34. APICE: il Castello, i Feudi, le Chiese. Pergamene e toponimi fra Benevento e Ariano

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S.Lorenzo Vecchio dei Conti Arianesi di Buonalbergo donata a Cassino e l’invasione del Guiscardo

Stando alla cronaca di Leone Ostiense, Gerardo, signore di Alipergo, futuro Conte di Ariano, andando incontro a Roberto Il Normanno, primo fra tutti, quasi per gioco, lo chiamò Guiscardo e, solo per ottenere le sue milizie, col consenso del figlio Roberto, gli dette in moglie la sorella Alberada di Buonalbergo (-1035 + dopo il 1111) nel 1048. In tal modo, senza spargimento di sangue, assoggettava anche la Contea Arianese alla Gran Contea d’Apulia.
Il Guiscardo, dal matrimonio di Alberada, avrebbe avuto Boemondo, futuro Principe di Antiochia, che restò amico fedele dei cugini Roberto ed Eriberto figli di Alipergo. E’ quindi il Conte Gerardo di Alipergo, a sovrintendere nella Contea Arianese nel 1078, prima che gli succedesse il figlio Eriberto, devotissimo a San Nicola, quando donò all’Abbazia di S.Sofia di Benevento, le chiese di S.Marco [dei Cavoti], S.Lorenzo [Vecchio di Apice], S.Lucia e S.Maria, site presso il Castello Arianese di Alipergo.
Gli Arianesi Erberto e Roberto restarono fedeli al cugino Boemondo e alla zia Alberada, quando nel 1059 furono ripudiati dal Guiscardo. Il Guiscardo infatti rispedì a casa il figlio e la moglie e si risposò con Sigelgayta, sorella del Principe di Salerno.
Il documento a cui si fa riferimento, però, alquanto apocrifo, sarebbe stato creato dai monaci di Santa Sofia solo per anticipare la donazione e giustificare il possesso delle chiese nel corso di una futura causa contro l’abbazia di Montecassino a cui, nella realtà, sarebbe spettata questa antica Chiesa di San Lorenzo.
Il territorio Apiciano di San Lorenzo, quindi, anzichè essere di Benevento, sarebbe stato da sempre sottomesso alle Terre dell’Imperatore che ingrandì il Ducato Spoletino con la Contea Arianese, assoggettando i territori arianesi all’Abbazia di Montecassino.
Secondo il Pacichelli San Lorenzo sarebbe da sempre appartenuta a Montecassino, in quanto bene dipendente da San Giovanni Spoletino, che, quindi, non poteva essere nell’orbita Sofiana che aveva per confine il presidio di Castrum Boneti.
E’ relativa già al 1030 la notizia del Rossi, seppur sospettosa in quanto senza riscontro, riferita al vescovo Gerardo di Borgogna, futuro Papa Nicola II, il quale nominò Dauferio di Benevento cardinale, venendo ospitato nella fortezza di Castrum Boneti, giuntovi a rivendicare la Terra d’Apice, in qualità di inviato apostolico romano del Papa, dichiarandola proprietà della Santa Sede.
Apice invece continuò a dipendere da Montecassino con tutta la Diocesi Arianese, con chiese di rito greco, e poi di rito latino solo quando anche Ariano verrà aggregata alla Cattedrale di Santa Sofia di Benevento, a cui resterà legata per la presenza del forte culto di San Bartolomeo.
La Diocesi bizantina degli Arianesi di Buonalbergo era quindi ancora staccata dalla Diocesi Beneventana (sarà l’ultima ad essere annessa alla metropolìa beneventana), quando, nel 1068, il rito latino fu ripristinato nella chiesa beneventana da Papa Alessandro II (1061-1073). Il vescovo della Cattedrale di Ariano, del resto, era ben raffigurato sulle porte del Duomo di Benevento nell’atto di benedire alla maniera greca col pollice e l’indice uniti.
Annessione che, secondo alcuni, sarebbe avvenuta nel 1070, quando anche la Diocesi Arianese fu conquistata dal Guiscardo e annessa a Benevento, allontanandosi dal rito bizantino e divenendo una dipendenza dell’arcivescovo metropolita e del Ducato d’Apulia.
Ma questo potrebbe essere accaduto anche solo sulla carta.
Stando allo storico Paolo Diacono, Amato di Montecassino, avrebbe redatto una “Storia dei Normanni” (1016-1078) trascritta in francese nel 1300. Il manoscritto, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi, viene attribuito ad un Amato, partigiano normanno, che alcuni identificano con Sant’Amato da Nusco.
In esso si cita Apice, che quindi già esisteva fra il 1041 e il 1085. Volendo restringere le date al periodo in cui Dauferio Epifani fu Abate di Montecassino, Apice c’era fra il 1059 e il 1085, in quanto nel 1059 Roberto il Guiscardo si nomina Duca di Puglia e Calabria in Salerno e nel 1085 muore.1
Per questo atto di forza compiuto nel 1059 il Duca Guiscardo litiga con gli Arianesi, cioè il cognato Gerardo Alipergo, i di lui figli, Erberto e Roberto (padre di Giordano) e i Capuani di Riccardo d’Aversa, e ripudia Alberada Buonalbergo e il figlio Boemondo.
Ad egli si unisce il Papa, il quale, scomunicando Il Guiscardo, crea lo scontro con i Capuani. Boemondo diventa quindi il punto di riferimento di Arianesi e Capuani, costretti a scappare da Capua.
Nel Concilio del 1075 il Pontefice, col Dictatus Papae, riconfermò la scomunica al Guiscardo, il quale, alleatosi con il Duca Sergio di Napoli, marciò contro Riccardo allo scopo di riprendersi Capua. Scrive il Russo che già durante la lotta fra Il Guiscardo e Riccardo, Apice era stata assalita dalle truppe che provenivano da Napoli (1074). Nelle sue mura i due signori, per intermediazione di Desiderio abate di Montecassino, s’incontrarono e si riconciliarono poco prima della tregua di Acerra.2
La tregua di Acerra avverrà quindi dopo il 1074, anzi dopo che Il Guiscardo fu nel Principato Aversano nel 1080. E la successiva Pace di Apice fu prima della riconsegna di Capua a Riccardo, che è la diretta conseguenza della pace apiciana.
Quando il Duca Roberto Guiscardo, tolse l’aversano ai Capuani, nel 1080, costrinse il Principe Giordano di Capua a dirigersi su Napoli e nel Nolano.
Il Duca Roberto Guiscardo aveva spadroneggiato fra Salerno e Roma, fatto scappare i Capuani, preso l’aversano e dichiarandolo in Dominio di Roberto Ducis, lasciando invece l’avellinese beneventano all’imperatore di Costantinopoli, il quale, a sua volta, aveva inglobato i domini dei principi longobardi, fino a quel momento appartenuti ai vari gastaldi.3
Seguendo la Cronaca di Amato, dunque, lo scontro fra Boemondo, Capuani, Arianesi e Papa culminò con la pace avvenuta proprio ad Apice, territorio arianese dei parenti della moglie, con la riconsegna di Capua ai Capuani di Riccardo fu successivo al 1080. Data che, come vedremo dal confronto con altri cronisti, dovrebbe ascriversi al 1083, prima della morte del Guiscardo ma soprattutto prima della morte di Riccardo a cui successe Giordano ormai in pace con Il Guiscardo e cognato Principe di Salerno avendo sposato una sorella.
Desiderio Epifani di Benevento (1027-16.9.1087), abate di Montecassino dal 1058 al 1086, fu eletto papa due volte, il 24.5.86 e il 9.5.1087, col nome di Vittore III. Lo scontro fra Il Guiscardo e i Capuani non lo convinsero infatti una prima volta, spogliandosi delle insegne papali e raggiungendo Terracina quello stesso 1086, quando potrebbe essere ritornato a Montecassino. Ma questo solo per pochi mesi, cioè fino alla morte del Duca Guiscardo quando, dopo aver convocato un Concilio a Capua, con il nuovo Duca Ruggiero e il Principe capuano Giordano, accettò l’elezione malvolentieri, solo perchè, ritirandosi, avrebbe favorito il partito dell’Imperatore Enrico. E così ripartì per Roma sotto la protezione dei militari guidati dal Principe di Capua Giordano. Questo episodio è quindi successivo.
La Pace di Apice fra Il Guiscardo e il padre di Giordano, Riccardo, era quindi già stata stipulata, prima delle successioni seguite alla morte di Riccardo e del Guiscardo. Ma non solo. Poichè la Pace di Apice era avvenuta dopo la presa di Aversa, accadde fra il 1080 e il 1085, prima che morisse Il Guiscardo.
Il libello di Amato non è datato, ma cita fatti di quando l’abate fece da paciere fra i Signori Arianesi del Principe Riccardo d’Aversa, padre di Giordano, e i Cavalieri del Duca di Roberto Guiscardo, il quale, presa Palermo, era ormai in Calabria col titolo di Duca di Calabria, presumibilmente in Salerno, ereditata o meno dalla nuova moglie Sichelgarda.
Amato scrive che quando il Duca fu su Acerra ottenendo la sede Aversana di Capua, si fece omaggiare dai Signori di Riccardo, e quando il Duca fu su Apice, egli fece gli onori al Principe, proprio come lui aveva fatto ad Acerra, consegnando nelle sue mani la forza militare in Apice, opponendosi soltanto Baialarde, Garilgione, Guglielmo e il figlio Rogiero Arenga (scontratisi poi a S.Agata), che non volevano piegarsi alla volontà del Duca. Solo allora al Principe Riccardo, già Duca di Gaeta in nome dei Bizantini, sarebbe stato permesso di tornare a Capua, mentre al figlio veniva concesso di sedere nel Ducato di Gaeta. Cosa che accadde fino alla morte del padre, nel 1083, quando Giordano ereditò il titolo di Duca e quello di Principe.4
Roberto Il Guiscardo fu nel Principato Aversano nel 1080 e quindi la resa di Apice avvenne subito dopo, entro il 1085, prima che il citato abate di Montecassino divenisse papa e che Il Guiscardo morisse. Ma non solo. Conoscendo i sopraggiunti buoni rapporti fra Il Guiscardo e Giordano, già Principe nel 1083, la pace di Apice avvenne anche prima di quella data, quando un documento cita Giordano I quale Principe di Capua in Lauro, unitamente a Nola, Marigliano, Palma e Sarno ricevuti in dote della moglie Gaitelgrima, sorella di Gisulfo e di Sichelgarda moglie del Guiscardo. Dal 1083 il Principe Giordano manterrà sempre quei feudi, fino alla morte in Piperno (1093), quale Signoria di Lauro nelle mani del figlio Riccardo in Lauro, Castelli Lauri senioris (1087).
Giordano era in pace con Il Guiscardo già dal 1083 quando successe al padre con il titolo di Principe e gli venne assegnata per il figlio la Signoria Nolana di Lauro, quindi subito dopo la morte del padre Riccardo.
Solo prima di allora la vera guerra era stata scongiurata dall’abate Desiderio, prossimo a Papa, che aveva fatto incontrare Il Guiscardo e Riccardo nel convegno che la storia ascrive al Castello di Apice, nella speranza di metterli d’accordo. Fatto che oggi sappiano essere avvenuto nel 1083.

Description

Presentazione

Narrare la storia delle molteplici controversie tra Conti, Duchi, Baroni, Principi e Re, gli eventi, le situazioni, le stragi delle innumerevoli guerre per conquistare Castelli, Città e Terre dei luoghi in cui oggi viviamo è una grande fatica. Un aiuto massiccio però ci viene dalla documentazione delle “Cronache” di Falcone e del Telesino Beneventano, delle “Carte” di Montevergine e del “Catalogo dei Baroni”. E’ vero. Anche in tali documenti vi sono contraddizioni, oscurità, ripetizioni che non rendono agevole il districarsi tra fatti ed eventi riportati. Di qui la ricerca di conferme, chiarimenti e specificazioni più attendibili in ulteriori documenti nascosti in Chiese, Abbazie ed altri luoghi sacri.
Un fatto è certo. Le “Cronache” di Falcone e del Telesino sono una vera e propria miniera di notizie tali da incoraggiare la consultazione da parte dei vari storici locali che meritano l’elogio della maggioranza dei cittadini delle nostre contrade che sono messi a conoscenza della vita dei propri antenati. La storia locale, spesso trascurata dagli storici che vanno per la maggiore che, con spocchia, la catalogano in senso spregiativo come storia “minore”, ha un valore inestimabile. Essa mette in condizione ognuno di noi di conoscere non solo le proprie radici, ma soprattutto consente di appropriarci dei comportamenti, spesso eroici, delle popolazioni che ci hanno preceduto nei secoli e che, con imprese, sacrifici e sangue versato, hanno contribuito a consegnarci interi territori. Si tratta della memoria storica dei nostri avi, a cui attingere per proseguire nel solco da loro tracciato nell’attività, nell’impegno, nel contributo che ognuno di noi deve dare per il progresso e lo sviluppo della propria terra.
Le realtà locali sono un patrimonio di cultura, di storia, di arte, di fatti ed eventi che devono sempre più essere il baricentro da cui partire per comprendere la storia complessiva della nostra bella Italia. Gli storici “minori” sono veri topi di biblioteca e ricercatori pazienti in Abbazie, Chiese, Comuni, Province, Regioni ed Archivi di Stato. Fatiche che spesso non ricevono il dovuto riconoscimento appunto per un male inteso senso della storia, ma che ottengono il plauso e l’encomio di numerosissime personalità che sanno apprezzare il lavoro certosino di chi pone a disposizione di tutti conoscenze che, altrimenti, rimarrebbero nell’oscurità.
Glorie, affanni, tormenti, sconfitte, vittorie, miserie patite dai nostri avi. Gente, popolo, individui, che devono essere sottratti all’oblio che rappresenta uno dei più gravi crimini contro la verità. Ed è la verità dei fatti che diventa viva nella memoria di noi moderni. Memoria che è veramente un qualcosa di divino, che rievoca scontri, situazioni, eroismi, sacrifici degli antenati facendoci sentire accanto a loro, confortati dal ricordo. Aver memoria di avi lontani, consente di affrontare con più consapevolezza i problemi di oggi. La memoria secondo i Greci è la madre delle Muse. Era chiamata mnemosine. Archelao di Piene, nella sua opera “Apoteosi di Omero”, la presenta effigiata in luogo d’onore ove, in maestoso atteggiamento, rivolge lo sguardo verso Zeus, padre delle Muse stesse.
“Memoria” o “Oblio” sono i corni del dilemma. La prima è preferita, ammirata, amata da tutti gli uomini che rispettano i valori della storia, della cultura e dell’umanità. La seconda, spesso odiata, è apprezzata soltanto dalle anime scialbe e imbelli. E’ la memoria storica che affascina il nostro spirito. E’ così. La realtà, la vita, degli antichi e lontani avi di Apice, attraverso la memoria, viene impressa con caratteri di fuoco nel nostro animo e nel contempo risorge “attuale” nel nostro pensiero.

Dettagli

EAN

9788872970133

ISBN

887297013X

Pagine

96

Autore

Bascetta

Editore

ABE Napoli

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Editorial Review

 Landolfo della Greca annette Apice ai territori beneventani del Papa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Landolfo de Greca compare nella storia di Benevento nello stesso anno in cui si hanno le prime notizie di Apice. Partecipa agli eventi storici fino al dicembre del 1123, quando trovò la morte. Fu seppellito presso la sua Chiesa di San Massimo. Si tratta di colui che Falcone definisce “soldato prudente e solerte Comestabulo di Benevento”, ma “di spirito bellicoso e insofferente alle ingiurie del popolino era ogni giorno minacciato da tutti i suoi nemici; infatti se qualcuno dei nemici gli infliggesse una ingiuria o lo rapinasse, desiderava piuttosto di morire che rinunciare in qualche modo a punire il nemico. Perché parlare più a lungo? Landolfo, egli stesso Comestabulo, ritenuto da tutti fornito di virtù e di scienza, non era stimato degno di piegarsi a nessuna delle numerose minacce che riceveva. In ogni caso, così come era stato predeterminato, Landolfo stesso accolse l’onore di essere Comestabulo elargito dal Signor Papa Pasquale II, nel vedere il Castello che una volta Roberto, soprannominato Sclavo, aveva costruito sul Monte Sableta, uomo per studio pieno di ogni malizia e nequizia, adirandosi con lui disse che avrebbe distrutto quel Castello”.1
Per la migliore comprensione dei fatti e degli eventi è d’uopo cominciare dal passo in cui Falcone si riferisce ad Apice: “Così il Principe Roberto e i suoi compagni Roberto e Giordano, lo stesso Castello così distrutto e lo stesso Comestabulo Landolfo, di giorno in giorno, per virtù e per ricchezze, furono conquistati dalle cose che si vedevano e, presi dall’invidia della gente per le armi e l’odio dei Longobardi , ritenendosi di essere minacciati dalla prudenza di lui, con tutti i Normanni e i cittadini dei paesi viciniori misero su una congiura. Stabilirono che si dovesse fare guerra a Benevento nel dodicesimo giorno dell’entrante mese di agosto. Reputavano che il Monte detto Guardia, in un solo giorno e una notte potesse essere occupato. Credendo invero che il Comestabulo fosse lì e che in quattro e quattr’otto potessero occupare la città e spopolarla del tutto; ma nello stesso giorno, in cui si accostarono al Monte e iniziarono la guerra, furono rapidamente sconfitti e alcuni di essi catturati. Ma nella notte seguente, presi dal timore celeste e terribilmente spaventati dai Beneventani, fuggendo come ladri per vie solitarie, stimavano che nella stessa notte potessero essere tutti catturati dai Beneventani. Pensavano di essere presi in modo turpe e vituperevole, come dalla bocca di molteplici e variegate narrazioni era stato udito. Allora lo stesso Comestabulo con Benevento e la moltitudine dei soldati raggiunsero la Chiesa di Sant’Angelo a Croce. Insidie propalate da più parti. E avvenne lo scontro. Tuttavia, sovvenendo la misericordia di Dio, una parte dei nemici voltando le spalle si diede alla fuga. Di questi furono presi prigionieri ben dodici cavalieri, dei quali lo stesso Comestabulo si impadronì delle armi.
Falcone prosegue la cronaca, ricordano Raone, Signore di Ceppaloni e Landolfo Burrello sui fatti e vicende accadute sul fiume Sabato, nei pressi della Chiesa dei Sette Fratelli. Raone, Burrello ed altri, con circa 150 soldati e fanti, non appena furono presso il fiume Sabato, avendo nascosto il grosso delle truppe in mezzo ad un campo nelle vicinanze della Chiesa dei Sette Fratelli, fecero all’improvviso una sortita sbaragliando, in una estesa pianura, i nemici e facendo prigionieri dodici nobili soldati con tutte le loro armi.
In concreto intorno alle prima notizie sull’esistenza di Apice si verificavano tutt’intorno vere e proprie guerriglie. La Cronaca continua con riferimenti alla Chiesa della Beata Maria di Episcopio, “ingrandita per volontà di Landolfo de Greca” e termina “con l’anno in cui Landolfo Beneventano fu nominato aricivescovo e Landolfo de Greca, in un primo momento espulso dalla città di Benevento e appena poco tempo dopo, avuto il permesso di ritornare, accettò la carica di Comestabulo della stessa città di Benevento”.2

Il Comitato di Ariano, facente capo alla Gran Contea di Giordano di Ariano, restò vivo nel 1122, quando vi fu l’occupazione dei Normanni del Duca di Puglia Guglielmo deciso a liberarsi dei nemici Comestabuli, al tempo in cui Giordano aveva affidato il feudo di Apice al figlio (?) Ruggiero Mattafellone.
Secondo la tradizione il Conte di Ariano Giordano di Eriberto, figlio di Gerardo, venne sconfitto nel 1122 dalle armate del Duca d’Apulia Guglielmo a cui si erano alleati il Conte di Alife Rainulfo Drengot (futuro Conte di Avellino) ed il Conte di Sicilia Ruggiero. In conseguenza di tale sconfitta il Gran Conte Giordano perse la Contea e si ritirò a Salerno.
La “Cronaca” ricomincia dal mese di marzo del 1122. Era il quarto anno del pontificato di Papa Calisto, considerato pontefice sommo e papa universale, per distinguersi dall’antipapa, oltre che Signore delle terre possedute dal Vaticano da 15 anni. Il Ducato d’Apulia in quest’anno 1122 patisce sofferenze economiche e sociali. Per cui il Duca è costretto a chiedere un consistente aiuto finanziario al cugino Ruggero II, Conte di Sicilia.
Falcone di Benevento espone gli accadimenti e le vicende dell’anno 1122 con commozione e trasporto. “Guglielmo, incontrandosi con il Conte di Sicilia, si rivolse a lui piangente con queste accorate parale: nobile Conte mi appello a te per i legami di sangue che ci uniscono, ma anche a causa delle tue ricchezze e la tua potenza. Vengo a lamentarmi contro il Conte Giordano e ad implorare il tuo aiuto per vendicarmi delle sue offese che ho patito. Di recente, quando stavo facendo il mio ingresso nella città di Nusco, il Conte Giordano mi viene incontro seguito da un gruppo di cavalieri e riversò su di me minacce ed insulti dicendo: ‘Ti accorcerò il mantello’. E alle parole fece seguire i fatti per me funesti: saccheggiò tutte le mie terre di Nusco. Poiché non ho forze sufficienti per prevalere contro di lui dovetti giocoforza ingoiare l’amaro calice delle sue pesanti ingiurie, ma ora non riesco più a resistere alle sue continue angherie e voglio contrastarlo con tutte le mie forze.
L’illustre Conte di Sicilia chiese alla sua città di Palermo, a Messina ed all’intera Calabria, di elargire un aiuto sostanzioso e al di sopra delle stesse aspettative del richiedente. E da subito gli donò 600 soldati e 50 once d’oro.
Nel 1125 il Conte di Sicilia concesse al Duca Guglielmo un altro grosso prestito, facendosi però questa volta da lui riconoscere ufficialmente quale suo erede universale.
Seguono le vicende che si verificarono fra Castello Roseto e Castello di Monte Giove, nel territorio di Sant’Arcangelo Trimonte presso Apice.

Per tutti questi motivi di discordia con il ribelle titolare della gran Contea di Ariano, senza preavviso alcuno, il Comestabulo di Benevento, Landolfo de Greca, invase le terre del Conte Giordano. Lo aggredì nel giorno di San Giovanni Battista, strappandogli il Castello Roseto e molti altri. Di poi, avanzando, nella festività dei Santi Giovanni e Paolo, assaltò il Castello di Monte Giove che mise a ferro e fuoco. Non solo lo distrusse, ma con immenso piacere catturò cinquanta soldati che stavano lì a difesa del Castello, portandoli con sé prigionieri e impadronendosi delle loro armi e delle loro spoglie.
In queste circostanze il Conte Giordano si spostò nel vicino territorio di Apice. Ne assediò il Castello e lo conquistò. Ed è proprio ad Apice che l’esercito dei ribelli che non sopportavano la guerra intrapresa dal Comestabulo di Benevento che seminava dolori e morte, si associò in un unico Comitato al servizio della città di Ariano e sotto la guida del Conte Giordano, con l’intento di scacciare una volta per sempre dalle proprie terre l’invasore beneventano che si dichiarava fedele al Duca d’Apulia.
La lotta fu dura, ma alla fine il Castello di Montefusco fu riconsegnato al legittimo proprietario, il Conte Rainulfo, a cui apparteneva l’intera Contea di Ariano. Così avvenne pure per i feudi di Morcone e di Monte Corvino, vicino Salerno. Nello stesso tempo Riccardo, figlio di Guarini di Frumari venne trucidato dai suoi stessi contadini. A tale notizia l’esercito di Monte Vico si lanciò contro il suo Castello e lo mise a ferro e fuoco distruggendolo completamente. Impiccarono inoltre due presbiti che avevano acconsentito alla morte del loro Signore. Alla fine il Conte Giordano fu diseredato, su consiglio di Ugone Infante, Raone del Boscone e Raone de Fraineta.
Raone II de Fraineta, Conte di Balba, Castello nelle vicinanze di Ceppaloni, era figlio di Raone I de Fraineto, morto nel 112°. Comunque il Castello del Conte di Balba, in seguito alla corruzione del suffeudatario Bernardo de Fraineta, vendutosi per cento once d’oro, cadde nelle mani del Re Ruggiero. E il Conte di Balba restò con l’amaro in bocca, non riuscendo più a riprendersi il Castello neppure con l’aiuto del Principe di Capua.
In verità in questi anni sulle notizie di Apice e Acerno di Molinara vi è una certa confusione con i Castelli salernitani del Cilento, anch’essi siti su un fiume Calore. Ma non solo. Dalle pergamene verginiane risulta che il Castello di Apice si confonde anche con quello di Lapio.