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GLI ABITANTI DEL 1700 DI TAVERNOLA S.FELICE (OGGI CON AIELLO) EX CASALE DI ATRIPALDA
E’ opinione diffusa che il Casale di Tavernola, unitamente all’altro di Sabina, sia antichissimo. all’epoca della redazione del Catasto Onciario, La Savina, è un luogo di Tavernola Casale d’Atripalda la cui nuova chiesa del borgo è privata. Dovette essere infatti ricostruita da vassalli del feudatario che ne erano proprietari in quanto, ancora all’epoca dell’onciario, la Venerabile Parrocchiale sotto il titolo di San Felice Martire di questo Casale è de jure Patronatus della Famiglia de’ Carpentieri, Tomasone, e O[ratori]o del SS.Rosario di questo Casale, e delli Aelli [sembra: Oelli] della Terra di Atripalda al presente governata da Don Gio: Ruggiero arciprete il quale possiede una casa data a fitto, numerosi territori e rendite. Inoltre per ogni matrimonio che si contrae da cittadini esigge annui carlini 12, per ogni matrimonio tra forestieri [esigge] annui carlini 27, per ogni defunto adulto [esigge] carlini 28, per ogni defunto parvolo [esigge] carlini 3; di ogni perzona che semina frano, fave, orzo, lino ed altri legumi esigge la decima prediale. Un Casale che dichiara 111.4 once e che dovrebbe essere tassato per metà del suo valore, come prevede il Concordato firmato dal Papa e dal Borbone, sebbene non vi sia riscontro nell’indice della Collettiva catastale. La parrocchia dichiara un reddito bassissimo rispetto ad una seppur piccola comunità.
Non fu quindi quella intitolata a San Felice l’originaria chiesa del Casale di Tavernola. Scrive Don Mario Todisco nel sito internet della diocesi, parroco di San Felice in Taverlola che il nome fa pensare ad un luogo di sosta lungo la strada per la gente di passaggio in quanto la via Nucerina era ancora molto frequentata prima che venisse costruita la nuova Avellino e la “via salernitana” fosse deviata su un altro percorso. Aggiungendo che la devozione a S.Felice di Cimitile, così ampiamente diffusa nel mondo cristiano dallo scrittore, monaco e poi Vescovo, S. Paolino da Nola, conquistò intensamente i longobardi che ne lasciarono chiese e toponimi anche nella parte interna dell’Irpinia (v. S. Paolino a Villamaina, S. Felice a Rocca San Felice ed in contrade rurali poco note).
Egli lascia intendere che sia esistita già una chiesa importante intitolata a San Felice in territorio atripaldese in quanto aggiunge che si pose il problema di spostare la parrocchia nella chiesa dei martiri o di S. Ippolisto e che dopo un lungo dissenso, talvolta colorato di vera ostilità, questa chiesa fu dichiarata autonoma dal Capitolo della Cattedrale (1585), fu sede della nuova parrocchia con l’abolizione del precedente titolo di S. Pietro (1587). Nel 1592 fu costruita una nuova e bella chiesa e fu costituito poi un Collegio che la officiasse (1598). Per necessità fu trasformata in cripta l’ipogeo romano o specus martyrum e fu occupata una parte della necropoli cristiana. Nel 1852 la chiesa fu abbellita di marmi.
Viceversa, si potrebbe intendere, che i vassalli sostenitori del culto di San Felice furono fatti sloggiare da Atripalda e ricostruirono una chiesa intitolata al santo in Tavernola. In ogni caso, essendo la parrocchia privata e di giovane fondazione, non sono da ricercarsi in una chiesa di San Felice le origini di Tavernola, bensì nel suo stesso toponimo.
Il primo documento che cita questa Tavernola risale al 1222 quando Guglielmo, Signore di Atripalda, dona un castagneto a Montevergine sito nel luogo di Tavernola. Idem per i due castagneti siti fra Avellino ed Atripalda nel luogo detto Sabina donati sempre a Montevergine nel 1286. E’ questo il trasunto degli atti fatto da Lucio Fiore qualche anno fa nel suo Tavernola: viaggio nel passato, in cui cita diversi documenti di provenienza verginiana. Il Casali Tabernula torna infatti nelle pergamene di Montevergine nel 1276 quando si sposa Gregorio figlio del giudice Giovanni de Gyso di Atripalda con Petronia cugina di Giovanni Bianco di Serino donandogli la quarta parte dei suoi beni. E ancora quando nel 1308, Romano figlio di Orso, deve corrispondere il canone annuale di un fiorino d’oro per la casa coperta con davanti una corte sita nel luogo detto Tavernola, per la selva, per la vigna, pe ril castagneto e nocelleto sito nel luogo di Petroneruto; e per altri a Galdo, Cortizia, Paparano, Campo delle Noci, sempre a Tavernola, Vallicelli, Ponte e Puzzo, presos i beni di Santa Maria Maddalena.
Nel 1354 a Coluccio del giudice Bellotto del Casale di Tavernola, sito in pertinenza di Atripalda, vengono concessi dai verginiani due pezzi di terra a Rumaiure e S.Vincenzo.
Il 1300 è il secolo di Bernardo Scillato che, nel 1310, si ritrova Signore di Atripalda, seguito dal successore, nel 1316, quando Atripalda era tassata per once sette, tari 25 e grana 21. La signoria fu poi di Tommaso Boccapianola, ed il figlio di costui Francesco ne fu spogliato nel 1420 per ribellione. Stando alla cronistoria di Giuseppe Pennetti il feudo fu di Raimondo Orsini e ne fu spogliato, sempre per ribellione, il figlio Felice nel 1462 quando Atripalda fu data ad Orso Orsini elevato a Conte. Il figlio Raimondo perdé poi la Contea giunta ad Alfonso Castriota, il quale, nel 1513, fu fatto Marchese di Atripalda e comprò l’intero feudo per 25.000 ducati. Ma la figlia Camilla, nel 1559, vendé tutto a Giacomo Pallavicino, che a sua volta lo rivendé, nel 1564, a Domizio Caracciolo, fatto Duca di Atripalda nel 1572.
Sul possesso dei feudi di confine vi sono antiche diatribe. Ma non sono poche neppure le contese di questi anni fra le diocesi di Salerno ed Avellino.
Parlando dell’Ospedale di Contrada, il Matarazzo e il Montefusco, in www.madeinirpinia.it, scrivono che durante il Medioevo vi furono diversi tentativi da parte dei vescovi di Avellino di incorporare questi territori nella propria diocesi, ma le vertenze si conclusero negativamente. Tuttavia, l’ospedale e la chiesa, che appartenevano di poco alla mensa episcopale avellinese, permise al vescovo di Avellino di estendere la propria giurisdizione diocesana su parte del casale di Ospedale. La cura parrocchiale per lungo tempo venne affidata al curato di Ajello, con non poche difficoltà di quei “figliani”. Bisogna comunque precisare che da un punto di vista strettamente giuridico, le “pertinenze diocesane” avellinesi potevano essere accampate solo su alcune famiglie del casale, mentre altre, per sottigliezze territoriali, di diritto appartenevano alla diocesi di Salerno. Di fatto, comunque, gli abitanti del Casale, furono considerati “figliani avellinesi”. Solo nel 1854 venne ragiunto un accordo definitivo con il quale la chiesa di S.Maria delle Serre fu ceduta dal vescovo di Avellino all’arcivescovo di Salerno, passando quindi sotto la giurisdizione parrocchiale di Contrada, in cambio di alcuni beni che entrarono a far parte della parrocchia di Tavernola. Da qui, percorrendo sempre la stessa strada, si raggiungeva Solofra.16
3. Nello Stato del Marchesato di Atripalda dei Caracciolo di Avellino
Atripalda ha da sempre avuto il primato commerciale della provincia mantenuto vivo da un mercato settimanale annoverato tra i primi in Italia e dalle floride fabbriche di tessuti, di ferro, di rame, di cappelli. Fin dal 1564, ai tempi del feudatario Domizio Caracciolo, fatto Duca di Atripalda nel 1572, la Casata mantenne il centro e i suoi Casali, Tavernola compresa. E duchi di casa Caracciolo furono successivamente Marino, Camillo, altro Marino, Francesco, fino all’ultimo feudatario Giovanni nel 1784.17
Primato che manterrà anche nel secolo successivo, quando il circondario eleggerà a Consiglieri Provinciali del Mandamento di Atripalda, dal 1861, il giudice Salvatore Cocchia (1861-67), l’avvocato Vincenzo Ruggiero (1867-69), il commendatore Pietrantonio Vegliante (1869-78) e il commendatore Luigi Belli (1878).18
Di questi ultimi anni sapremo addiritura i nomi degli esercenti dell’arte salutare che, nel 1880, risultano essere i medici Nicola Cennamo di Vincenzo, Saverio Di Sapia di Cesare, Lucio Sessa di Raffaele, Luigi Farina di Giuseppe, Alfonso De Caprariis di Pasquale, Roberto Farina di Francesco; i noti farmacisti Gennaro Ruggiero, Giacomo Farina di Giuseppe, Vincenzo Sessa di Salvatore, Alfonso Laurenzani di Nicola, Giovanni Parziale di Ciriaco, Gustavo Sessa di Raffaele, Luigi De Cesare di Domenico, Stanislao Alvino di Sabino, i flebotomi Andrea Adesso di Sabino e Francesco La Sala di Sabino e le levatrici Francesca Oloferne e Anna Esposita di Sebastiano. Ma siamo già nel 1889 avanzato quando Atripalda conta 6200 abitanti, commercia vini, castagne, nocciuole, ortaggi ed ha industrie di rame e di ferro, e Tavernola è stata ormai aggregata ad Aiello che viene chiamato Aiello del Sabato. Sul finire del secolo riscontreremo notizie sempre più approfondite, quando, nel 1889, per esempio, era primo cittadino atripaldese il Cavalier Avvocato Luigi Belli.19
Ma prima di allora molte vicende, belle e brutte, legarono il nome dei Caracciolo ai loro feudi. Aveva cominciato il figlio di Don Camillo, Marino II, il quale ebbe una vita felice ed agiata, ricca di soddisfazioni, a cominciare dalla nomina a Gran Magistero de 1623, interrotta solo dalla peste del 1656, quando, pur trovandosi a Napoli in quanto Cancelliere del Regno, fece trasformare il Palazzo di Avellino in un vero ospedale per i colpiti del morbo, delegando al governo di Avellino prima il vescovo Pollicini, poi, contagiato anch’egli, alla sua morte, l’abate Michele Giustiniani. L’ordine fu quello di impedire l’ingresso ai forestieri, ma la peste si era già diffusa al punto di ridurre il numero degli avellinesi da 4.500 abitanti a 2.000 unità circa.20
Nonostante ciò Marino II superò l’era del morbo con grande entusiasmo trasferendosi a Napoli, dove si unì in matrimonio a Donna Antonia Spìnola Colonna, la quale, nel 1688, diede alla luce Francescomarino II Caracciolo. Un principino degno di tal nome che possedette titoli feudali e titoli onorifici ereditari ed acquisiti da far invidia a grandi regnanti.21
In quegli anni gli Stati feudali dei Caracciolo si erano allargati a dismisura comprendendo, oltre il Principato di Avellino e il Ducato di Atripalda, anche la Contea di Serino, il Marchesato di San Severino, la Baronia di Candida, le Terre di Montefredane, Lancusi, Salza, Baronissi e Parete (Basilicata).
Francescomarino II aveva ereditato i titoli di Principe del Sacro Regio Impero, Cavaliere del Toson d’Oro, Gran Cancelliere del Regno, Grande di Spagna di I Classe, Consigliere Intimo Imperiale, Ministro Plenipotenziario in Italia, Generale della Nobile Cavalleria dei Catafratti (corazzieri). Il Principe amava lo sfarzo napoletano, ma non dimenticò mai Avellino. Abbattuti i ruderi del Palazzo-castello degli appestati nel 1707, per ordine del re di Spagna Filippo V, dopo aver concorso alle ingenti spese per il restauro del Duomo di Avellino, sposò (30.4.1713), fra sfarzi e fasti, Donna Giulia d’Avalos (1644-1737), figlia del Principe di Troia, Nicolò d’Avalos. Si racconta che per la nascita del primogenito, Marino IV Francesco, cento messi a precipizio usciro, per dare la buona novella in tutti i feudi. Il suo cocchiere maggiore, giunto nello Stato di San Severino, ricevè gran quantità di monete d’oro e d’argento sia dai ministri dello Stato e da quelli dell’Università comune, che da nobili e civili, come accadde anche per la successione al Principato di Avellino e con la pace fra Carlo VI e Filippo IV. 22
Il Principe Francescomarino II Caracciolo era il signore più ricco del Regno, fra patrimonio burgensatico, artistico e d’armi conservato nel suo Palazzo napoletano e nei suoi Castelli. All’arrivo degli Austriaci si schierò con Vienna lasciando che il Regno venisse conquistato, pavoneggiandosi durante i tanti viaggi da copo a piedi del Regno, come quello del 15 febbraio 1721. In quella data partì dall’Italia con la Principessa soggiornando a Venezia, Milano e Roma, stringendo amicizia con i Borghese, Santa Croce, i Conti Zizendorff d’Egmond, il Duca di Bracciano Odescalchi, arrivando a baciare il piede di Papa Innocenzo XIII nel giorno del Corpus Domini, grazie all’amicizia con la Duchessa Sforza Cesarini nipote del Pontefice. E poi di nuovo in viaggio alla volta di Bologna, soggiornando in casa Passerotti, e di Venezia insieme ad un Cavaliere bolognese, il Conte Orazio Bargellini, in occasione della festa del Carnevale. Viaggi di piacere che sembravano non avere mai termine. Quando tornò a Bologna, il 16 aprile del 1723, lo fece con la madre, divenuta vedova, partendo alla volta di Milano dal 2 al 4 giugno, ospite del Duca di Riario, tornando a Roma e poi a Napoli con il titolo di Consigliere Intimo Imperiale, conferitogli a Vienna il 6 marzo 1723. Carica che ricambiò festeggiando la gravidanza dell’Imperatrice d’Austria, Elisabetta Cristina, facendo innalzare davanti per tre giorni, ai suoi Palazzi di Lancusi e Mercato San Severino, ogni giorno una cuccagna ricca d’ogni bene, svettante fra due fontane di vino.23
Il Principe Francesco Marino II Caracciolo fu uomo di grandi virtù, ma anche di vizi, insiti in chi sceglie la strada della lussuria e dello sfarzo, venendo accusato perfino di essere il mandante dell’omicidio di una sua amante chiamata Rosa La Palermitana. Motivo per il quale, additato dal suo stesso scagnozzo, nonostante i privilegi goduti, dovette fare le valigie in quello stesso 1723, prima che il Vicerè di Napoli, il cardinale Tedesco Federico Althann, potesse imprigionarlo, dopo violenti litigi. Da qui la residenza stabile in Bologna dove il Principe di Avellino godeva di grande fama, trasferendosi a Palazzo Bentivoglio e circondandosi del lusso come nulla fosse accaduto. Anzi, altra festa memorabile, fu quella che si tenne alla nascita di Don Nicola, il secondogenito, il 17 (o 10) dicembre, battezzato dopo pranzo, il mercoledì successivo, nella Cappella del Palazzo, dal senatore Alamanno Isolani, a nome dell’eccellentissimo Cinfuegas, e dalla Marchesa Bentivogli Fontana, a nome del Marchese del Vasto. Da qui il regalo di 100 scudi romani alla Beata Vergine che si vuole dipinta da San Luca, facendo frabbricare quattro puttini d’argento per contentezza e grazia ottenute: uno per la Beata vergine del Loreto, uno per quella di San Luca, uno per la Vergine del Carmine e l’altro per San Pasquale Bailon. Una cosa dunque furono le accuse, altra i rapporti con Vienna, secondo alcuni cronisti, grazie anche all’elargizione di forti somme di danaro. Siamo al 6 gennaio 1725 quando l’imperatore d’Austria gli diede il posto richiesto e la nobiltà imperiale tutta gli fece visita a casa, al punto di superare felicemente il vaiolo che aveva contratto insieme al primogenito, ricambiando la visita di cortesia alle feste da ballo organizzate in casa Zinzi, Isolani e del Legato, mentre a rimetterci le penne, per il gioco dell’acquavite, era invece il Conte Filippo Scardinari. E riecco Principe, Principessa e Camerata ancora in viaggio, da Milano a Genova, per ritornare sempre a Bologna, per una luculliana cena alla Carlina o una serata alla Cavallina.24
Le spese erano abnormi. 20.000 scudi di qua, diamanti impegnati per 50.000 dall’altro lato: i soldi non bastavano mai per chiudere vecchie e nuove liti, fino al grande incarico ricevuto dalla Corte di Vienna del 3 gennaio 1726 con il titolo di Plenipotenziario sopra gli affari d’Italia della Maestà Sua, elevato dall’Imperatore in persona a Ministro Plenipotenziario in Italia il 23 marzo 1726. Soddisfazioni che si sbriciolarono alla morte della Principessa Giulia, il 5 agosto del 1726, e dello stesso Principe, avvenuta il 1 marzo 1727, quando si diede lettura dell’ultimo testamento fatto a Napoli dal notaio Colli. Senza la madre, Principessa Donna Antonia, nè il fratello, si diede lettura delle ultime volontà in cui si dichiarava erede universale il primogenito Duca, solo alla presenza del ragioniere di famiglia, Giovanni Antonio Conti, razionale della Casa d’Avellino, giunto più per riportare a casa Don Marino Francesco Maria Caracciolo Moderno d’Avellino che i preziosi rimasti. Ma anche per i piccoli, affidati per testamento al legato, si dovette attendere il suo consenso del 1 maggio 1730, quando ormai era divenuto cieco e non potè più far fronte alla volontà dell’estinto. Solo allora vennero traslati in Avellino anche i cadaveri dei principi, nell’ipogeo dei Principi Caracciolo-Rossi della Chiesa di Santa Maria del Carmine, il 28 febbraio del 1731.25
I Caracciolo erano punto di riferimento del Regno di Napoli, di padre in figlio. Il giovane primogenito Marino III Francesco Maria, figlio del Principe Francesco Marino II, sarà presto apprezzato anche dal Vaticano, fino a divenire ambasciatore straordinario di Papa Clemente XI. Ma il suo ritorno ad Avellino sarà sempre meno visibile, se non inutile, atteso che i pochi familiari rimasti abitavano nel Palazzo di Napoli e gli agenti delle tasse portavano i conti direttamente nella Capitale. I Caracciolo non si servivano già da tempo neppure di notai avellinesi, quindi le tracce si perdono nel Palazzo irpino abbandonato al suo destino. Il loro nome ricorre di riflesso solo in qualche atto fra quelli redatti dai notai avellinesi, conservato all’Archivio di Stato di Avellino, avendo demandato ogni compito feudale all’agente generale del feudo.26
Già dal 1726 sappiamo con certezza dal Catasto di Avellino che, in quella città, è erario, et agente dell’infrascritta Città d’Avellino, Don Domenico Sandulli, il quale, con particolare biglietto di Sua Eccellezza la Signora Principessa d’Avellino, viene chiamato anche nella causa dell’esecuzione del laudo [leggi: laudemio] promolgato à 30 ottobre dell’anno 1726 che à me infrascritto. L’occasione si ha per una controversia ereditaria in quanto è detto che in più sessioni e conferenze, che si sono tenute avanti di me dalle parti delli Signori Salzano à, Caso si è apprezzato che l’Eredità di Vincenzo Chivochi ascende di docati Mille e quindici dì presente, oltre le pretenzioni per la ricuperazione d’altri effetti. Beni di un così alto valore che vengono elencati nell’inventario che si fa seguire. Avellino non è una città ricca, ma i pochi benestanti non mancano. In più punti del protocollo del notaio vengono riportati atti che si riferiscono a famiglie facoltose, citandosi beni importanti, come l’Inventario dell’Oro: crocettina, anelli, diamantini, cannacchino con diecisette smirati e dieciotto diamanti, canacca di granate grosse vestita con pagliette d’oro, ed una smeraglia piccola d’oro… L’Inventario dei vestiti: di donna di damasco consistente in sottanello e manto, vestito di sponzalizio, etc. E’ l’Inventario, ò sia annotazione de beni esistentino nella casa del fu Dottore Don Francesco Muscati rimasti nella sua Eredità annotati, e descritti colla presente, ed intervento del R.Signor Don Carlo Antonio Muscati della Cattedrale di Conza che comincia con l’elenco degli argenti: una sotto coppa grande coll’impressa Muscati, e corona; una fruttiera di mediocre rotondità senza impressa; due candelieri piani senza impressa, ed una smiccia candela; nove cocchiari e dieci brocche, seu forcine con cinque maniche di cortello con lame per uso di tavola, una tamora ad uso d’acqua con veste di Zacrino. Del resto i notaio trascrivono con frequenza atti di compravendita, specie quelli di matrimonio, da cui si evince il valore di una dote, con o meno allegate lettere di chiarimenti e suppliche: Olimpia Iacenna, moglie di Natale Matarazzo della Città di Avellino in Principato Ultra, umilmente serviente di Vostra Eccellenza, con supplica espone come in tempo fu collocata in matrimonio con detto Natale dalli sui genitori; vi furono promessi, e poi consegnati, docati centrotrenta di dote, cioè docati venti di panni di lino, lana, ed oro lavorato, e poi docati centodieci sine fu assegnata una casa di tre stanze, con orto e largo avanti nel Casale della Valle di Mercogliano.27
Sono anni in cui, senza la presenza del signore, si rafforzano figure minori, necessarie alla Corte baronale, Principal, cioè principesca nel caso di Avellino, per la gestione del feudo. Non era più il padrone del feudo a servirsi del singolo, ma la struttura che era stata creata. Per chiarire le controversie, per esempio, l’erario Sandulli, a sua volta, aveva facoltà di nominare un suo uomo fidato come tavoliere, nella persona di Nicola di Gaudio: si fa fede da me sotto scritto Nicola di Gaudio della Città di Avellino Publico Tabulario come essendo stato eletto dal Signor Dottore Domenico Sandulli delegato della Causa che tengono l’Eredi del quondam Blasio Salzano e della quondam Chiara Pelosi= cò, il magnifico Nicola Caso per stimare et apprezzare, tre unite porzioni di casa site e poste nella pertinenza della suddetta Città detto alla Strada di S.Antuoni. Nel caso di Del Gaudio viene chiamato più volte dai Sandulli, divenendo un riferimento professionale, al punto da definirsi egli stesso Regio agrimensore, come attestano i verbali: si fà fede da me Sotto scritto Nicola di Gaudio della Città d’Avellino Reggio Agrimenzore come essendo stato eletto dal Magnifico Francesco Sandullo, da una parte e dall’altra, Ms. Salvatore Festa, ambedue di detta città. Nicola di Gaudio della Città di Avellino si dichiara in più atti Regio Agrimensore e Publico Tabolario nella causa per cui è stato chiamato da entrambi le parti, come nel caso di Bernardo Rosso e del fratello Nicola. Siamo in presenza di una doppia figura perchè si tratta di un ufficiale feudale, ma è evidente che ognuno possa chiamare il tavoliere che più gli aggrada, purchè di comune accordo fra le parti, perciò chiamato ‘pubblico’: Domenico Cesis fa fede che è Publico Tabolario come essendo stato eletto dall’una e dall’altra parte.28
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