Description
IL MONTE DI PIETA’ E LE CONGREGAZIONI DI GESUALDO
E’ la seconda volta che ABE pubblica qualcosa su
Gesualdo, e lo fa allargando il contesto nella giusta
dimensione nazionale, quella a cui appartengono i
Gesualdo, i Ludovisi, i d’Este.
Le nostre collane viaggiano ormai in un discorso
oggettivo di storia nazionale e non più localistico, che si
apre con lo scorrere della penna di tanti autori, così come
ci appassiona Rossano Grappone, il quale, in questa sua
nuova pubblicazione, va oltre le mura del castello e le note
dei madrigali.
Il materiale che sta venendo alla luce è così accattivante,
e al tempo stesso di così grande importanza, che su
Gesualdo si potrebbe realizzare una docufiction, per
raccontare i luoghi, per farne vivere i sapori, i colori e gli
odori attraverso la creazione di una storia tratta da fatti
realmente accaduti.
E’ tutto un racconto, anche il nostro, cominciato qualche
anno fa, sulla vita di Carlo Gesualdo il Principe dei musici,
che si presta appieno a trasmettere suggestioni ed
emozioni dei luoghi: l’atmosfera giusta delle tradizioni che
si affacciano con dirompente bellezza sul presente. Ed
ecco che fil rouge della storia di vita del folle-genio Carlo
Gesualdo diventa, in maniera sempre più serrata, ricerca
dell’identità storica, quella che spazia nella memoria,
quella che va alla continua ricerca di documenti. Cosicché
Monte di Pietà e Congreghe diventano il luogo dei ricordi,
8
ROSSANO GRAPPONE
ma anche una miniera di spunti per il recupero
dell’identità agricola e imprenditoriale, antica e postglobale.
Il messaggio di Grappone valorizza il territorio e
diventa universale: la memoria come identità per la
costruzione di un futuro, che è globale ma locale, in una
sorta di collage di immagini, informazioni, suoni ed input
di varia natura provenienti dalle strade, dalle contrade e
dalla realtà dei confratelli, dei ricchi come dei poveri.
E’ la storia del paese dei Gesualdo che si stacca dai
Gesualdo per diventare universale, verso volti di nobili
sconosciuti ai più, ma famosi alla corte dei D’Este, come
quello dei Ludovisi, nobili signori di Piombino, legatissimi
al Regno di Napoli.
Eppure siamo sempre a Gesualdo: 27 kmq, qualche
migliaio di abitanti fra le valli dei fiumi Fredane e Ufita,
lontano 40 km da Avellino, città che spesso non conosce il
suo belvedere, il castello e l’aria pulita, il leone di pietra,
un paese adorno di marmi lavorati dagli scalpellini e ricco
di manifestazioni: il carnevale gesualdino, i tornei, il volo
dell’angelo, i falò, il presepe vivente.
* * *
Pare di vederli quei confratelli tenere viva la memoria
storia. Ed ecco riaffiorare le chiese, a cominciare dal
Convento dei Cappuccini e l’annessa chiesa di S.Maria delle
Grazie del 1500 con il celebre dipinto intitolato il perdono
di Carlo Gesualdo del pittore fiorentino Giovanni Balducci
in cui la tradizione riconosce il celebre personaggio
nell’atto di chiedere la grazia dopo l’uxoricidio
accompagnato dallo zio Cardinale Carlo Borromeo che lo
abbraccia e lo indica ad un Gesù benedicente mentre di
fronte prega la moglie Eleonora d’Este e al centro si
riconoscerebbe, nel bimbo con le ali, Alfonsino Gesualdo
morto a tre anni elevato dalle anime purganti.
La Chiesa Madre di San Nicola del 1700 è invece quella
col portale scolpito da Giuseppe Landi di Calvanico e la
Chiesa del Sacramento detta Il Cappellone è quella con la
facciata esterna in pietra lavorata costruita da Domenico
Ludovisi nel 1736.
La Chiesa di S.Maria della Pietà del 1600 si riconosce
da fonte battesimale, coro e quattro quadri del 1500; la
Chiesa del SS.Rosario col monastero dei Domenicani del
1600 è invece quella con l’altare e la statua di San Vincenzo
Ferreri decorata d’argenti.
Ma più di tutto è bella la fontana dei putti fatta realizzare
dal Principe Carlo Gesualdo nel 1605 per donare l’acqua
privata del Castello al Borgo, seguita dalla fontana di Piazza
Umberto I realizzata nel 1608.
Da qualche anno, a queste meraviglie che si susseguono
sullo sfondo dell’agile vulume, si è aggiunto il Castello che
si fa risalire al Gesualdo discendente del Duca beneventano
Romualdo da cui nacquero i nobilissimi sepolti a Conza e
a Venosa, quando il grande patrimonio longobardo della
Casata si frantumò in decine di castelletti ricadenti fra
l’attuale Alta Irpinia, la Lucania e la Daunia, finché non
nacque un feudo ch’ebbe ad intitolarsi proprio Gesualdo
per donazione del Duca Ruggiero, titolare del grande
Ducato di Puglia, di cui si cominceranno ad avere notizie
più dettagliate sotto Federico II di Svevia, che fece di
Lucera la sua base, contro cui si scagliò la potente famiglia
di Elia Gesualdo, rincorrendolo fino a Palermo.
C’è tutto questo dietro le confraternite, i confratelli e
quanto altro ancora ci fornisce Grappone, in questo paese
rinato dopo l’assedio del feudo da parte del Re Ferdinando
d’Aragona, il terremoto e la peste del 1656 che ridussero
il comune di Gesualdo in ginocchio, sopravvivendo appena
300 abitanti. Fu questa l’eredità dell’ultimo feudatario di
Casa Gesualdo che il paese ricordi, il Principe Gesualdo da
Venosa, passato alla Storia il 27 ottobre 1590 quando, colti
in flagrante adulterio la moglie Maria d’Avalos e l’amante
Fabrizio Carafa, li uccise e permise lo scempio del
cadavere della consorte. A Gesualdo da Venosa, che si dice
raffigurato nel quadro della Chiesa del paese in atto di
chiedere clemenza divina, sono state dedicate decine e
decine di opere musicali e letterarie che ne ricordano la
figura di grande musicista, autore dei madrigali, e la sua
storia, così tragica, passionale e tremendamente
romanzesca.
* * *
Questo ed altro ancora mi sovviene alla mente
sfogliando il testo. Ma lasciamo le vicende feudali, per
tornare al moltiplicarsi dei Re e dei Papi che governarono
contemporaneamente alla fine del Trecento, chi seduto a
Napoli e chi a Taranto, chi a Roma e chi a Ravenna, finchè
Re Ladislao Durazzo, ungherese ma Angioino di stirpe,
prese possesso dell’antica Partenope grazie anche ad uno
dei suoi condottieri più valorosi, Gesualdo di Gesualdo, che
ne divenne l’amico fidato dei giochi di guerra.
E’ una pagina di storia inedita quella che parla di un
Antonello di Gesualdo capitano di Re Ladislao, e di quando,
da giovane, gareggiava con un altro ragazzo, Gesualdo di
Gesualdo che a 22 anni tirò fuori una forza mostruosa e
gran destrezza in ogni impresa.
Le cronache del tempo ricordano che, quando usciva a
scaramucciare con una lancia di gran grossezza, cavava di
sella il nemico che restava sbalordito per la botta di testa.
Altre volte, voltando subito il cavallo, impugnando lo stocco,
si avvicinava così tanto al nemico che, afferratolo con la
forza per il braccio, lo scaraventava a terra. Fatti che
rendevano gran piacere al Re Ladislao, il quale, invidioso
del cavaliere, appena aveva modo di tornare a Napoli,
istigava soldati e valorosi a combatterlo, i quali, però,
cadevano sotto le braccia del Gesualdo. Ladislao non
riusciva a farsene una ragione. Al chè il Re volle scoprire
se Gesualdo vincesse per forza o per destrezza, essendo egli
di gran forza e di non poca destrezza. Fu così che un giorno,
nel parco, in presenza di pochi intimi, fece armare
Gesualdo e, insieme a lui, saliti a cavallo, incontrandosi,
ruppero agevolmente le lance. Quando Ladislao, gettato lo
stocco, vide che il prode gli andava incontro per afferrarlo,
gettò anch’egli lo stocco e si strinse a Gesualdo con
grandissima forza cercando di buttarlo giù da cavallo.
Disse Gesualdo al Re: – Non più Signore, che la Maestà
Vostra va in terra!
Adirato, Ladislao, gli ribattè che attendesse, cioè
guardasse ai fatti suoi. Ma nel fare l’ultimo sforzo, il
sovrano, non maldestramente, fu scaraventato a terra.
Trascinato dal Re, che sciocco non era, cadde però anche
Gesualdo. Il suo corpo finì proprio sopra quello di Ladislao,
il quale, poi, confesserà che la natura non avrebbe potuto
fare più valoroso giovane di lui e gli donò il primo luogo
(l’incarico di Luogotenente), cioè il primo posto fra i
Camerieri (camerari). Gesualdo di Gesualdo morì sei mesi
dopo, con sommo dispiacere del Re e di tutta la Corte.
Arturo Bascetta
ABE
Arturo Bascetta –
I MONTI DI PIETÀ
Il termine “Monte” stava ad indicare “accumulo”,
“massa di prodotti”, in pratica l’equivalente dell’odierno
“monte premi”. Tra i vari tipi di “Monti”(frumentari,
comuni, maritaggi…), si affermarono e si differenziarono
quelli di “Pietà”, costruiti su base solidaristica e di mutua
assistenza, in parte gratuita, in parte onerosa.
Nell’Italia Meridionale l’origine di questi Monti è
sostanzialmente legata alle norme del governo spagnolo
che fin dai primi decenni del XVI secolo cominciarono a
pianificare l‘espulsione degli ebrei. Questo lavoro si
inserisce un un quadro piuttosto lacunoso, come afferma
la Sinisi, rispetto agli studi condotti sui Monti rurali
dell’entroterra campano, a beneficio di quello centrale e
ben più importante del Monte di Pietà di Napoli.
Il Beato Giovanni Marinoni (1490/1562) nel 1539,
sollecitando i nobili del luogo, diede impulso alla nascita
del Monte di Pietà di Napoli, da cui prese corpo il Banco
di Napoli. “Non vi è opera, che in utile maggiore, sì del
pubblico che del privato, ridondi nella città, quanto il
rifugio dell’inopia [povertà], detto Monte della Pietà”, cosi
scriveva nel 1763 Padre Ignazio Lodovico Bianchi nel
“Ragguaglio della vita del Beato Marinoni”1.
Tra il XV e il XVIII secolo i Monti di Pietà nel Regno di
Napoli arrivarono a contare ben 157 istituzioni2.
Tra questi, quello di Gesualdo (Av) del 1634. Appare
immediatamente percepibile, almeno in origine, il forte
senso caritatevole e mutualistico che ispirava questi
istituti. A metà strada tra elemosine ed assistenza, di
ispirazione religiosa/pauperistica degli Ordini
mendicanti e predicatori del tardo Medioevo, i Monti di
Pietà sopperivano ad esigenze di sostentamento delle
classi più povere della società del tempo. L’intento era
quello di sottrarre i cittadini dalla stretta del credito ad
usura, ampiamente diffuso ed abilmente praticato dalle
classi ebraiche, “insaziabile voragine di usura che divora
e consuma i beni temporali degli uomini e le persone”3.
Abili commercianti e scaltri finanziatori, ben presto gli
ebrei arrivavano ad ipotecare intere proprietà, ed il
destino, dei creditori. Le forme di credito travalicavano il
semplice prestito in danaro. Spesso venivano concessi ad
impronta (in prestito) ai poveri, adeguati quantitativi di
frumento e cereali che consentissero la semina, quindi la
raccolta, ed infine un conseguente reddito di
sopravvivenza. Al pari di questi, v’era una forma di mutua
assistenza sanitaria, che tramite Monti ed Hospitali,
assicuravano un minimo di cure ai peregrini ed indigenti.
Qual più nobile sentimento poteva animare i promotori e
fondatori dei Monti di Pietà? Il prestito di danaro o grano,
veniva erogato dietro pegno su qualche piccolo bene di
proprietà. Tramite i Monti di Pietà si manifestava quel
senso solidaristico tra le diverse classi sociali del luogo
dove esse sorgevano. Ovviamente era imprescindibile il
concorso di nobili e possidenti del posto, unitamente a
semplici cittadini delle Università. L’iniziale ispirazione
spirituale/religiosa dei Monti rimase tale.
Anzi, si perse col tempo. Nonostante le prescrizioni
post Tridentine, gli statuti cominciarono a prevedere una
gestione laicale in modo da sottrarre i Monti dalle
intromissioni ecclesiastiche, diversificandoli dalle semplici
opere pie o confraternite. Questo elemento aprì la strada
alla evoluzione verso il credito finanziario ad interesse.
Sulla scia dei Monti di Pietà sorsero poi altri Monti a
carattere privatistico e familiare, con il principale scopo
di assicurare rendite e profitti alle famiglie possidenti e
benestanti. L’elemento mutualistico, che comunque
compariva anche in questi Istituti, aveva l’intento di
nobilitarne la funzione, che restava sostanzialmente di
carattere familistico.