mugnano del Cardinale. Cappelle e Congregazioni di monti frumentari rette da laici, talvolta indicate con nomi diversi, con decine di ecclesiastici che ci girano intorno. Un quadro completo lo si ha proprio dai Catasti, nella sezione relativa ai beni di Chiese, monisteri, Badie, Beneficij e Luoghi Pij, specie per le città grandi, come accaduto per Avellino o Santa Maria Capua Vetere.64
La Chiesa e le Cappelle di Tavernola, come vedremo, sono invece piccolissime, come del resto esiguo è il numero degli abitanti. Ogni residente è obbligato a dichiarare i beni posseduti, come si legge per esempio nei volumi degli atti preliminari, dov’è allegato il singolo atto di fede di ogni cittadino, cioè l’impegno scritto, a cui spesso si rimanda, giusta la fede puntata nel volume degli atti preliminari. Ed è partendo da queste dichiarazioni, cioè dalle rivele effettuate dai cittadini (quasi sempre spontanee), che le commissioni poterono redigere i catasti in tempi brevi per l’epoca, come abbiamo visto per Torrioni, benchè in alcuni casi, furono consegnati dopo dieci anni. Il catasto di Aiello, scritto nel 1742, al contrario di città come Avellino o Caserta, non ebbe bisogno neppure delle sezioni dei volumi catastali denominate Repertori. Il Catasto Onciario di Tavernola fu denominato Catasto Onciario di tavernola di Atripalda. Sullo stesso frontespizio del librone viene aggiunto che fu terminato nell’anno 1754, al contrario di Aiello consegnato nel 1742.65
In ogni caso si tratta di piccoli Casali piccoli dei grandi Stati feudali dei Caracciolo d’Arcella insediatisi in Avellino, lontani dai grandi numeri dei ricchi comuni di Terra di Lavoro, ma anche da quelli medi della sede del Marchesato in Atripalda e del Principato della stessa Avellino.66

7. Il Catasto inteso come dichiarazione del reddito imponibile
Viene dato quindi inizio alla redazione del Catasto di uno dei feudi più piccoli, sia degli Stati feudali dei Caracciolo (le rendite sono più esigue di Torrioni) che del Principato Ultra, in cui compariranno soprattutto poveri, ancora di più di Aiello.67
Come vedremo, dalla collettiva generale, risulterà che il Casale di Tavernola, fra cittadini, vedove e vergini, ed ecclesiastici secolari, chiese e forestieri dichiara in totale appena 2.361.19 once, come si riporta in Appendice. E’ poco meno della metà del Casale di Aiello che viene tassato per 4.805,15 once a cui vanno aggiunti quelle delle chiese di 287,15, dei cittadini assenti di 257,22, dei forestieri con 319,25 e dei luoghi pii forastieri con 125 once, raggiungendo un reddito imponibile di 5.794,17 once.68
Non resta che analizzare il Catasto che, nel caso di Aiello, abbiamo diviso e poi riunito, fra commenti e tabelle in appendice, specificando oltre il nome e luogo di residenza anche la somma dovuta da ogni singolo capofamiglia.69
Non tutti i cittadini, dunque, pagavano le tasse. I forestieri che già dichiaravano il possesso dei beni nel paese di origine, per esempio, erano esenti da altro pagamento, se non la tassa sui beni, se sono solo bonatenenti, e la jus habitationis di 15 carlini se vi abitano, venendo esentati dai contributi comunali e dai servizi locali. Non erano tenuti a versare nulla neppure i capifamiglia con oltre sessant’anni e le vedove, individuate in un elenco a parte, insieme alle vergini in capillis, cioè da matrimonio, e alle bizzoche (monache), tenuti a pagare solo la tassa sui beni se supera i 6 ducati. Questo per avere un quadro completo anche delle doti che, quasi sempre si riducono ad una casa patrimoniale, se l’eredità è appartenuta a ricchi, oppure ad una casa dotale. Rispetto alle poche vergini e bizzoche delle grandi città la situazione dei piccolissimi centri della provincia come Tavernola e Torrioni muta leggermente, facendo, i compilatori del Catasto, una differenza netta con gli appartenenti a questa categoria, stralciandone la posizione e indicandola in maniera distinta. C’è da dire che si può incorrere nella solita confusione in quanto la mano del compilatore in una sezione del Catasto tira solo le somme delle once da pagare sui beni di Vidue, vergini in capillis, e bizzoche che li posseggono. In un’altra sezione, invece, vengono in genere trascritte le Vidue, vergini in capillis e bizzoche e loro conviventi, cioè come capifamiglia di vedove, vergini e bizzoche che non contano ai fini fiscali.70
In compenso è stato rinvenuto l’elenco di tutti i sacerdoti con indicazione dei beni della Chiesa.71
A Tavernola v’erano anche dei privilegiati, completamente esentati, sebbene non compaiano padri onusti, genitori di dodici figli, poveri o ricchi, come accaduto per una manciata di famiglie nel casertano o a Mugnano del Cardinale.72
I redattori effettuano un rigoroso controllo sui forestieri bonatenenti, che posseggono cioè beni in loco, e sulle stesse vedove e zitelle, oltre che sui capifamiglia. A questa analisi finale non scappano quindi i forestieri, ma neanche le istituzioni forestiere, cioè i bonatententi religiosi. Si tratta di quelli che vengono definiti ecclesiastici residenti. Altri sacerdoti posseggono benefici con diritto di patronato. Non v’è dubbio che Tavernola è la rappresentazione del più piccolo borgo del Principato Ultra da far invidia solo a Torrioni.73
E’ un po’ lontano il borgo così come lo immaginiamo sfogliando le pagine di storia, a meno che non si guardi ad Atripalda, dove la gente si preoccupa del necessario come in altri piccoli paesi.74
Le vedove e le vergini bonatenenti non abitanti si contano sulle dita di una mano e non sempre i piccoli proprietari di sono del posto, né sono rintracciabili per rivela (la dichiarazione formale del diretto interessato per fare il riscontro fra le proprietà possedute e quelle dichiarate), atto pressoché impossibile per quei bracciali che, pur possedendo territori a Lapio, non vi abitano, essendo residenti soprattutto nei paesi del circondario. Si tratta di contadini che posseggono, per la maggior parte, territori di confine. Questi forastieri sono riportati uno per uno nel Catasto Onciario a dimostrazione che anche nel più piccolo paese – vedi Torrioni – il sistema tributario borbonico veniva rispettato come nelle grandi città.75
A chiudere la lista di chi non ha fatto rivela sono i forestieri abitanti, per la precisione ecclesiastici, cioè sacerdoti secolari in quanto il loro nome è seguito da un Sace. Si tratta degli ecclesiastici del paese col titolo di Don.76
Diciamo che la povertà si nota perfino dai Fuochi assenti di questo Casale, allontanatisi non per motivi di lavoro, bensì per poverta, daol mendicante Biaso Capobianco di Solofra, allo stroppio no’ sapendo ove abita Felice delli Gatti e all’altro scomparso, no’ sapendosi ove abita, Giuseppe Crocetta.77
Ma neppure i sacerdoti vivevano poi una vita di paventato benessere, tranne forse l’arciprete Don Giovanni Ruggiero che abita con la sorella, suor Maria Felice e la madre vidua, possedenso casa propria con territorio a Lo Campo co’ aria di fabrica, e venendo tassato per 94.27 once dichiarate.78
Del resto la chiesa di Tavernola era povera anch’essa. Si tratta della venerabile Chiesa sotto il titolo di S.Maria delle Grazie de jure patronatus del Unità di questa Casale possiede li seguenti corpi e rendite: un moggio a Petrognanico e numerosi capitali annui venendo tassata su 30.23 once che per il Concordato si riducono della metà, cio 15.11 once. Per non parlare delle misere proprietà appartenute alle cappelle.79
Gli unici a rallegrarsi erano i forestieri bonatenenti nella persona del magnifico Angelo Rapolla di Atripalda che possiede un capitale di 18 ducati e 1/2 che gli frutta un reddito di 2.22 once da tassare, Carmine Genvese di Avellino, il quale possiede un capitale di 20 ducati dichiarando 4 once, il dottore Don Giovanni Rosso di Avellino che possiede numerosi territori venendo tassato per poco più di 258 once. Seguono ancora: il magnifico Don Giacomo d’Urciolo de Cesinali che ha un capitale di ducati 42 dichiarando 6.25 once, Giovanni de Marco de Cesinali che ha un capitale di 50 ducati venendo tassato per 11 once, il dottore Don Marcantonio Bello di Atripalda che ha un capitale di 65 ducati e dichiara 10 once, il dottore Don Valerio di Landisi da San Potito, il quale ha un capitale di 10 ducati e viene tassato per 1.20 once, la magnifica Violante Sandulli [nell’indice Sannulli] di Avellino la quale ha un territorio a Li Valloni per censo enfiteutico e dichiara once 8.10.80
Poveri anche i luoghi pii forastieri fra cui si distinguono: il Beneficio di S.Ipolisto Ma[rti]re di Atripalda che dichiara once 15 (indi la metà), la Cappella di S.Giacomo de Cesinale che viene tassata anzichè su 33.20 once su 16.25, il sacerdote Don Tommaso Festa d’Avellino il quale possiede un territorio a L’Aria per censo enfiteutico e dichiara 30 once, ma soprattutto il Monastero sotto il titolo di San Nicola [nell’indice diviene San Nicolò] Tolentino di Atripalda che possiede numerosi territori per un reddito di 45.25 di cui se ne calcolano 20.12 once e il Convento di Santa Maria dell’Carmine della Contrada che dichiara 93.20 once di cui se ne calcolano 46.25, oltre al Con[servator]io sotto il titolo di S.Maria della Purità di Atripalda che possiede vari territori e rendite dichiarando 82.20 once di cui se ne tassano 41.20. Le cose vanno meglio solo alla venerabile Parrocchiale sotto il titolo di San Felice Martire di questo Casale de jure Patronatus della Famiglia de’ Carpentieri, Tomasone, e O[ratori]o del SS.Rosario di questo Casale, e delli Oelli (sic!) della Terra di Atripalda al presente governata da Don Gio[vanni] Ruggiero arciprete possiede una casa data a fitto, numerosi territori e rendite; per ogni matrimonio che si contrae da cittadini esigge annui carlini 12, per ogni matrimonio tra forestieri [esigge] annui carlini 27, per ogni defunto adulto [esigge] carlini 28, per ogni defunto parvolo [esigge] carlini 3; di ogni perzona che semina frano, fave, orzo, lino ed altri legumi esigge la decima prediale. La parrocchia dichiara un reddito di 111.4 once [che dovrebbe essere tassato per metà ma non c’è riscontro nell’indice della Collettiva catastale.81

8. Un borgo di poche famiglie di bracciali
Le singole dichiarazioni dei cittadini sono riscontrabili nella rubrica catastale denominata formulario della Collettiva Generale Cittadini, una sorta di indice dei capifamiglia, cioè di chi pagava il testatico, che abbiamo riordinato per ordine di cognome in Appendice da cui emergono solo le dichiarazioni di Francesco di Vicariis con 240.05 once e Giuseppe Pagano con 224.25 once.82 Le vedove e vergini in capillis sono solo due,83 i cittadini assenti fuochi e dependenti di fuochi solo in numero di uno,84 come pure dli Ecclesiastici Secolari Cittadini.85
Non resta che tirare le somme, riscontrate nella rubrica catastale denominata Collettiva Generale delle Oncie, riportata in Appendice, dove si ha il reddito complessivo dichiarato di 2.361.19 once.86
Sono lontani i ricchi forestieri e gli abili maestri d’arte particolare come il tintore di panni, per tingere le stoffe dei lanieri, come accadeva a Palena, in Abruzzo, descritto nella cronaca del Bindi, dove si obbligavano i vassalli a tingere i panni nella tintoria del Duca.87 Qui l’unica tintoria che funziona è quella di Atripalda. In ogni caso non sono competitive con quelle del resto d’Europa in quanto si necessita acquistare per la migliorazione delle tinturiere, qualche ottimo tintore, straniero onde sulle di costui istruzioni ed insegnamenti d’intelligenza co’ migliori de’ nostri chimici si possa stabilire e distendere nelle fabriche tutte del Regno il buon gusto, la delicatezza e la perfezione delle tinte.88 Resta inteso che, anche in comuni non lontani, come Piedimonte d’Alife, esisteva una tintoria privata, con ben 13 tintori, e la Tinta grande, dietro il Mercato.89
Grazie agli speziali e ai medici forestieri, comunque, neppure a Tavernola mancano di certo gli unguenti medicamentosi, nonchè ricercatori di cosmetici, ciarlatani e non, che propongono prodotti di bellezza tratti da piante naturali. La rosa di Gerico si apre tra le undici e mezzanotte, si espone alla rugiada e si mette sui capelli: il tal modo si è liberi dal mal di testa e crescono i capelli. Si va quindi alla ricerca del rimedio naturale, della cura per forza, del prodotto che liberi da piccoli fastidi e da dolori tormentosi. Addirittura si utilizzano gli stessi medicamenti nella magia popolare, volendo anche per tenere lontani i fulmini e altre calamità dalla casa in cui essa è custodita.90 E’ un secolo in cui ci si impone il rimedio attraverso libri, vademecum e consigli. Decine di manoscritti diffusi in tutta europa, fra cui il più antico del 1200 (oggi a Oxford, Bodeleian Library), poi riuniti nel Thesaurus Pauperum, una raccolta di ricette per ogni specie di malattia o di disturbo, ordinate a capite usque ad pedas secondo la visione della scuola salernitana nella quale confluivano la tradizione medica greca, latina, araba e giudaica. Il Thesaurus rappresenta un significativo manuale di medicina medievale scritto soprattutto per beneficio degli studenti poveri che non potevano permettersi molti libri. Si tratta di raccolte di ricette, fra il Viaticus di Costantino l’Africano e il Thesaurus del 1250 circa, secondo l’ordine della medicina salernitana, dalla caduta dei capelli, de casu capillorum, alle malattie dei piedi, de gutta arthetica et podagra, rinvenute nell’edizione siciliana.91
Ad Aiello v’è già la presenza di uno speziale manuale, categoria che spadroneggia un po’ ovunque. I nobili hanno per abitudine mandare i loro figli a divenire speziali manuali in una delle tante botteghe, fra le piazze e le viuzze, quasi fosse un praticantato degli scolari divenuti studenti.92 Medicina popolare che si incontra con il folclore, sebbene le annotazioni demo-antropologiche sono spesso dimenticate da storici locali animati da vuoto campanilismo non solo in Terra di Lavoro.93 Aspetti di cultura agro-pastorale spesso impossibili da ricostruire per quella maledetta voglia, per dirla con Lutzenkirchen, di rimuovere, di proposito e in tempi molto brevi, quanto potesse ricordare una epoca pur non lontanissima di disagi, di difficoltà e di miseria. Così, al tempo stesso, si è inteso (soprattutto dall’alto) cancellare la coscienza delle proprie origini, nella prospettiva di una vita soltanto economicamente migliore.94
La crescita di grandi paesi è dovuta anche alla presenza di uno stampatore, cioè una stamperia nel circondario,95 purtroppo assente un po’ ovunque. Anzi, non è difficile, incorrere in episodi di omonimia.96
Resta il fatto che nel Regno vive una gran massa di ignoranti ed è dal lontano 1456 che, in Germania, uscì dalla bottega dell’artigiano Johan Gutenberg, per la prima volta, un libro a stampa, non più scritto a mano. Un’invenzione che ebbe un travolgente successo e permise agli stampatori di raggiungere negli anni altri luoghi, cioè i più fiorenti centri di commercio del continente europeo, che offrivano le migliori prospettive di guadagno. Va considerato quindi che in ogni Provincia del Regno ci potessero essere una media di cinque stamperie, comprese quelle statali.97
Sono piccoli elementi che contribuirono allo sviluppo di altri paesi, mentre fra gli ex Casali della Montagna di Montefusco le cose precipitano in quanto andava a spostarsi il baricentro del Principato Ultra in direzione di Avellino. La stessa Aiello si fonde con Tavernola. Episodi analoghi sarebbero accaduti in tutto il Principato. Anche Chianca, al di qua del monte Cancello, a causa dello spopolamento, si preparava all’accorpamento con Chianchetelle e altri vecchi casali distrutti (San Pietro Indelicato), prendendo tutti il nome di Chianche. Luoghi che chiedevano di essere collegati fra loro con nuove strade sempre meno impervie.98
Per questo e per altri motivi legati all’ignoranza e allo strapotere dei feudatari che Aiello, come gli altri paesi, non ebbe immediato sviluppo e restò arenato fra i suoi 1000 abitanti circa. Non per questo esentati dalle tasse. Dall’Unione delle once, sezione del Catasto di solito chiamata Collettiva generale dei cittadini residenti (esclusi quindi i forestieri) si evince che, mentre nel 1742 gli aiellesi hanno versato nelle casse dello stato tasse per un valore complessivo di 5.749,17 once, gli abitanti di Tavernola contribuiscono con poco più della metà di quella cifra.99
E’ tutto scritto in poche centinaia di pagine del Catasto Onciario del Casale di Tavernola e Sabina, oggi un tutt’uno con Aiello del Sabato, che abbiamo qui confrontato e poi riassunto fedelmente nell’Appendice documentaria.100…

Description

GLI ABITANTI DEL 1700 DI TAVERNOLA (OGGI CON AIELLO) EX CASALE DI ATRIPALDA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Da Sabina, Tavernola e Petroneruto verginiani de1222 a San Felice

E’ opinione diffusa che il Casale di Tavernola, unitamente all’altro di Sabina, sia antichissimo. all’epoca della redazione del Catasto Onciario, La Savina, è un luogo di Tavernola Casale d’Atripalda la cui nuova chiesa del borgo è privata. Dovette essere infatti ricostruita da vassalli del feudatario che ne erano proprietari in quanto, ancora all’epoca dell’onciario, la Venerabile Parrocchiale sotto il titolo di San Felice Martire di questo Casale è de jure Patronatus della Famiglia de’ Carpentieri, Tomasone, e O[ratori]o del SS.Rosario di questo Casale, e delli Aelli [sembra: Oelli] della Terra di Atripalda al presente governata da Don Gio: Ruggiero arciprete il quale possiede una casa data a fitto, numerosi territori e rendite. Inoltre per ogni matrimonio che si contrae da cittadini esigge annui carlini 12, per ogni matrimonio tra forestieri [esigge] annui carlini 27, per ogni defunto adulto [esigge] carlini 28, per ogni defunto parvolo [esigge] carlini 3; di ogni perzona che semina frano, fave, orzo, lino ed altri legumi esigge la decima prediale. Un Casale che dichiara 111.4 once e che dovrebbe essere tassato per metà del suo valore, come prevede il Concordato firmato dal Papa e dal Borbone, sebbene non vi sia riscontro nell’indice della Collettiva catastale. La parrocchia dichiara un reddito bassissimo rispetto ad una seppur piccola comunità.
Non fu quindi quella intitolata a San Felice l’originaria chiesa del Casale di Tavernola. Scrive Don Mario Todisco nel sito internet della diocesi, parroco di San Felice in Taverlola che il nome fa pensare ad un luogo di sosta lungo la strada per la gente di passaggio in quanto la via Nucerina era ancora molto frequentata prima che venisse costruita la nuova Avellino e la “via salernitana” fosse deviata su un altro percorso. Aggiungendo che la devozione a S.Felice di Cimitile, così ampiamente diffusa nel mondo cristiano dallo scrittore, monaco e poi Vescovo, S. Paolino da Nola, conquistò intensamente i longobardi che ne lasciarono chiese e toponimi anche nella parte interna dell’Irpinia (v. S. Paolino a Villamaina, S. Felice a Rocca San Felice ed in contrade rurali poco note).
Egli lascia intendere che sia esistita già una chiesa importante intitolata a San Felice in territorio atripaldese in quanto aggiunge che si pose il problema di spostare la parrocchia nella chiesa dei martiri o di S. Ippolisto e che dopo un lungo dissenso, talvolta colorato di vera ostilità, questa chiesa fu dichiarata autonoma dal Capitolo della Cattedrale (1585), fu sede della nuova parrocchia con l’abolizione del precedente titolo di S. Pietro (1587). Nel 1592 fu costruita una nuova e bella chiesa e fu costituito poi un Collegio che la officiasse (1598). Per necessità fu trasformata in cripta l’ipogeo romano o specus martyrum e fu occupata una parte della necropoli cristiana. Nel 1852 la chiesa fu abbellita di marmi.
Viceversa, si potrebbe intendere, che i vassalli sostenitori del culto di San Felice furono fatti sloggiare da Atripalda e ricostruirono una chiesa intitolata al santo in Tavernola. In ogni caso, essendo la parrocchia privata e di giovane fondazione, non sono da ricercarsi in una chiesa di San Felice le origini di Tavernola, bensì nel suo stesso toponimo.
Il primo documento che cita questa Tavernola risale al 1222 quando Guglielmo, Signore di Atripalda, dona un castagneto a Montevergine sito nel luogo di Tavernola. Idem per i due castagneti siti fra Avellino ed Atripalda nel luogo detto Sabina donati sempre a Montevergine nel 1286. E’ questo il trasunto degli atti fatto da Lucio Fiore qualche anno fa nel suo Tavernola: viaggio nel passato, in cui cita diversi documenti di provenienza verginiana. Il Casali Tabernula torna infatti nelle pergamene di Montevergine nel 1276 quando si sposa Gregorio figlio del giudice Giovanni de Gyso di Atripalda con Petronia cugina di Giovanni Bianco di Serino donandogli la quarta parte dei suoi beni. E ancora quando nel 1308, Romano figlio di Orso, deve corrispondere il canone annuale di un fiorino d’oro per la casa coperta con davanti una corte sita nel luogo detto Tavernola, per la selva, per la vigna, pe ril castagneto e nocelleto sito nel luogo di Petroneruto; e per altri a Galdo, Cortizia, Paparano, Campo delle Noci, sempre a Tavernola, Vallicelli, Ponte e Puzzo, presos i beni di Santa Maria Maddalena.
Nel 1354 a Coluccio del giudice Bellotto del Casale di Tavernola, sito in pertinenza di Atripalda, vengono concessi dai verginiani due pezzi di terra a Rumaiure e S.Vincenzo.
Il 1300 è il secolo di Bernardo Scillato che, nel 1310, si ritrova Signore di Atripalda, seguito dal successore, nel 1316, quando Atripalda era tassata per once sette, tari 25 e grana 21. La signoria fu poi di Tommaso Boccapianola, ed il figlio di costui Francesco ne fu spogliato nel 1420 per ribellione. Stando alla cronistoria di Giuseppe Pennetti il feudo fu di Raimondo Orsini e ne fu spogliato, sempre per ribellione, il figlio Felice nel 1462 quando Atripalda fu data ad Orso Orsini elevato a Conte. Il figlio Raimondo perdé poi la Contea giunta ad Alfonso Castriota, il quale, nel 1513, fu fatto Marchese di Atripalda e comprò l’intero feudo per 25.000 ducati. Ma la figlia Camilla, nel 1559, vendé tutto a Giacomo Pallavicino, che a sua volta lo rivendé, nel 1564, a Domizio Caracciolo, fatto Duca di Atripalda nel 1572.
Sul possesso dei feudi di confine vi sono antiche diatribe. Ma non sono poche neppure le contese di questi anni fra le diocesi di Salerno ed Avellino.
Parlando dell’Ospedale di Contrada, il Matarazzo e il Montefusco, in www.madeinirpinia.it, scrivono che durante il Medioevo vi furono diversi tentativi da parte dei vescovi di Avellino di incorporare questi territori nella propria diocesi, ma le vertenze si conclusero negativamente. Tuttavia, l’ospedale e la chiesa, che appartenevano di poco alla mensa episcopale avellinese, permise al vescovo di Avellino di estendere la propria giurisdizione diocesana su parte del casale di Ospedale. La cura parrocchiale per lungo tempo venne affidata al curato di Ajello, con non poche difficoltà di quei “figliani”. Bisogna comunque precisare che da un punto di vista strettamente giuridico, le “pertinenze diocesane” avellinesi potevano essere accampate solo su alcune famiglie del casale, mentre altre, per sottigliezze territoriali, di diritto appartenevano alla diocesi di Salerno. Di fatto, comunque, gli abitanti del Casale, furono considerati “figliani avellinesi”. Solo nel 1854 venne ragiunto un accordo definitivo con il quale la chiesa di S.Maria delle Serre fu ceduta dal vescovo di Avellino all’arcivescovo di Salerno, passando quindi sotto la giurisdizione parrocchiale di Contrada, in cambio di alcuni beni che entrarono a far parte della parrocchia di Tavernola. Da qui, percorrendo sempre la stessa strada, si raggiungeva Solofra.16

3. Nello Stato del Marchesato di Atripalda dei Caracciolo di Avellino
Atripalda ha da sempre avuto il primato commerciale della provincia mantenuto vivo da un mercato settimanale annoverato tra i primi in Italia e dalle floride fabbriche di tessuti, di ferro, di rame, di cappelli. Fin dal 1564, ai tempi del feudatario Domizio Caracciolo, fatto Duca di Atripalda nel 1572, la Casata mantenne il centro e i suoi Casali, Tavernola compresa. E duchi di casa Caracciolo furono successivamente Marino, Camillo, altro Marino, Francesco, fino all’ultimo feudatario Giovanni nel 1784.17
Primato che manterrà anche nel secolo successivo, quando il circondario eleggerà a Consiglieri Provinciali del Mandamento di Atripalda, dal 1861, il giudice Salvatore Cocchia (1861-67), l’avvocato Vincenzo Ruggiero (1867-69), il commendatore Pietrantonio Vegliante (1869-78) e il commendatore Luigi Belli (1878).18
Di questi ultimi anni sapremo addiritura i nomi degli esercenti dell’arte salutare che, nel 1880, risultano essere i medici Nicola Cennamo di Vincenzo, Saverio Di Sapia di Cesare, Lucio Sessa di Raffaele, Luigi Farina di Giuseppe, Alfonso De Caprariis di Pasquale, Roberto Farina di Francesco; i noti farmacisti Gennaro Ruggiero, Giacomo Farina di Giuseppe, Vincenzo Sessa di Salvatore, Alfonso Laurenzani di Nicola, Giovanni Parziale di Ciriaco, Gustavo Sessa di Raffaele, Luigi De Cesare di Domenico, Stanislao Alvino di Sabino, i flebotomi Andrea Adesso di Sabino e Francesco La Sala di Sabino e le levatrici Francesca Oloferne e Anna Esposita di Sebastiano. Ma siamo già nel 1889 avanzato quando Atripalda conta 6200 abitanti, commercia vini, castagne, nocciuole, ortaggi ed ha industrie di rame e di ferro, e Tavernola è stata ormai aggregata ad Aiello che viene chiamato Aiello del Sabato. Sul finire del secolo riscontreremo notizie sempre più approfondite, quando, nel 1889, per esempio, era primo cittadino atripaldese il Cavalier Avvocato Luigi Belli.19
Ma prima di allora molte vicende, belle e brutte, legarono il nome dei Caracciolo ai loro feudi. Aveva cominciato il figlio di Don Camillo, Marino II, il quale ebbe una vita felice ed agiata, ricca di soddisfazioni, a cominciare dalla nomina a Gran Magistero de 1623, interrotta solo dalla peste del 1656, quando, pur trovandosi a Napoli in quanto Cancelliere del Regno, fece trasformare il Palazzo di Avellino in un vero ospedale per i colpiti del morbo, delegando al governo di Avellino prima il vescovo Pollicini, poi, contagiato anch’egli, alla sua morte, l’abate Michele Giustiniani. L’ordine fu quello di impedire l’ingresso ai forestieri, ma la peste si era già diffusa al punto di ridurre il numero degli avellinesi da 4.500 abitanti a 2.000 unità circa.20
Nonostante ciò Marino II superò l’era del morbo con grande entusiasmo trasferendosi a Napoli, dove si unì in matrimonio a Donna Antonia Spìnola Colonna, la quale, nel 1688, diede alla luce Francescomarino II Caracciolo. Un principino degno di tal nome che possedette titoli feudali e titoli onorifici ereditari ed acquisiti da far invidia a grandi regnanti.21
In quegli anni gli Stati feudali dei Caracciolo si erano allargati a dismisura comprendendo, oltre il Principato di Avellino e il Ducato di Atripalda, anche la Contea di Serino, il Marchesato di San Severino, la Baronia di Candida, le Terre di Montefredane, Lancusi, Salza, Baronissi e Parete (Basilicata).
Francescomarino II aveva ereditato i titoli di Principe del Sacro Regio Impero, Cavaliere del Toson d’Oro, Gran Cancelliere del Regno, Grande di Spagna di I Classe, Consigliere Intimo Imperiale, Ministro Plenipotenziario in Italia, Generale della Nobile Cavalleria dei Catafratti (corazzieri). Il Principe amava lo sfarzo napoletano, ma non dimenticò mai Avellino. Abbattuti i ruderi del Palazzo-castello degli appestati nel 1707, per ordine del re di Spagna Filippo V, dopo aver concorso alle ingenti spese per il restauro del Duomo di Avellino, sposò (30.4.1713), fra sfarzi e fasti, Donna Giulia d’Avalos (1644-1737), figlia del Principe di Troia, Nicolò d’Avalos. Si racconta che per la nascita del primogenito, Marino IV Francesco, cento messi a precipizio usciro, per dare la buona novella in tutti i feudi. Il suo cocchiere maggiore, giunto nello Stato di San Severino, ricevè gran quantità di monete d’oro e d’argento sia dai ministri dello Stato e da quelli dell’Università comune, che da nobili e civili, come accadde anche per la successione al Principato di Avellino e con la pace fra Carlo VI e Filippo IV. 22
Il Principe Francescomarino II Caracciolo era il signore più ricco del Regno, fra patrimonio burgensatico, artistico e d’armi conservato nel suo Palazzo napoletano e nei suoi Castelli. All’arrivo degli Austriaci si schierò con Vienna lasciando che il Regno venisse conquistato, pavoneggiandosi durante i tanti viaggi da copo a piedi del Regno, come quello del 15 febbraio 1721. In quella data partì dall’Italia con la Principessa soggiornando a Venezia, Milano e Roma, stringendo amicizia con i Borghese, Santa Croce, i Conti Zizendorff d’Egmond, il Duca di Bracciano Odescalchi, arrivando a baciare il piede di Papa Innocenzo XIII nel giorno del Corpus Domini, grazie all’amicizia con la Duchessa Sforza Cesarini nipote del Pontefice. E poi di nuovo in viaggio alla volta di Bologna, soggiornando in casa Passerotti, e di Venezia insieme ad un Cavaliere bolognese, il Conte Orazio Bargellini, in occasione della festa del Carnevale. Viaggi di piacere che sembravano non avere mai termine. Quando tornò a Bologna, il 16 aprile del 1723, lo fece con la madre, divenuta vedova, partendo alla volta di Milano dal 2 al 4 giugno, ospite del Duca di Riario, tornando a Roma e poi a Napoli con il titolo di Consigliere Intimo Imperiale, conferitogli a Vienna il 6 marzo 1723. Carica che ricambiò festeggiando la gravidanza dell’Imperatrice d’Austria, Elisabetta Cristina, facendo innalzare davanti per tre giorni, ai suoi Palazzi di Lancusi e Mercato San Severino, ogni giorno una cuccagna ricca d’ogni bene, svettante fra due fontane di vino.23
Il Principe Francesco Marino II Caracciolo fu uomo di grandi virtù, ma anche di vizi, insiti in chi sceglie la strada della lussuria e dello sfarzo, venendo accusato perfino di essere il mandante dell’omicidio di una sua amante chiamata Rosa La Palermitana. Motivo per il quale, additato dal suo stesso scagnozzo, nonostante i privilegi goduti, dovette fare le valigie in quello stesso 1723, prima che il Vicerè di Napoli, il cardinale Tedesco Federico Althann, potesse imprigionarlo, dopo violenti litigi. Da qui la residenza stabile in Bologna dove il Principe di Avellino godeva di grande fama, trasferendosi a Palazzo Bentivoglio e circondandosi del lusso come nulla fosse accaduto. Anzi, altra festa memorabile, fu quella che si tenne alla nascita di Don Nicola, il secondogenito, il 17 (o 10) dicembre, battezzato dopo pranzo, il mercoledì successivo, nella Cappella del Palazzo, dal senatore Alamanno Isolani, a nome dell’eccellentissimo Cinfuegas, e dalla Marchesa Bentivogli Fontana, a nome del Marchese del Vasto. Da qui il regalo di 100 scudi romani alla Beata Vergine che si vuole dipinta da San Luca, facendo frabbricare quattro puttini d’argento per contentezza e grazia ottenute: uno per la Beata vergine del Loreto, uno per quella di San Luca, uno per la Vergine del Carmine e l’altro per San Pasquale Bailon. Una cosa dunque furono le accuse, altra i rapporti con Vienna, secondo alcuni cronisti, grazie anche all’elargizione di forti somme di danaro. Siamo al 6 gennaio 1725 quando l’imperatore d’Austria gli diede il posto richiesto e la nobiltà imperiale tutta gli fece visita a casa, al punto di superare felicemente il vaiolo che aveva contratto insieme al primogenito, ricambiando la visita di cortesia alle feste da ballo organizzate in casa Zinzi, Isolani e del Legato, mentre a rimetterci le penne, per il gioco dell’acquavite, era invece il Conte Filippo Scardinari. E riecco Principe, Principessa e Camerata ancora in viaggio, da Milano a Genova, per ritornare sempre a Bologna, per una luculliana cena alla Carlina o una serata alla Cavallina.24
Le spese erano abnormi. 20.000 scudi di qua, diamanti impegnati per 50.000 dall’altro lato: i soldi non bastavano mai per chiudere vecchie e nuove liti, fino al grande incarico ricevuto dalla Corte di Vienna del 3 gennaio 1726 con il titolo di Plenipotenziario sopra gli affari d’Italia della Maestà Sua, elevato dall’Imperatore in persona a Ministro Plenipotenziario in Italia il 23 marzo 1726. Soddisfazioni che si sbriciolarono alla morte della Principessa Giulia, il 5 agosto del 1726, e dello stesso Principe, avvenuta il 1 marzo 1727, quando si diede lettura dell’ultimo testamento fatto a Napoli dal notaio Colli. Senza la madre, Principessa Donna Antonia, nè il fratello, si diede lettura delle ultime volontà in cui si dichiarava erede universale il primogenito Duca, solo alla presenza del ragioniere di famiglia, Giovanni Antonio Conti, razionale della Casa d’Avellino, giunto più per riportare a casa Don Marino Francesco Maria Caracciolo Moderno d’Avellino che i preziosi rimasti. Ma anche per i piccoli, affidati per testamento al legato, si dovette attendere il suo consenso del 1 maggio 1730, quando ormai era divenuto cieco e non potè più far fronte alla volontà dell’estinto. Solo allora vennero traslati in Avellino anche i cadaveri dei principi, nell’ipogeo dei Principi Caracciolo-Rossi della Chiesa di Santa Maria del Carmine, il 28 febbraio del 1731.25
I Caracciolo erano punto di riferimento del Regno di Napoli, di padre in figlio. Il giovane primogenito Marino III Francesco Maria, figlio del Principe Francesco Marino II, sarà presto apprezzato anche dal Vaticano, fino a divenire ambasciatore straordinario di Papa Clemente XI. Ma il suo ritorno ad Avellino sarà sempre meno visibile, se non inutile, atteso che i pochi familiari rimasti abitavano nel Palazzo di Napoli e gli agenti delle tasse portavano i conti direttamente nella Capitale. I Caracciolo non si servivano già da tempo neppure di notai avellinesi, quindi le tracce si perdono nel Palazzo irpino abbandonato al suo destino. Il loro nome ricorre di riflesso solo in qualche atto fra quelli redatti dai notai avellinesi, conservato all’Archivio di Stato di Avellino, avendo demandato ogni compito feudale all’agente generale del feudo.26
Già dal 1726 sappiamo con certezza dal Catasto di Avellino che, in quella città, è erario, et agente dell’infrascritta Città d’Avellino, Don Domenico Sandulli, il quale, con particolare biglietto di Sua Eccellezza la Signora Principessa d’Avellino, viene chiamato anche nella causa dell’esecuzione del laudo [leggi: laudemio] promolgato à 30 ottobre dell’anno 1726 che à me infrascritto. L’occasione si ha per una controversia ereditaria in quanto è detto che in più sessioni e conferenze, che si sono tenute avanti di me dalle parti delli Signori Salzano à, Caso si è apprezzato che l’Eredità di Vincenzo Chivochi ascende di docati Mille e quindici dì presente, oltre le pretenzioni per la ricuperazione d’altri effetti. Beni di un così alto valore che vengono elencati nell’inventario che si fa seguire. Avellino non è una città ricca, ma i pochi benestanti non mancano. In più punti del protocollo del notaio vengono riportati atti che si riferiscono a famiglie facoltose, citandosi beni importanti, come l’Inventario dell’Oro: crocettina, anelli, diamantini, cannacchino con diecisette smirati e dieciotto diamanti, canacca di granate grosse vestita con pagliette d’oro, ed una smeraglia piccola d’oro… L’Inventario dei vestiti: di donna di damasco consistente in sottanello e manto, vestito di sponzalizio, etc. E’ l’Inventario, ò sia annotazione de beni esistentino nella casa del fu Dottore Don Francesco Muscati rimasti nella sua Eredità annotati, e descritti colla presente, ed intervento del R.Signor Don Carlo Antonio Muscati della Cattedrale di Conza che comincia con l’elenco degli argenti: una sotto coppa grande coll’impressa Muscati, e corona; una fruttiera di mediocre rotondità senza impressa; due candelieri piani senza impressa, ed una smiccia candela; nove cocchiari e dieci brocche, seu forcine con cinque maniche di cortello con lame per uso di tavola, una tamora ad uso d’acqua con veste di Zacrino. Del resto i notaio trascrivono con frequenza atti di compravendita, specie quelli di matrimonio, da cui si evince il valore di una dote, con o meno allegate lettere di chiarimenti e suppliche: Olimpia Iacenna, moglie di Natale Matarazzo della Città di Avellino in Principato Ultra, umilmente serviente di Vostra Eccellenza, con supplica espone come in tempo fu collocata in matrimonio con detto Natale dalli sui genitori; vi furono promessi, e poi consegnati, docati centrotrenta di dote, cioè docati venti di panni di lino, lana, ed oro lavorato, e poi docati centodieci sine fu assegnata una casa di tre stanze, con orto e largo avanti nel Casale della Valle di Mercogliano.27
Sono anni in cui, senza la presenza del signore, si rafforzano figure minori, necessarie alla Corte baronale, Principal, cioè principesca nel caso di Avellino, per la gestione del feudo. Non era più il padrone del feudo a servirsi del singolo, ma la struttura che era stata creata. Per chiarire le controversie, per esempio, l’erario Sandulli, a sua volta, aveva facoltà di nominare un suo uomo fidato come tavoliere, nella persona di Nicola di Gaudio: si fa fede da me sotto scritto Nicola di Gaudio della Città di Avellino Publico Tabulario come essendo stato eletto dal Signor Dottore Domenico Sandulli delegato della Causa che tengono l’Eredi del quondam Blasio Salzano e della quondam Chiara Pelosi= cò, il magnifico Nicola Caso per stimare et apprezzare, tre unite porzioni di casa site e poste nella pertinenza della suddetta Città detto alla Strada di S.Antuoni. Nel caso di Del Gaudio viene chiamato più volte dai Sandulli, divenendo un riferimento professionale, al punto da definirsi egli stesso Regio agrimensore, come attestano i verbali: si fà fede da me Sotto scritto Nicola di Gaudio della Città d’Avellino Reggio Agrimenzore come essendo stato eletto dal Magnifico Francesco Sandullo, da una parte e dall’altra, Ms. Salvatore Festa, ambedue di detta città. Nicola di Gaudio della Città di Avellino si dichiara in più atti Regio Agrimensore e Publico Tabolario nella causa per cui è stato chiamato da entrambi le parti, come nel caso di Bernardo Rosso e del fratello Nicola. Siamo in presenza di una doppia figura perchè si tratta di un ufficiale feudale, ma è evidente che ognuno possa chiamare il tavoliere che più gli aggrada, purchè di comune accordo fra le parti, perciò chiamato ‘pubblico’: Domenico Cesis fa fede che è Publico Tabolario come essendo stato eletto dall’una e dall’altra parte.28

 

 

Dettagli

EAN

9788872970133

ISBN

887297013X

Pagine

96

Autore

Bascetta,

Fiore L.

Editore

ABE Napoli

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Editorial Review

Uno fra i più piccoli Casali del Principato Ultra

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tavernola, come Aiello, appare un po’ come i quartieri di Caserta, fatta esclusione di Torre, dove vivono comodamente quelli che possiedono un vero palazzo e quelli che si trovano citati nelle varianti del Catasto capuano col titolo di nobili viventi che vivono di entrate o annue entrate. Per il resto sono quasi tutti braccianti.1 In pochi rappresentano la figura del ricco che vive nobilmente, altrimenti detto nobile cittadino o nobile uomo, distinguibile dalla massa perchè vive del suo. Uomini nobili che diventano magnifici appena entrano nell’amministrazione della Cosa pubblica dell’Università comunale per vivere civilmente, cioè di rendita, come un magnifico, quasi tutti appartenenti alla famiglia Gaeta.2
In altri luoghi del Regno, specialmente ad Avellino in Principato Ultra e a Santa Maria in Terra di Lavoro, sono decine.3 La gran parte di essi, ha anche un negozio,4 come a Torre di Caserta che, senza badare a spese, per scegliere un servo, lo fanno venire da Atripalda, oppure, come i Giaquinto, dediti solo all’allevamento di annicchi, cavalli, giumente e vacche. Ad Aiello in prevalenza le famiglie posseggono un somaro e poche terre, a Tavernola si contano anche maccaronari e lavoranti di panni.5
Sol i magnifici vivono del proprio, e non ve ne sono. A parte il massaro Domenico Tomaso che vive bene, solo i forestieri atripaldesi si danno del Don e perfino del Signor, mandando a scuola i piccoli scolari e facendo frequentare maestri napoletani di elevata cultura gli studenti più grandi. In altre parti del Regno c’è addirittura chi, come i Del Balzo e i Cipullo, si fregia del titolo di patrizio capuano.6 C’è però da dire che chi viene definito senza mestiere potrebbe essere assessore comunale, cioè eletto, o anche solo consigliere, ed avere quindi la qualifica di Deputato all’Unità come accaduto per Santa Maria.7 In quella cittadella, per lettere e imbasciate, non ci si reca di persona dal destinatario, ma si utilizza uno dei due corrieri, sebbene siano una quindicina i signorotti che si servono di cocchieri e galessieri per spostarsi, e non solo per lavoro, col calesse scoperto oppure coperto se d’inverno. Il calesso viene utilizzato anche per lunghi viaggi, fino a Palermo, avendo l’accortenza di attaccare al calesso una pariglia di cavalli domati, altrimenti, dopo poche leghe diventano irrequieti e ingovernabili e finiscono per rotolare nella polvere trascinandosi dietro passeggeri e bauli col rischio non remoto di essere strangolati dai finimenti. A quel punto non resta che andare alla ricerca della stazione di posta più vicina per la riparazione. Ma basta che la pioggia infanghi la strada per bloccare la corsa dei cavalli, nonostante le frustate, come quelle che presero le povere bestie che trasportavano il marsala siciliano per l’ammiraglio Nelson alla guida di un calessiere troppo furbo.8
C’è pure qualche aiellese che non dichiara mestiere, come nel caso di Tavernola, dove però si nota qua e là una diversificazione di mestieri come il copellaro svolto da Ciriaco e Marco Piamonte, il tessitore de’ panni Giuseppe Spinelli, 9
Ma mentre ad Avellino o a Santa Maria sono davvero tanti i servitori salariati di cui potersi fidare, ad Aiello i pochi nobili sono senza servitù e, a Tavernola, in ogni caso, non ve ne sono.10
Preoccupante è il fenomeno dell’abbandono delle famiglie. Del resto si avvicina il tempo dei malandrini e bisogna guardarsi da tutti, specie dagli alguzzini;11 ognuno insomma si arrangia come può,12 fra gli impossibilitati a muoversi definiti inabili (lontano dall’essere ricco o povero come nelle città),13 mendicati e senza lavoro. Inesistente la schiera dei cortigiani delle Terre Règie non più dipendenti da Corti baronali.

2. Emerge il copellaro fra mestieri inusuali e nomi comuni
La lettura del Catasto Onciario di Tavernola segue l’elencazione dei fuochi in ordine alfabetico per nome del capofamiglia, con relativo cognome, età di ogni componente della famiglia e mestiere per chi supera i 16 anni. Contrariamente che altrove la scrittura dei compilatori del Catasto di Tavernola e Aiello non è molto chiara in tutte le pagine, almeno sull’originale dell’Archivio di Napoli. Come nei volumi precedenti, il lettore troverà, per ogni famiglia, una sintesi fedele di ogni singolo nucleo e, laddove è stato possibile, la trascrizione dei beni di maggiore entità e dell’effettiva tassa da pagare calcolata in once. Il numero che precede casali e nuclei abitativi è solo indicativo per meglio individuare nella ricerca i capifamiglia che qui si riportano elencati in ordine alfabetico di cognome e non di nome, per una più facile consultazione. Il lettore attento non avrà notato il copellaro fra i nuovi mestieri rispetto a quelli descritti in altri volumi e circoscritti al distretto, o ristretto, di Caserta, Avellino o Capua, dove abbondano un po’ ovunque i braccianti chiamati bracciali in tutte le terre del Regno, anche quelle Regie. All’uopo si noti come ogni volta che viene trascritto il nome del re si aggiunga sempre l’esclamazione Dio g., cioè che Dio guardi! Il Catasto di Aiello tende alla chiarezza e non è difficile, sebbene sia complesso, leggerlo in ogni sua parte, perfino nelle sottili sfumature che ci hanno portato toponimi ormai in disuso e ad interpretare tutti quelli punteggiati com l’Att.° per attuario. Talvolta ciò è accaduto anche per i nomi propri, come nel caso di Agnese, Caterina, Salvatore, Giuseppe, Giovanni, Giovannibattista, Biagio e Tommaso, lasciati nella versione di Agnesa, Catarina, Salvadore, Gioseppe, Gio:, Gio.batta, Tomase e Biase. Non per questo si sono evitati sempre errori, sebbene con nomi unisex del tipo Mattia, in alcuni casi, è stato davvero difficile capire se si trattasse di un maschio o di una femmina. Oppure di Catarina così trascritta. La stessa cosa è accaduta per qualche cognome che, nel confronto con lo stato civile del Comune, sono risultati leggermente mutati. Alla D. è stato quasi sempre eliminata la punteggiatura trascrivendo direttamente il Don o Donna onde evitare equivoci. Idem con la N.ro del Notaro, o nel caso dei Priv., ove si è sempre inteso privilegiati, come per il M.°, indicato per magnifico nel caso di un ricco, oppure per mastro se si è trattato di un artigiano e terminava in ro, cioè M.ro seguito dalla relativa specifica, così per Sac. oppure S. divenuto direttamente sacerdote. Più semplice è stato coi clerici per chierici, come pure casato, nel senso di accasato, di “figlio sposato”, mentre è stata limata l’espressione vive in casa per uso o quella di possiede somaro per uso (nel senso che viene usata, utililizzata, abitata, o di animale che viene utilizzato), con “per suo uso” o “uso proprio”. Per quanto riguarda gli animali sono stati lasciati pressochè invariati le giomente al posto di giumente, oppure la forma arcaica di bovi per i buoi, polledri per puledri, somarri per somari.

3. In sette note i dati catastali con le espressioni in forma dialettale
Non è escluso, anche in questa pubblicazione, che il lettore troverà riportati alcuni nomi o frasi in dialetto dovute all’uso errato della lingua italiana che non è mai riuscita a sostituirsi al napoletano. Ecco perchè si ritrovano toponimi come masto o mastro anzichè maestro, bracciale, come detto, al posto di bracciante. Altri sono stati spesso lasciati nella loro forma originale, al contrario di vidua con vedova, quasi sempre italianizzato per evitare di incorrere in gravi errori numerici in quanto possono rappresentare intere famiglie e non la singola persona. Fratello, suocera e sorella vengono invece semplicemente indicati come f.llo, socera e s.lla, come la nonna e il nonno con ava e avo, i due braccianti non sposati chiamati ziti, da ‘zitelle’ al maschile. Le bizzoche, cioè le monache o suore che dir si voglia, o solo novizie anche pronte a spogliarsi, sono state lasciate così come rinvenute, idem per le vergini in capillis, definite anche solo vergini o solo in capillis dalla mano del compilatore.
Nella nota I. che seguono il lettore troverà in ordine alfabetico, per nome di capofamiglia (compresi i pochi toponimi che inizialmente si presentavano illeggibili), i fuochi con l’età di ogni singolo componente. Questo sistema permetterà, a chi volesse approfondire le notizie relative alla propria casata, di individuare nell’immediato tutti coloro che portano il proprio cognome (senza trascurare di visionare la lettera “d” per gli apostrofati avulsi) e di risalire subito alla data di nascita di ogni abitante.
Alla nota II., invece, si propone, sempre per nome, l’elenco dei capifamiglia assenti, mentre alla nota III. quello dei sacerdoti e, alla nota IV., compaiono i forastieri bonatenenti e, alla V., i possedimenti di luoghi pii forastieri.
Infine, il lettore, troverà alla nota VI. l’elenco esemplificato dei residenti con relative once dichiarate e, alla nota VII. la sommatoria delle dichiarazioni divise fra cittadini residenti, vedove e vergini, cittadini assenti residenti, ecclesiastici residenti, forestieri assenti e forestieri abitanti, chiese forestiere e loro beni in loco.
Ecco qualche nome stratto dal libro:
Rubrica dei Capifamiglia in ordine di nome]:
1. Il bracciale Aniello di Roggiero di 62 anni abita in casa propria di due membri per suo uso e possiede un basso più cantina e diversi territori a Carpino, Lo Prato, L’Orto e L’Ortale con un reddito di 112.26 once. Vive con il fratello Nicola bracciale di 56 anni [ac]casato con Teresa Preziuso di 55 anni dalla quale ha avuto: Carlo di 23 anni bracciale, Mattia di 21 anni lavorante maccaronaro, Agnese di 17 anni, Felice di 14 anni, Alesandra di 12 anni e Giuseppa di 10 anni.
2. Il [senza mestiere] Antonio di Ruggiero di 63 anni abita in casa di Felice delli Patti e dichiara beni per 12 once. Vive con la moglie Vittoria Preziuso di 60 anni, il figlio Giacomo di 28 anni, lavorante maccaronaro sposato con Teresa Tomasone di 35 anni, e il figlio sacerdote Don Felice di 32 anni.
3. Il bracciale Aniello Marra di 46 anni abita in casa di Angelo Russo di Avellino e viene tassato su 49.26 once dichiarate. Vive con la moglie Teresa Scangamarro di 43 anni e i figli: Felice di 18 anni, i gemelli Domenico e Bartolomeo di 16 anni, Alesandro che impara l’arte di maccaronaro di 14 anni, Vartomia di 10 anni e Gio. di 7 anni.
4. Il bracciale Antonio Tanaro di 50 anni abita in casa propria e possiede un basso per suo uso a Salvetella venendo tassato su 30 once dichiarate. Vive con la moglie Antonia Scangamarro di 47 anni, i figli bracciali Luca e Felice di 22 e 14 anni, e le figlie Carmenella di 24 anni, Caterina di 10 anni e Angela di 9 anni.
5. Il bracciale Benedetto di Ruggiero di 35 anni abita in casa propria e viene tassato su 33 once dichi.....