39. BENEVENTO 1458-1498: Lo Stato del Papa fra Congiura e Riconquista. III Parte Aragonesi, Francesi, Veneziani

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Copertina posteriore

L’interregno ducale: Ariano e Apice provincia del papa, Montefusco del Regno

I parenti degli Sforza, nel passaggio col Papa, si ritrovarono così già insediati militarmente a contestabuli militari in Montefusco ed Ariano, capoluoghi delle rispettive baronie, lì dove pare preesistessero i due tribunali carcerari, vicarie provinciali della Regina, almeno così appare nel 1430, che, dal 1433, si ritrovarono a passare dal Regno al Ducato papalino quando Francesco fu fatto titolare della Marca di Fermo.
Avere due baronie significava possedere due distretti provinciali, già asserviti dall’apparato militare giudiziario, sebbene circoscritti alla Contestabulia di Montefusco, cioè della Montagna da Dentecane a San Giorgio, e alla Contestabulia di Ariano, di cui fece sicuramente parte il vasto territorio da Apice a San Sossio Baronia.
Ad Ariano comandava il vescovo. Angelo de Raimo, padre osb, cioè dell’Ordine di San Benedetto (28 luglio 1406 – 1432), fu titolare di quella cattedra fino alla morte, che lo colse nel 1432, quando gli successe Angelo Grassi per 17 anni, fino al 1449, quando venne nominato arcivescovo di Reggio Calabria.
Il vescovo Grassi assistette allo stanziamento in Ariano del Comitato militare posto in essere dal Conte Sforza in nome della Chiesa.
Le baronie sforzesche di Ariano e Montefusco appaiono già nate sotto Giovanna II perché dovevano essere le sedi giudiziarie delle due province di Principato Ultra e Citra Benevento e che divennero sedi militari durante l’interregno che stava per portare la guerra fra Angioini e Aragonesi.
Negli anni successivi, nel bailamme del passaggio dei baroni col partito aragonese, gli Sforza seguiranno sempre le indicazioni del Papa, anche quando, persa Montefusco, ritornata in Regno, solo Ariano restò papalina e divenne sede del Comitato militare di tutti i loro feudi, cioè Contestabulia militare per la ricostituzione del Ducato di Benevento della Chiesa con la sua provincia, di cui fece sicuramente parte Apice.
Il Comitato dei baroni guidati da Sforza resse quindi Ariano e la sua provincia baronale in nome del Papa per diversi anni, ma presto si sarebbe scesi a patti col Re. Anche Ariano e Benevento, infatti, sarebbero andati agli Aragonesi e a danno di Re Renato d’Angiò, sebbene questi fu lasciato passare durante la fuga da Napoli all’Aquila, quando scelse di percorrre la via di Lucera.
Ma facciamo un passo indietro, almeno a quando, ancora vivente la Regina Giovanna II, ad Ariano c’era ancora il vescovo De Raimo. Negli atti notarili arianesi dell’epoca si legge che Padre Don Angelo dell’Ordine di S.Benedetto diede il permesso a Don Michele Ippolito, Rettore e cappellano della chiesa arianese di s.Stefano, di accogliere le ultime volontà del Magistro Angelo Fuschi di far costruire al suo interno un altare privato, cioè la cappella di s.Maria de Nive, per la salvezza della sua anima.
Il documento riveste una notevole importanza ai fini della ricostruzione dei confini regionali delle province riunite di Principatus Ultra, Citraque Serras Montorii et Capitanata. L’atto inedito arianese del 1430 precisa infatti l’esistenza di un regio giudice annuale ma soprattutto attesta la figura del notaio, quale publicus per Provincias Principatus Ultra, Citraque Serras Montorii et Capitanata reginali autoritate notarium, attestando un solo notaio regio per le Terre che vanno dal Beneventano a Foggia; compreso il territorio sotto le Serre del Montorio (di San Bartolomeo in Galdo).
Nella sostanza andava ridisegnandosi il nuovo Ducato bneventano racchiuso, fra una parte sopra le serre (ultra) e una di sotto le serre (citra), ma dentro, sopra e sotto le Serre c’era il Montorio. Al di sotto delle Serre aveva inizio la provincia di Principato Ultra, e sopra le Serre del Montorio, la Capitanata.
Il documento cartaceo del 14 settembre 1430 è tuttora il più antico atto presente in originale presso l’Archivio di stato di Avellino in quanto di precedente c’è solo qualche pergamena in cartapecora riciclata, riutilizzata a mo’ di copertina per i brogliacci notarili.
L’atto del 1430 è giunto fino a noi, forse senza mai essere pubblicato, perché è un allegato poco visibile inserito in un rogito del notaio Scipione Agostini.1
La capitale regionale delle province riunite del Principato-Capitanata, sopra e sotto le Serre del 1430, non sarebbe stata affatto Montefusco, ma neppure Benevento, anche perchè è la regione di un solo Principato, diviso fra Ultra, Citra e Capitanata, perché comprende tutte le Terre sopra e sotto le Serre, lontanissimo da Salerno.
Anzi, subito dopo la morte della Regina Giovanna II, nel 1435, quando i paesi furono in regime militare, durante la guerriglia fra Angioini e Aragonesi, Ariano restò papalina e tutta a regione le tre province riunite furono sotto il controllo guidato dagli Sforza che si impossessano della città, ne fanno il quartier generale e da lì ripartono per annettere territori momentanei al Ducato di Benevento.
Già della baronia militare di Ariano facevano parte sicuramente paesi intermedi come Montecalvo e Apice, la cui giurisdizione comprendeva terre fino a Paduli, quindi a completa guardia del tratto della via Appia Traianea che da Benevento conduce a Lucera.
Tornando all’atto notarile, da dopo la morte della Regina Giovanna II, c’è da dire che Ariano appare come la città vescovile dove si sono riuniti tutti i nobili della baronia, i sir, i viri, e dove si è spostato il medesimo notaio ufficiale della regione, lo stesso che redige l’atto, perchè, nel mentre, Montefusco è diventata sede della Vicaria per l’amministrazione della giustizia nelle Terre annesse al Regno degli Aragonesi.
Infatti, sebbene manchino svariati anni all’assoggettamento di tutto il Regno agli Aragonesi di Re Alfonso, nel 1440, Montefusco funge da Vicaria dell’antiregno che si oppone all’insediamento stabile di Re Renato d’Angiò. Ovviamente le vecchie province sono abolite in quanto, dall’una o dall’altra parte, hanno lasciato il posto ai comitati militari (c’è la guerra contro l’invasore aragonese), come ai vecchi tempi, alla stregua delle antiche contee, ognuna delle quali possedeva una propria baronia e tutte si rifacevano alla nuova città metropolitana più vicina (sede di Principato), Beneventana, in tandem con l’antica città diaconale (sede del Ducato), Beneventum.
Le scaramucce fra Chiesa, Aragonesi e Angioini continuarono per 7 anni, spostandosi continuamente i confini di province stabili del regno, giustizierati dell’antiregno e contestabulie della Chiesa.
Inoltre, con diploma del 10 giugno 1433, la Regina Giovanna II, due anni prima che morisse, aveva già approvato una nuova ripartizione territoriale che provocò altri distacchi, specie sui confini, di Casali di famiglie passate da una baronia all’altra al seguito della migrazione dei propri baroni. Anche la Montagna di Montefusco ne subì le conseguenze, da qui la frammentazione dei feudi, specie quelli sofiani di Corsano, Marcopio e Lapisio: due Monterone, due Venticano, due Terranova, due Sellitti, tre Torrioni, etc.
Per questo motivo, con la nuova ripartizione, quegli stessi Casali non appaiono appartenere affatto ad un perimetro che fa riferimento al distretto di Montefusco, sebbene la vicinanza, quanto al feudo della Montagna, cioè alla sua baronia, che sembra essere passata in toto nella contestabulia arianese che la ricondusse nel Ducato beneventano. Alcuni paesi della Montagna, infatti, sono poco alla volta inglobati nel territorio ducale dell’arcivescovo di Benevento, giunto a comprendere sia il paese originario che il suo stesso oppido nato dopo la fuga e frutto di uno sdoppiamento strategico, ma le divisioni continuarono a creare sovrapposizioni che ancora oggi non sono chiare a nessuno. Torrioni, il paese più in alto della Montagna di Montefusco, per esempio, si ritrovò diviso in tre parti: una porzione con Benevento città, una porzione con la baronia di Montefusco ed una porzione con Tufo nella baronia di Serra.
Questa frammentazione è dovuta in parte alla suddivisione dei feudi già in atto fra parenti e amici, anche solo per non pagare la tassa di successione. A dire del Ricca, Maurizia o Mauruccia, morto il fratello Angelillo, fu viro nobile Guarino del Turco milite di Montefusco, come da atto di Raynaldo Vassallo di Napoli, ereditò il servizio feudale dato in origine al nonno. Da qui la decisione, già sotto la Regina Giovanna II, di dividere in più parti il feudo, d’accordo il viro magnifico Pippo Caracciolo di Napoli, milite regni nostri sicilia Marescallo consiliario, in nome della quale investì i nipoti di Angelillo, cioè i figli di Maurizia, il viro Guarisio detto Guarino Mazzei e il domino Nicola de Montefuscolo che non avevano il cognome Del Turco.
L’atto fu suggellato col sigillo dell’anello regio in possesso di Angelo Siripando di Neapoli, capitano della Terra di Montefuscoli de provincia principatus ultras serras montorii, che concesse l’ufficialità alla divisione del feudo da assegnare per una parte a persone fedeli a Pippo Caracciolo, e per l’altra parte ai figli di Maruccia, come accadde per Casale Toccanisi e Casale S.Angelo a Torrioni e tanti altri.
Così il documento: – Casalia Tocchanisii et Sancti Angeli ad Turrayonum, et certam partem dicti Casalis Turrayoni sita et sitam in Montanea dicte Terre Montisfusculis juxta territorium Casalis Mutii, juxta territorium Castri Tufi, juxta territorium Casalis Preturii et alios confines… Casale Castri Muczj situm in dicta Montanea dicte Terre Montis Fusculi juxta territorium Casalis Sancte Pauline justa territorium Castri Montis Aperti juxta flumen Sabati et alios confines nec non et Casale Sancte Marie ad Vitam seu Genestre situm similiter et positam in Montanea Terre predicte juxta territorium Sancte Marie Inglisono juxta territoium Casalis Sancti Georgii juxta pheudum monasterii Montisvirginis et alios confinese…
In questo particolare caso nascevano tre Torrioni. Il Casale del Torrione della Montagna in apparenza non ha alcun riferimento con gli altri due, che sono vicinissimi e contigui, riconosciuti erroneamente come suffeudi di S.Angelo e Tufo.2
Alla redazione dell’atto erano presenti Pippo Caracciolo e Guarino, erede dei del Turco, unitamente al viro magnifico Cristofaro Gaetano conte di Fondi, logoteta e protonotario del regno, che ufficializzò l’atto. Non è stato possibile rinvenire ulteriori documenti su S.Angelo à Torrioni.
E’ comunque questa la Montagna di cui fecero parte i Casali di San Giorgio la Montagna (oggi San Giorgio del Sannio), Castelmozzo (scomparso fra S.Paolina e Montemiletto), S.Paolina (oggi comune), Montaperto (ora frazione di Montemiletto) distaccato da S.Maria in Grisone e S.Maria a Vita in Ginestra, e finiti ora con S.Nicola Manfredi, ora con Calvi-S.Agnese (San Giorgio del Sannio).
Il Principe di Taranto, principale signore del Regno, si era ribellato agli Angioini in favore degli Aragonesi già da alcuni anni. Dal 1434, infatti, Re Luigi d’Angiò, nominato erede adottivo da Giovanna II, prese “per moglie Margarita figliuola del Duca di Savoia, la qual da Nizza venne per mare a Sorrento, e la Regina pensò farla venire in Napoli, e fare una bella festa, ma la Duchessa di Sessa, e gli altri del Consiglio, temendo di non perder la loro autorità, la divertiro da quel pensiero, dicendo, che si farebbe venire una nemica in casa, la quale ò haria procurato la sua morte per rimaner ella Regina, ò sarebbe per intorbidar il suo stato, il qual era quieto e tranquillo”.
La Regina Giovanna evitò di far celebrare il loro matrimonio in Napoli e Luigi trascinò la sposa in Calabria, fra i feudi propri, per celebrare le nozze a Cosenza, nelle cui vicinanze aveva termine il confine dello stato del Principe di Taranto, il quale teneva a sè ben stretti 150 feudi, fra Terre e castelli, non restituiti ai Sanseverino sebbene fosse stato più volte citato a corte senza mai comparire.
Il Principe di Taranto fu perciò dichiarato ribelle e contro di lui si scagliò Giacomo Caldora con l’esercito regio. La Regina scrisse anche a Luigi d’Angiò di apprestarsi ad assaltarlo direttamente dalla Calabria. L’erede angioino sapeva di mettersi contro un Principe potentissimo ma, controvoglia e a malincuore, tornò a muovere guerra nel Regno, finanche con l’appoggio del Re d’Aragona.
Quando il Principe di Taranto si vide assaltare su due bande, subito mandò il fratello Gabriele Orsino e Ruffino ad Ascoli, città pugliese che fungeva da baluardo, all’incontro di Caldora. Qui si stanziarono i due con 1000 cavalleggeri e 1000 fanti col compito di trattenere il nemico per evitare che entrasse in Terra di Bari e Otranto. I tarantini si chiusero in difesa perché sapevano di non poter difendere in alcun modo le proprie Terre e i Castelli lontani di Terra di Lavoro, Val Beneventana e Principato Ultra. Anche il Principe di Taranto scese in campo col resto delle guardie, attendendo allo scontro Luigi d’Angiò, in quel di Altamura.
Caldora, nel mentre, tolse ai tarantini Acerra e la Baronia di Flumari, e di Vico, in cui ricadevano un gran numero di Terre, poi la Cedogna, Bisaccia ed altre vicine, però “come fu sotto Ascoli stette molti giorni impedito” per la minaccia dei due comandanti Tarantini. Ma, essendosene allontanato uno, Gabriele si spinse fino a Minervino, così Caldora ebbe modo di persuadere Ruffino a passare dalla parte della Regina. La sua condizione di povero suddito, sebbene fosse il primo cortigiano di un Principe, lo convinse ad annettere alle truppe regie i 5000 cavalleggeri piu i fanti appartenuti allo schieramento del Principe di Taranto, che andarono ad ingrossare le fila dei rinforzi giunti da Napoli, a cui già si erano uniti anche francesi e calabresi di Luigi d’Angiò.
Registrato il tradimento, e nell’impossibilità di fronteggiare gli uomini della Regina, il Principe Orsini si ritirò riconsegnando la Basilicata ai Sanseverino. Fu poi raggiunto dalle truppe fedeli per liberare dall’assedio la sua stessa Taranto, che riebbe a patto di accontentarsi di quella insieme a Leccie, Rocca, Gallipoli, Ugento e Altamura, e dei castelli di Brindisi, Oria, Minervino, Gravina, Canosa e del Gariglione.

Description

Benevento e il suo Principato Ultra tornano in Regno sotto la Regina Giovanna II che investì Sforza nel 1418 e diede la Dogana a Roberto d’Aquino col cuscino del Papa

Nell’anno 1418 la Regina Giovanna II d’Angiò, in merito al possesso di Benevento nelle mani della Chiesa, “la rivendicò e ne investì il suo favorito Sforza”. Benevento, cioè, col consenso di Papa Martino V, fu affidata al contestabile Attendolo Muzio Sforza, fino ad allora titolare pro tempore, che nel 1422 svernò nel feudo beneventano di S.Maria de Villafranca, come si ricavava dal necrologio di S.Spirito “esso era di tanta ampiezza che Sforza vi venne colle sue genti e vi dimorò tutto il verno del 1422”.
Il Papa di Roma cedette infatti l’ex Ducato di Benevento e Casali alla sovrana partenopea, che la rivendicava nel Regno in quanto erano stati i suoi predecessori a dotarla di statuti scritti fin dal 1202, sebbene fosse chiaro a tutti che fosse stata riconfermata alla Chiesa da Re Carlo I d’Angiò.1
Fatto è che Giovanna II, prima di essere sovrana del Regno di Sicilia, fu la seconda Regina di Partenope, cioè già eletta dai magni in quanto successora a Re Ladislao. Il capostipite dei Re magnanimi del nuovo regno fondato in Napoli, fu scelto dagli anziani senza essere necessariamente incoronato dal Pontefice a Re di Puglia, come accaduto nei secoli a Salerno, ai tempi del Guiscardo, e poi a Barulo sotto gli Svevi.
Benevento fu quindi un prefettura, col suo governatore e col suo rettore, almeno fino a quando Attendolo Sforza morì (1424), lasciando la città nelle mani dei parenti, titolari delle cariche inferiori. In verità risulterebbe che questi familiari, ai tempi del figlio Francesco Sforza, dovettero abbandonare il Regno per sottomettersi nuovamente al Papa, cosa che accadde sicuramente almeno due anni prima che lei morisse (1435), nel 1433. Ma già da qualche anno, il domicello-rettore del Papa, non era affatto Sforza, bensì Roberto d’Aquino.
Donato d’Aquino era diventato arcivescovo di Benevento. Con una bolla del 1424 aveva dato esecuzione ad un privilegio di Papa Martino V in favore di Roberto d’Aquino, Domicello Beneventano, di poter tenere in casa, cioè nel Palazzo di famiglia, la coscina, antico privilegio che si tramandava dai papi Urbano VI, Bonifacio IX, Gregorio XII, concesso ad altri illustri signori beneventani, che consisteva in una sorta di testimone per la riscossione della dogana sul mercato.44
Secondo alcuni, essendo i d’Aquino di Roma a riscuotere la Dogana per il Papa nel loro Palazzo, la prefettura ducale di Benevento tornò ufficialmente ai governatori della Chiesa.
In città si rividero così i rettori a partire dal 1428, quando giunse da una diocesi molisana Giacomo vescovo di Guardia Alferi, seguito, nel 1430, da Giovanni di Vico detto Perottino da Viterbo. A questi successe, sempre come rettore, Arrigo Scarampo d’Asti, vescovo di Feltre e Belluno, sotto cui si ebbe l’unione della provincia beneventana con quella delle province ecclesiastiche di Marittima e Campagna. Rinasceva il nuovo stato pontificio.2
Le tre province ecclesiastiche, in effetti, restavano sotto la potestà dei discendenti di Attendolo in quanto Francesco Sforza, alla morte della Regina, onde evitare di immischiarsi nella guerra di successione, scelse di stare dalla parte del Papa. Anzi, fu il Papa che lo nominò Gonfaloniere-conquistatore della Chiesa per la salvaguardia del patrimonio di San Pietro. Perciò, nel 1433, fu investito del titolo di Marchese per la provincia ecclesiastica della Marca di Fermo (1433-1446) in cui fu fatto rientrare lo Stato di Benevento, Marittima e Campagna.
Quindi, sebbene i rettori di Benevento-Marittima-Campagna li nominasse Roma, per il governo e la difesa dei feudi, i luogotenenti furono prerogativa della famiglia Sforza, ma solo in virtù del fatto che il loro capo era titolare delle truppe militari papaline.

Dettagli

EAN

9788872970133

ISBN

887297013X

Pagine

96

Autore

Bascetta

Editore

ABE Napoli

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Editorial Review

 

Alfonso strappa al Papa la Rocca di Salerno dopo 33 anni che rifà il Ducato a Benevento (1440)

 

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La conquista aragonese non cominciò da Napoli, ma per uno sbarco nel Salernitano contro uno stato della Chiesa governato dai Colonna da 33 anni.
Gli uomini di Re Alfonso penetrarono nelle mura di Urbe Salerno violando i confini del Ducato pontificio. Salerno, città della Chiesa, cadde definitivamente quando i militi aragonesi raggiunsero la Rocca del rettore, alla sommità del monte, e la tolsero al gonfaloniere papale Vitelleschi, accorso a dare man forte alle guardie colonnesi.
Il futuro sovrano nominò poi a Principe di Salerno e Duca d’Amalfi Raimondello Orsini (1437), deciso a scendere in campo seguendo la scelta politica della linea familiare dei parenti tarantini.4
E’ Ramondello Orsini, traditore della Regina Isabella di Lorena e di Re Renato d’Angiò, passato appunto dalla parte aragonese. In tal modo si vide riconosciuto il titolo di Principe di Salerno, a patto di sposare poi la cugina del Re, Eleonora d’Aragona (1439), che gli portò in dote il Ducato d’Amalfi, il cui titolo era appartenuto a Giordano Colonna perché glielo aveva sottratto 33 anni prima, nel 1405, in nome del Papa.
Sotto Raimondo junior si ritrovò quindi la vicina Diocesi nolana ad essere retta da un suo familiare, l’episcopo nolano J.A. Tarentino.5
Ma la guerra fu lunga e Re Alfonso dovette dispensare non pochi premi in denaro, sborsati in continuazione, per sollecitare la maggior parte dei baroni rimasta rinchiusa nei propri castelli. I premi venivano dati sotto forma di retribuzione per i militari condotti dai signori che raggiungevano le truppe regie con propri uomini armati per aiutarlo nella conquista.
Nel 1437, in nome di Amigo, reggente della tesoreria del Re, Codola Iacme di Villaspinosa, consegnò 200 ducati ad Antonella della Fratten e a Giacomo Caldora, passato definitivamente col nemico, per le due mensilità spettanti alle otto lance che avevano condotto in battaglia. Altri 30 ducati furono dati a Matteo Tabaria e, il suo nome compare per la prima volta, a Conzalvo de Cordoba cantados de la casa del senyor Rey per dos rocins a cascu xv ducatus…30 duc. 77
Ma la capitale era lontana e la conquista del regno fu lunghissima. L’invasione durò quasi 7 anni, tanto che i campi militari si spostavano in continuazione, ma avvenne molto lentamente. Distretto dopo distretto, soprattutto grazie al sopraggiunto flusso di danaro fresco versato nelle mani degli interessati e degli ecclesiastici, Re Alfonso poté letteralmente acquistare il favore degli irriducibili e comprare il passaggio di ufficiali e baroni dalla propria parte.
Il 3 gennaio 1438 l’esercito invasore era ancora fra i casali di Montesarchio, Casale di Tocco e Casale de Vitolano, senza citarsi alcun’altra rocca intermedia.
Nella lettera regia del 7 gennaio, firmata da Vincent Gomez e ricevuta a Montefusco, si ordinava di inventariare la roba che Nanno de Salmona tenia aprata havia fet pendre al Visrey de Montifusco. Nelle pagine successive, Jacme di Villaspinosa, sarà sempre definito Commissario del Principato in Capua, confermando che a Montefusco c’era invece già il Vicerè aragonese nel 1439.88

Per Re Renato d’Angiò la situazione divenne critica perché l’antagonista Alfonso d’Aragona non volle affatto mollare le sue pretese in quei sette anni di guerriglia.
Il 31 gennaio 1440, non riuscendolo a fronteggiare, il sovrano angioino si allontanò da Napoli per andare a chiedere aiuto in Abruzzo. Lo fece di nascosto raggiungendo prima a Benevento, dopo mille peripezie vissute lungo la scorciatoia innevata del Partenio: salendo per Baiano e scendendo per Altavilla. Il Re angioino restò a Benevento giusto il tempo di sostare alla chetichella per poi prendere la via di Paduli, attraversando gli altissimi ponti romani di Apice e Casalbore, per poi risalire il monte di Crepacore di Greci e Troia fino a Lucera, e avviarsi alla volta della fedele Città dell’Aquila.
E’ poco noto il suo breve ingresso da clandestino a Benevento, città governata dai luogotenenti del Conte Francesco Sforza, concessosi al Papa quale vicario della Chiesa e investito del titolo di Marchese della Marca di Fermo (1433-1446), da cui dipese la vicaria di Benevento retta da una sorta di Marescialli.
Ma quella notte il Marchio non c’era. Aveva lasciato i parenti a ricoprire le massime cariche beneventane, avendole affidate al Conte di Cotignola e al Conte di Mutina, cioè al prete Foschino Sforza e a Vittorio Rangoni, militi et generali locumtenenti illustris domini comitis Francisci Sfortie. Ad aprire materialmente le porte della città a Re Renato fu il castellano Russo, guidato dal rettore Boccella, responsabile della Rocca, tutti al comando del Reverendo Fuscolino degli Attendoli, già Conte di Cotignola, e Domenico Vittorio de Rangonibus, Conte di Mutina, in qualità di luogotenenti generali di Francesco Sforza di Fermo.
Re Renato fu fatto entrare nel castro (rocca) di Benevento in incognito per volere dell’arcivescovo. Gli fu aperto dal castellano Buezellus, Boccella, e da Russo di Dyano, il quale era Rector Civitatis Beneventi; ma lo fecero entrare per la porta dell’Annunziata, accompagnato da soli 25 dei 200 uomini, fra cavalleggeri e pedoni, rimasti mezzi assiderati sulla via del Partenio. La richiesta di alloggiare nell’anonimato il sovrano in fuga era venuta da Messere Galiotta che aveva indicato fra gli astanti alcuni gentiluomini napoletani, come messere Guido, Signore di Nosone, e Raimondo de Annecchino. Fra quei 25 cavalieri a cui fu permesso l’ingresso si nascondeva il Re in fuga.
Questa la lettera di avviso comunicata poi al Conte Sforza, il 31 gennaio 1440, dal rettore Russo: - Magnifici Domini Domini nostri Reverendi, recommendatione premissà.
Avisamo le vostre signorie como mo, ad hore doe de nocte, vende da nuy missere Galiotta, dicendo como missere Guido, lo signore de Nosone, et Raimundo de Annecchino vennero con certi gentilomi napolitani, con circa duycento persuni ad cavallo et à pede. Lo dicto missere Galiotta ce dixe da parte de lo archiepiscopo che ne piacesse lassareli intrare dentro: fo li resposto per nuy de no, ma che intrassero con vinti o venticinque persuni et l’altri stessero da fora, et determenemo che intrassero per la porta de la Nunciata.
Pillyay le chiavi, yo rectore, per fareli intrare, facendone intrare xxv, secondo l’ordene, et l’altri loro dissero che andassero ad alloiare à lo burgo. Essendo entrati li dicti xxv et chiusa la porta, à me fo dicto che nce era re Renato vestito à modo de un saccomando, e cossì è stato. Yo mende anday à lo castellano in castello, et dixilli como stava la facenda, havimo patuta questa beffe. Lo dicto re sta in casa de lo archiepiscopo et havence promisso de à demani partirese.
Sempre ne recomandamo à la S.V. Beneventi, in castro, hora predicta, die ultimo januarii, tertia indictione, 1440.
Postscripta. - Se una cosa più che un’altra havessemo ad fare, advisatende et commandatenee presto, perché farimo zo che le V.S. commandaranno. Servitores Buezellus, castellanus, et Russus de Dyano, rector civitatis Beneventi. Magnificis dominis, dominis nostri reverendis Fuschino de Actendolis, ex comitibus Cutigniole, et domino Victori de Rangonibus, de Mutinà, militi et generali locumtenenti illustris domini comitis Francisci Sfortie, etc.
L’insediamento di un comitato militare del luogotenente generale Francesco Sforza di Benevento in quel di Ariano dimostra il peso degli Sforza in provincia.
Castrum, et Terram quod dicitur lo Castiello de lo Abbate in Provintia Principatus Citra tunc tentum per quondam Gualterius Carazzulum Maiestati nostre rebellem, adhibita potestate eidem illud apprehendendi, et occupandi manu armata, et militari: è la chiara sintesi del diploma redatto in Buccino nel 1439, segno di tempi caldi anche nel Cilento.10

Nell’aprile del 1440 fu il papa ad entrare ufficialmente in guerra. Lo fece richiedendo l’intervento militare degli Sforza affinché togliessero le offese arrecate alla Chiesa da Re Alfonso. In tal modo il papa, col pretesto di una giusta causa, quella di riprendersi il regno, ebbe movente per muovere guerra agli Aragonesi e tornare al fianco degli Angioini.6
Nel mentre Renato, pensando di avere ormai alle spalle la storiella vissuta sotto il cardinale napoletano Astorgio Agnesi, si rianimò e, aggregate nuove forze all’Aquila, nel giugno del 1440, tornò alle porte di Benevento con un nutrito esercito.
L’idea, giunto dall’altro capo del Vallone (Serretelle) insieme al Duca di Bari, fu quella di insidiare Re Alfonso, che aveva posto campo militare ad Apollosa, mandandogli avviso di volerlo sfidare in battaglia. Ma Alfonso se ne guardò bene di giocarsi la corona, atteso che fosse già padrone di oltre mezzo reame.
Il giorno dopo Renato tentò ancora inutilmente di trascinare l’avversario nel bel mezzo del campo militare, ma questi si faceva puntualmente negare, scoraggiato dal traditore Giacomo Caldora, che gli poneva continuamente un freno. Da qui la decisione degli Angioini di tornare su Napoli, dove resistevano in un paio di castelli, ma la metropoli fu assediata unitamente alle Terre degli Sforza, ritenuti colpevoli di avergli lasciato il passo. Il Gonfaloniere delle città papaline non era però uno sprovveduto e mostrò la sua potenza dell’entrata in guerra invadendo l’ex Principato Ultra. In pochi giorni i papalini si reimpossessarono militarmente del governo di molte Terre della regione di Principato Ultra, Citra e Capitanata, insediandovi il comitato militare allo scopo di far rinascere il Ducato di Benevento.
Foschino Sforza, dal canto suo, forte del presidio nella Rocca beneventana e del Vicariato del padre Francesco, aveva ben risposto ai tumulti filo-aragonesi avutisi nei suoi castelli di Mota, Ursaria, Mirabella, Casalbore et Bonalbergo.
Perciò, fregiatosi del titolo e postosi a capo del Comitato riunito in Oppido di Ariani, riportò l’ordine con la forza in tutte le Terre possedute dal padre, cominciando a riprendersi Apice che nei documenti viene detta in provincia di Ariano.8
Un patrimonio immenso per una famiglia allargatasi a dismisura che porterà i discendenti di Attendolo Sforza a divenire Duchi di Milano, sebbene un ramo della famiglia resterà a Benevento, così come avevano fatto i discendenti di Santi Parente, già rimasti nei dintorni.9