Description
Nobili e braccianti in Terra di Monte Forte
Il Catasto onciario di Monteforte è costituito da un volume di 501 pagine i cui fogli sono stati fotografati e riprodotti su pellicola. Si tratta di una bobina conservata all’Archivio di Stato di Napoli (ASNA), da cui il gruppo di studio ha tratto le schede su cui si basa questo lavoro, confrontandole con il testo originale (ivi) per ridurre al minimo ogni errore di interpretazione di una scrittura leggibile, ma pomposa ed eccessivamente abbreviata come in uso all’epoca.
In ogni scheda sono stati riportati i dati trascritti nell’appendice che segue. Mentre Avellino e Salerno appare un po’ come i quartieri di Caserta, fatta esclusione di Torre, dove vivono comodamente quelli che possiedono un vero palazzo e quelli che si trovano citati nelle varianti del Catasto capuano col titolo di nobili viventi che vivono di entrate o annue entrate, Monteforte si distingue per i grandi nuclei familiari e per la presenza di molti lavoratori non solo della terra, oltre che di non poche case palazziate. I cittadini, infatti, non sono affatto soltanto braccianti, contrariamente ad altri paesi, dove i contadini sono ancora comprati e venduti con i territori a censo perpetuo.1 In molti, del resto, rappresentano la figura agiata di chi vive nobilmente, altrimenti detto nobile cittadino o nobile uomo, distinguibile dalla massa perchè vive del suo. Uomini nobili che diventano magnifici anche senza entrare nell’amministrazione della Cosa pubblica dell’Università comunale, la Comune, per vivere civilmente, cioè di rendita.2
In altri luoghi del Regno, specialmente in Terra di Lavoro, sono decine.3 La gran parte di essi, ha anche un negozio,4 proprio come a Salerno e Caserta dove, senza badare a spese, per scegliere un servo, lo fanno venire da Atripalda, oppure, come i Giaquinto, dediti solo all’allevamento di annicchi, cavalli, giumente e vacche.
A Monteforte in prevalenza le famiglie posseggono non solo una terra, ma anche una casa propria, e non il primordiale casalino solitamente concesso in origine, specie dalla Chiesa Sofiana di Benevento o Verginiana di Mercogliano, ai servi della terra.5
I piccoli possessori locali, sebbene pochi, ricordano un po’ gli ozi di Capua antica: sembrano ancora più stanchi dei patrizi. Sono magnifici, vivono del proprio, si danno del Don e perfino del Signor, mandando a scuola i piccoli scolari e facendo frequentare i maestri agli studenti più grandi, forse al seguito dei tanti parenti momentaneamente, o definitivamente, residenti a Napoli. In altre parti del Regno c’è addirittura chi si fregia del titolo di patrizio beneventano, napoletano, salernitano o capuano.6
C’è però da dire che i sospetti non mancano mai. Chi viene definito senza mestiere potrebbe anche essere un assessore comunale, cioè eletto, ed avere quindi la qualifica di Deputato all’Unità come accaduto per Santa Maria senza pagare tassa.7 In quella cittadella, per lettere e imbasciate, non ci si reca di persona dal destinatario, ma si utilizza uno dei due corrieri, sebbene siano una quindicina i signorotti che si servono di cocchieri e galessieri per spostarsi, e non solo per lavoro, col calesse scoperto oppure coperto se d’inverno. Il calesso viene utilizzato anche per lunghi viaggi, fino a Palermo, avendo l’accortenza di attaccare al calesso una pariglia di cavalli domati, altrimenti, dopo poche leghe diventano irrequieti e ingovernabili e finiscono per rotolare nella polvere trascinandosi dietro passeggeri e bauli col rischio non remoto di essere strangolati dai finimenti. A quel punto non resta che andare alla ricerca della stazione di posta più vicina per la riparazione. Ma basta che la pioggia infanghi la strada per bloccare la corsa dei cavalli, nonostante le frustate, come quelle che presero le povere bestie che trasportavano il marsala siciliano per l’ammiraglio Nelson alla guida di un calessiere troppo furbo.8
C’è pure qualcuno di Monteforte, come del resto di Apice o San Giorgio, che non dichiara mestiere, per una svista del trascrittore, per un errore voluto dal redattore o involontario del trascrittore.9
Ma mentre nelle città sono davvero tanti i servitori salariati di cui potersi fidare, a Monteforte i ricchi sono senza vera servitù nobiliare, a parte la manciata di servi utilizzati come manovalanza, cioè garzoni, che sembrano provenire tutti da Forino in quanto, non avendo forse a disposizione un cognone, è il trascrittore che li riporta con quel nomignolo, come accade ad Eboli.10
Del resto si avvicina il tempo dei malandrini e bisogna guardarsi da tutti, specie dagli alguzzini;11 ognuno insomma si arrangia come può, fin da piccolo.12 Alla figura del benestante, che tutto può, si contrappone quella dell’impossibilitato a muoversi definito inabile o impotente, economicamente parlando, che si differenziano da chi è scemo o pazzo. Ma anche l’inabile può essere ricco o povero.13
2. Nomi propri e toponimi punteggiati tradotti per facilitare la lettura
Nelle note che seguono diamo inizio la lettura dei toponimi rinvenuti nel Catasto Onciario, con le dichiarazioni dei singoli capifamiglia. Segue l’elencazione dei fuochi in ordine alfabetico per nome del capofamiglia, con relativo cognome, età di ogni componente della famiglia e mestiere per chi supera i 16 anni. Contrariamente che altrove la scrittura dei compilatori del Catasto è chiara in quasi tutte le pagine, almeno sull’originale dell’Archivio di Napoli. Come nei volumi precedenti, il lettore troverà, per ogni famiglia, una sintesi fedele di ogni singolo nucleo e, laddove è stato possibile, la trascrizione dei beni di maggiore entità e dell’effettiva tassa da pagare calcolata in once. Il numero che precede casali e nuclei abitativi è solo indicativo per meglio individuare nella ricerca i capifamiglia che qui si riportano elencati in ordine alfabetico di cognome e non di nome, per una più facile consultazione. Il lettore attento non avrà notato nuovi mestieri rispetto a quelli descritti in altri volumi e circoscritti al distretto, o ristretto, di Salerno, Caserta, Avellino o Capua, dove abbondano un po’ ovunque i braccianti chiamati bracciali in tutte le terre del Regno, anche quelle Regie. All’uopo si noti come ogni qual volta viene trascritto il nome del re si aggiunga sempre l’esclamazione Dio g., cioè che Dio guardi!
Il Catasto di Monteforte, invece, tende alla chiarezza e non è difficile, sebbene sia complesso, leggerlo in ogni sua parte, perfino nelle sottili sfumature che ci hanno portato a decifrare toponimi ormai in disuso e ad interpretare tutti quelli punteggiati com l’Att.° per attuario, o Aud.a per Audienza (Regia Udienza). Talvolta ciò è accaduto anche per i nomi propri, come nel caso di Lucrezia, Teresa, Agnese, Caterina, Salvatore, Giuseppe, Giovanni, Giovan Battista, Biagio, Tommaso, Anna, Carmosina, Felicia, Carmina lasciati nella versione di Logrezia, Teresella, Agnesa, Catarina, Salvadore, Gioseppe, Gio:, Gio.Batta, Tomase, Biase e Biaggio, Annuccia, Carmosina, Felicella, Carmina. E’ singolare come la medesima mano del trascrittore di un catasto nel foglio prima trascrivesse di un Biase e, nel foglio successivo, di Biaggio. Non per questo si sono evitati sempre errori, sebbene con nomi del tipo Marzia che appare sempre una Mattia in versione al femminile come Andrea quasi sempre trasformato in Andreana. Purtroppo non è così per Felice al femminile, quasi mai trascritto come Felicella o Felicia, ma per fortuna questo non è il caso di Monteforte.
In alcuni casi, è davvero difficile capire se si tratti di un maschio o di una femmina per la sottile differenza fra r e t del compilatore, di una F o di una T nella forma originale. Oppure di Catarina così trascritta, come nel caso di Rosolena o di una incomprensibe Colajuta. Alla D. è stato quasi sempre eliminata la punteggiatura trascrivendo direttamente il Don o Donna onde evitare equivoci. Idem con la N.ro del Notaro, o nel caso dei Priv., ove si è sempre inteso privilegiati, come per il M.°, indicato per Magnifico nel caso di un ricco, oppure per mastro se si è trattato di un artigiano e terminava in ro, cioè M.ro seguito dalla relativa specifica, così per Sac. oppure S. divenuto direttamente sacerdote. Sottile, se c’è davvero, è la differenza fra il Lavorante (L.te) e il Lavoratore (L.re), quasi sempre padre e figlio, spesso anche detto dello stesso mestiere per evitare la ripetizione.
Più semplice è stato coi clerici per chierici, come pure casato, nel senso di “accasato”, “figlio sposato”, mentre è stata limata l’espressione vive in casa per uso o quella di possiede somaro per uso (nel senso che viene usata, utililizzata, abitata, o di animale che viene utilizzato), con “casa propria”. Per quanto riguarda gli animali sono stati lasciati pressochè invariati le giomente al posto di giumente, oppure la forma arcaica di bovi per i buoi, polledri per puledri, somarri per somari. In passato per i mestieri è piaciuto lasciare invariato l’artigiano che fà legname, cioè il falegname, come pure il miniscalco, cioè il maniscalco, che si affiancano agli ebolitani galessiere, prattico di medicina, cavallaro, fociliero, gualano, forgiatore, spedaliere, all’indecifrabile sarti.re [forse sartore= sarto!], carrese, e allo scardatore e cardatore di lana, tutto di Salerno Città, come il vetritaro o vitraro, tutto di Monteforte.
Trascrizioni dialettali italianizzate dalla mano del compilatore catastale, conoscitore di buon dialetto, ma sicuramente di un rozzo italiano.
3. Le espressioni dialettali lasciate nella forma originale nelle note
Non è escluso, però, anche in questa pubblicazione, che il lettore troverà riportati alcuni nomi o frasi in dialetto dovute non all’uso errato della lingua italiana, che non è mai riuscita a sostituirsi al napoletano, ma al vero e proprio all’utilizzo settecentesco che si fa di quel termine. Ecco perchè si ritrovano toponimi come masto o mastro anzichè maestro, bracciale, come detto, al posto di bracciante. Altri sono stati spesso lasciati nella loro forma originale, al contrario di vidua con vedova, quasi sempre italianizzato per evitare di incorrere in gravi errori numerici in quanto possono rappresentare intere famiglie e non la singola persona. Fratello, suocera e sorella vengono invece semplicemente indicati come f.llo, socera e s.lla, come la nonna e il nonno con ava e avo, i due braccianti non sposati chiamati ziti, da ‘zitelle’ al maschile. Le bizzoche, cioè le monache o suore che dir si voglia, o solo novizie anche pronte a spogliarsi, sono state lasciate così come rinvenute, idem per le vergini in capillis, definite solo vergini dalla mano del compilatore.
Alla nota I., come segue, il lettore troverà il frontespizio ufficiale.
Contrassegnati dalla nota II., in ordine alfabetico per nome di capofamiglia, sono stati elencati i fuochi, con l’età di ogni singolo componente, domicilio e beni, laddove è stato possibile riconoscerli, come nella versione originale del Catasto.
Si tratta di una semplificazione dei dati relativi alla situazione familiare e patrimoniale, unitamente ai luoghi di residenza e al reddito dichiarato (cifra espressa in once), fedeli al testo consultato, sebbene il compilatore abbia trascritto medesimi cognomi e toponimi non in maniera uniforme e manchi la sezione catastale denominata Collettiva o Unione d’once, l’elenco finale a cui si poteva fare riferimento per un riscontro diretto.
Nelle successive nota III. e nota IV., il lettore troverà rispettivamente la situazione patrimoniale di Vidue e Vergini in capillis cittadine e degli Ecclesiastici Secolari Cittadini.
Alla nota V., anzichè, come al solito famiglia del ricco feudatario, compaiono i nomi dei Forastieri abitanti in detta Terra, seguita dalla nota VI., della sezione sottintesa riguardante i restanti Forastieri [Abitanti Benitenenti Ecclesiastici Secolari di diversi paesi], e dalla nota VII. con gli altri assenti Forastieri [Bonatenenti non abitanti].
All’ultima nota X., per pura formalità, abbiamo indicato la Sezione relativa al riepilogo, in genere chiamata Collettiva Generale dell’Oncie.
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