La Classe del clero privilegiato
Durante il Viceregno austriaco Napoli divenne alcova di nobili inviperiti e sospettosi. Bisognava stare attenti alle arti maligne, specie quelle che potevano adoperarsi dal Conte di Santo Stefano, pronto a ritornare al posto di comando per vietare l’ingresso agli esiliati. Tutto sembrava essersi fermato, a parte l’Università perché il taccagno Viceré Conte di Harrach, ebbe la fortuna di riporre fiducia le mani del Cappellano Maggiore Celestino Nicola Simone Agostino Galiani (1681-1733). Monsignor Celestino Galiani era nato il 27 ottobre 1681 a San Giovanni Rotondo (paese natale della madre), crebbe in una famiglia distinta per l’agiatezza del padre, Domenico, discendente da una famiglia originaria di Montoro trasferitasi a Foggia poco prima del 1600 che commerciava pelli di Solofra e lane. Nicola Galiani ricevette a Foggia i primi insegnamenti di latino e di italiano da alcuni monaci Celestini della Chiesa di S.Caterina di Alessandria, poi dedicata a San Giovanni di Dio, a 16 anni aveva indossato il saio cambiando il nome di Nicola con Celestino nel Convento della Trinità di San Severo, stabilendosi poi presso il Monastero di Santa Croce di Lecce, dove, nel 1698, era stato ordinato sacerdote.
Quando a Napoli erano giunti gli Austriaci aveva appena compiuto i vent’anni ottenendo, per le straordinarie capacità, la nomina triennale per lo studentato nel Monastero romano dei Celestini di S.Eusebio, seguito dal triennio di Teologia morale acquisendo versatilità sui libri di Euclide, Cartesio, Barrow e Lamy, compresa l’algebra col calcolo differenziale ed integrale, divenendo un rappresentante significativo fra i cattolici illuminati di Roma e Napoli, per la creazione di cenacoli e accademia aprendo alla scienza moderna senza riserve. Da arcivescovo di Taranto, già noto in Europa, fu chiamato anche a Vienna per incarichi di prestigio.
“Celestino Galiani abolì molte cattedre inutili, ne istituì di nuove, strappò all’avaro dominatore un cospicuo aumento delle dotazioni annue, ottenne che fosse esclusivamente l’Università a conferire le lauree, togliendo tale privilegio al Collegio dei Dottori. Avrebbe fatto di più se Vienna non si fosse preoccupata che l’Università di Napoli divenisse troppo importante per una città sede di un Viceré”.28
Il Cappellano maggiore Celestino Galiani, Zio dell’abate Ferdinando Galiani (1728-1787), nella qualità di Prefetto dei Regi Studi attuò una riforma dell’istruzione universitaria a Napoli che però “serbò su per giù la sostanza di prima” e l’insegnamento “continuò a preparare come prima candidati alla professione di teologo, leggista, medico; rimase beneficio di date categorie sociali e vergognosa miseria di chi lo impartiva”.29
I plebei, il popolo, non era considerato neppure un classe. Nè dagli Austriaci, ne’ dai ricchi Napoletani.
Gli ecclesiastici pensavano solo ad arricchirsi.
“I pontefici, nel lungo corso del viceregno, concitavano a discordia ora i reggitori ora i soggetti”, come meglio giovasse alle pretese sterminate della Chiesa.
Fu essa a portare le “rivoluzioni di Napoli per la inquisizione, il discacciamento de’ nunzi, l’abolizione della nunziaturà: ed in breve la scoperta ribellione delle podestà civili e delle opinioni all’imperio della Chiesa. E più scendeva la pontificale alterigia se nuovi frati e smisurate ricchezze non si facevano sostegni al declinare. Mancando di que’ tempi perfino il catasto, rimangono ignote molte notizie importanti all’istoria: gioverebbe conoscere il numero degli ecclesiastici e la quantità de’ loro possessi, per misurare quanto il sacerdozio potesse in quel popolo; ma le praticate ricerche ed il lungo studio non sono bastate al bisogno, perciocché gli scrittori del tempo, se divoti alla Chiesa, mentivano, per vergogna, le mal tolte ricchezze; o, se contrari, per accrescere lo scandalo, le accrescevano”.30
§ — Classe mancata: Dottori, erari, tavolieri e vescovi
Avellino non era una città ricca ma, come dimostrano le controversie ereditare registrate dai notai nel 1726, i benestanti non mancavano. Nell’Inventario dell’oro, che si contendono gli eredi di Biagio Salzano e il Magnifico Nicola Caso, compaiono una crocettina, anelli, diamantini, cannacchino con diecisette smirati e dieciotto diamanti, canacca di granate grosse vestita con pagliette d’oro, ed una smeraglia piccola d’oro. Nell’inventario dei vestiti da donna vi sono principalmente il vestito di damasco consistente in sottanello e manto e vestito di sponzalizio.
L’eredità del dottore Don Francesco Moscati fu specialmente d’argento: una sotto coppa grande coll’impressa Muscati, e corona; una fruttiera di mediocre rotondità senza impressa; due candelieri piani senza impressa, ed una smiccia candela; nove cocchiari e dieci brocche, seu forcine con cinque maniche di cortello con lame per uso di tavola, una tamora ad uso d’acqua con veste di Zacrino.31
Erario, et agente dell’infrascritta Città d’Avellino era Don Domenico Sandulli, il quale, con particolare biglietto di Sua Eccellezza la Signora Principessa d’Avellino, moglie del Principe Caracciolo, viene chiamato anche nella causa dell’esecuzione del laudo[emio] promolgato à 30 ottobre dell’anno 1726 che à me infrascritto. 32
Sono anni in cui, senza la presenza del signore, si rafforzano figure minori, necessarie alla Corte baronale, Principal, cioè principesca nel caso di Avellino, per la gestione del feudo. Non era più il padrone del feudo a servirsi del singolo, ma la struttura che era stata creata.
Per chiarire le controversie, per esempio, l’erario Sandulli, a sua volta, aveva facoltà di nominare un suo uomo fidato come tavoliere, ovvero un pubblico tabulario e regio agrimensore. Fu chiamato per stimare et apprezzare, tre unite porzioni di casa site e poste nella pertinenza della suddetta Città detto alla Strada di S.Antuoni. Il tavoliere venne interpellato più volte dai Sandulli, divenendo un riferimento professionale, al punto da definirsi egli stesso Regio agrimensore.33
Nel caso di Del Gaudio siamo in presenza di una doppia figura perchè si tratta di un ufficiale feudale, ma è evidente che ognuno possa chiamare il tavoliere che più gli aggrada, purchè di comune accordo fra le parti, perciò chiamato ‘pubblico’: Domenico Cesis fa fede che è Publico Tabolario come essendo stato eletto dall’una e dall’altra parte.34
Resta il fatto che sono i feudatari a reggere ancora le fila. L’agente generale, il tavoliere, il morto: tutti dipendono sempre e solo dal Signore. Anche i rapporti con i religiosi furono strozzati dal potere della classe dominante. Il risultato fu una guerriglia fra poveri, vescovi e sindaci compresi. La corsa al Tribunale divenne un altro metodo di giustizia sommaria. Spesso tutto si risolveva con l’ultima parola spettante al Vicerè: “non essendo ben definito il potere de’ magistrati, la dubbietà delle competenze si risolveva dal comando regio: e le materie giudiziarie avviluppandosi alle amministrative, il diritto e ‘l potere, il magistrato e ‘l governo soventi volte si confondevano. Finalmente, per la ignoranza di quella età, i soggetti credendosi legittimi servi, e i reggitori stimandosi non ingiusti a soperchiare, ne derivava doppio eccesso di servitù e d’impero: con deformità più manifesta né processi e né giudizi. Crearono gli enunciati disordini curia disordinata e malvagia. Qualunque della plebe con toga in dosso dicevasi avvocato ed era ammesso a difendere i diritti e le persone de’ cittadini: e però che all’esercizio di quel mestiere pieno di guadagni non si richiedevano studii, esami, pratiche, lauree moltiplicava tuttodì la infesta gente de’ curiali.35
Il vescovo nuscano monsignor Tupputi, ricorda il Napolillo, entrò in conflittualità con il Sindaco di Nusco, Arcadio Bicchetti, che era collaboratore e consigliere del feudatario Giulio Imperiale. Il 20 marzo 1729 il vescovo Tupputi schiaffeggiò, in Chiesa, il Sindaco. Questi reagì facendo rogare, per la piega assunta dai fatti, un atto pubblico di condanna! Il vescovo Tupputi interdisse le chiese di Nusco e scomunicò la popolazione che aveva partecipato alla lite contro di lui. Il canonico Nicolò De Mita, con le altre personalità nuscane, si trovarono d’ accordo nel testimoniare che il Vescovo era un uomo “di scarso sentimento morale, simoniastico, malversatore dei beni della chiesa, avido di denaro”.36
“Stringerò in poche sentenze le materie discorse in questo capo. Era la Chiesa tuttavia potente di forze temporali; le credenze de’ popoli alla religione, ferme o accresciute; a’ ministri di lei ed al pontefice, addebolite. La feudalità intera, i feudatari spregevoli, la milizia nulla, l’amministrazione insidiosa ed erronea. La finanza spacciata, povera nel presente, peggio per l’avvenire; i codici confusi, la curia vasta, intrigante, corrotta; il popolo schiavo di molti errori, avverso al caduto governo, bramoso di meglio. Perciò, bisogni, opinioni, speranze, novità d’impero, interesse di nuovo re, genio di secolo, tutto invitava alle riforme”…..
Recensioni
Non ci sono ancora recensioni.
Only logged in customers who have purchased this product may leave a review.