UN LIBRO ECCEZIONALE IN CUI IL LETTORE SEMBRA CHE SI RITROVI A CENA CON ORAZIO

E’ diventato slogan, spot pubblicitario, insegna di noti ristoranti il sapore dell’antico. Quasi una sorta di riflesso condizionato in un’epoca, la nostra, dove il legame con il passato è ormai quasi impercettibile, dove si discute di prodotti transgenici che impallidiscono al confronto con la supposta genuinità di quelli di una volta. E sulle nostre tavole ben fornite di ogni ben di Dio chi sa quali alimenti manipolati giungono e giungeranno.
Quando il passato diventa irraggiungibile, quando la distanza tra noi e quelli che furono diventa incolmabile, ecco che questo, il passato, si colora di nostalgie, di ricordi e di miti.
Questa sera siamo ospiti in casa di Quinto Orazio Flacco. Ci accontentiamo di tutto quello che il padrone di casa mette sulla tavola. Siamo nella casa di campagna perché il nostro ospite non fa mistero della sua predilezione:
Rure ego viventem, tu dicis in urbe beatum;
cui placet alterius, sua nimirum est odio sors,
stultus uterque locum inmeritum causatur inique;
in culpa est animus, qui se non effugit umquam.
Tu mediastinus tacita prece rura petebas,
nunc urbem et ludos et balnea vilicus optas;
me constare mihi scis et discedere tristem,
quandocumque trahunt invisa negotia Romam.
Non eadem miramur; eo disconvenit inter
meque et te; nam quae deserta et inhospita tesqua
credis, amoena vocat mecum qui sentit, et odit
quae te pulchra putas.
Epistole, 1,14 vv. 10-20
«Io dico beato chi vive in campagna, tu invece chi vive in città; a chi piace la sorte dell’altro, senza dubbio avrà in odio la sua. Stolti entrambi tiriamo in ballo ingiustamente il luogo che non ha colpa. La colpa è nel nostro animo, che giammai sfugge a se stesso. Tu, quando facevi il servitore aspiravi alla campagna pregando in cuor tuo, adesso che sei amministratore di poderi desideri la città e i giochi e i bagni; tu sai che io sono coerente con me e mi allontano triste quando gli affari odiosi mi fanno andare a Roma. Non apprezziamo le stesse cose, in questo c’è differenza tra me e te; quelle, infatti, che tu credi lande deserte e inospitali, ma chi la pensa come me le chiama amene e ha in odio quelle che tu ritieni belle».
Come mangiavano e cosa mangiavano i nostri antichi latini, sia nel passato troppo remoto sia in quello più vicino a noi? Tentiamo, senza l’ausilio delle risorse dell’informatica, di effettuare un viaggio a ritroso nel tempo cercando di ricostruire, con le testimonianze scritte e materiali che ci hanno lasciato, le mense dei nostri antenati, se non di famiglia almeno di luogo di nascita, a cominciare dall’età di Roma repubblicana.
Gli antichi abitatori delle regioni meridionali della nostra penisola, ormai romanizzati, avevano gusti culinari se non uguali certamente simili, con buona approssimazione, a quelli che il poeta Orazio descrive qua e là nelle sue opere. Il poeta, infatti, essendo nato a Venosa e a lungo vissuto nella Sabina, conosceva bene le abitudini alimentari delle popolazioni delle zone dell’Appennino.
La spesa per la cena l’ha fatta lui. E alla fine della giornata se ne è ritornato a casa. In mattinata il poeta aveva consumato il suo ientaculum, che era il primo cibo della mattina; aveva saltato il prandium; non conviene anticipare al mattino quello che si farà alla sera. E’ antica la questione se sia più opportuno consumare due o un solo pasto nella giornata. Nel pomeriggio c’è la merenda (gerundivo di merere vale a dire qualcosa che te la devi meritare, guadagnare), e lo dice la parola stessa; perché i lavoratori meritano di consumare qualche cibo in questa ora della giornata. Sul far della sera tutti a cena, a casa propria o presso amici. Bisogna avere a portata di mano il mantile (mantelenis, sostantivo composto da manus e tela), per asciugare le mani eventualmente sporche. Ma le mani vanno lavate prima di toccare cibo nel vaso detto gutturium, perché versa l’acqua lentamente, poco alla volta, goccia a goccia (e in futuro saranno vasi di ceramica che dal luogo originario di fabbricazione si chiameranno Maioriche o Maioliche, Faenze, Urbinate).
Il poeta ha provveduto in mattinata, al mercato, a comprare verdure e legumi.
Quacumque libido est,
incedo solus, percontor quanti holus ac far,
fallacem circum vespertinumque pererro
saepe forum, adsisto divinis, inde domum me
ad porri et ciceris refero laganique catinum;
cena ministratur pueris tribus et lapis albus
pocula cum cyatho duo sustinet, adstat echinus
vilis, cum patera guttus, Campana supellex.
deinde eo dormitum.
Satire I,6,vv.110-120
«Quale che sia il piacere, me ne vado da solo, chiedo il prezzo della verdura e del farro; mi aggiro tra gli inganni circensi e nel foro spesso fino a sera, mi fermo dagli indovini, e poi me ne ritorno a casa al piatto ti porri e di ceci e frittelle. La cena viene servita da tre ragazzi e la tavola bianca sorregge due coppe con un boccale, accanto c’è una saliera di poco valore, un’ampolla con il piatto, suppellettile Campana».
Cominciamo dalla tavola su cui veniva servito il pranzo. Quelli che se lo potevano permettere avevano tavolo di legno pregiato (di acero per esempio), tovaglia decente, tovaglioli nitidi, bicchieri di vetro e piatti tersi come specchi. Per la gente meno abbiente, tavola di pietra, ciotole, bicchieri di terracotta, rozza saliera, ampolla, piatto largo (per metterci un poco di tutto), stoviglie di produzione Campana, quelle a buon mercato.
Negli altri giorni dell’anno il pasto principale della giornata doveva essere alquanto più frugale. Non mancavano mai legumi e ortaggi: ceci, fave ben unti in grasso lardo, lapazio, porri, malva, cavoli conditi con olio e aceto. I cavoli migliori erano quelli coltivati nei campi “asciutti”, quelli coltivati negli orti irrigui erano insipidi.
Uova sode bislunghe, che erano più gustose di quelle rotonde, si accompagnavano alle olive nere: le olive migliori erano quelle di Venafro, ma anche la produzione di altre regioni meridionali non era malvagia.
Il primo piatto era costituito da zampetto di maiale affumicato, da salsicce, ma anche da vile trippa. Si potevano avere anche pollastri e capretti, lessati o arrostiti.
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