29. S.AGNESE NEL 1754: PRINCIPATO ULTRA BENEVENTO. 69° Catasto Onciario del Regno di Napoli (REGALO DI NATALE)

29. S.AGNESE NEL 1754: PRINCIPATO ULTRA BENEVENTO. 69° Catasto Onciario del Regno di Napoli (REGALO DI NATALE)

Breve parentesi storica su Sant’Agnese

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Il casale di Sant’Agnese, oggi frazione di San Giorgio del Sannio, in passato fu uno dei molti casali di Montefusco <>40 , apprendiamo dal Ricca41 che già in epoca angioina era presente il casale di Sant’Agnese <> che viene definito feudo il cui possesso è antico <>.
Sempre dal Ricca veniamo a conoscenza che nel Cedolario del 1500 si tassò Marino di Sant’Agnese per detto casale di S. Agnese, da Marino il feudo passò al figlio Ferdinando, la cui madre Maria de Mari come tutrice pagò il rilevio alla Regia Corte. Ferdinando trapassò senza eredi e la sorella Ippolita ereditò il feudo di Sant’Agnese sui cui pagò il rilevio al fisco nel 1529.
Ippolita Sant’ Agnese portò in dote il feudo a Pietro Sellaroli , patrizio beneventano e così il feudo passò alla famiglia Sellaroli di generazione in generazione pagandone ogni volta il rilevio da Giovan Camillo, poi al figlio Tommaso fino a Fabrizio Sellaroli che ne pagò il rilevio nel 1609, successivamente per istanza dei creditori, il Tribunale del Sacro Regio Consiglio vendette il feudo di Sant’ Agnese a Camilla Griffo della città di Benevento, alla morte di quest’ultima nel 22 ottobre del 1656, il feudo passò a suo figlio primogenito Giovan Battista Sellaroli che soddisfece il rilevio del castello di Sant’Agnese. Il 1656 sarà ricordato come l’anno in cui si verificò una grave epidemia di peste che ebbe conseguenze devastanti sulla demografia e sull’economia, non solo nel Regno di Napoli ma anche in gran parte dell’Europa. Concentrandoci sul Principato Ultra, si registrò un significativo calo demografico stimato intorno al 40%. Sant’Agnese, ad esempio, vide una diminuzione dei fuochi da 24 a 17, mentre altri comuni più grandi come Apice subirono una riduzione del numero dei fuochi da 450 a 20942.
Ritornando alla storia del feudo di Sant’Agnese, Don Giovan Battista Sellaroli sposò Donna Giovanna Ventimiglia e dalla loro unione nacque Tommaso che ereditò il feudo nel 1658 ed aggiunse al suo cognome quello materno Ventimiglia. Il suddetto Tommaso acquistò da Giovan Battista Ludovisi Principe di Piombino erede dei Gesualdo antichi feudatari, i diritti di giurisdizione, lo scannaggio e la bagliva del casale di Sant’Agnese, l’atto di cessione fu stipulato dal notaio napoletano Domenico de Vivo, nel documento si menzionava la generosa donazione effettuata dal re Ferdinando il Cattolico al grande Capitano Consalvo di Cordova, comprendente Montefusco e i suoi casali, tra cui quello di Sant’Agnese. Con questa donazione, furono trasferiti anche tutti i diritti di giurisdizione pervenuti poi al principe Ludovisi.
Il figlio di Tommaso, Carlo Ventimiglia Sellaroli divenne primo barone di Sant’Agnese in forza di un decreto della Gran Corte della Vicaria del 22 ottobre del 1691, dopo di lui il feudo passò al primogenito Cesare nel 1723 e poi a Carlo II nel 1752 fino alla figlia Livia nel 1787 <>.
Dopo l’eversione della feudalità fu incorporata a Calvi fino al 1811, successivamente come ci dice il Meomartini43 <>.
PICCOLO DIZIONARIO DELL’ONCIARIO

Vengono qui chiariti alcuni termini che vengono citati nel libro, ovviamente per approfondimenti si rimanda alla letteratura specialistica di cui ho inserito qualche riferimento bibliografico.

Bagliva, Mastrodattia: con tutti questi termini si indicano dei corpi feudali ben precisi
relativi i diritti amministrativi del feudatario.
La “Bagliva” è un istituto feudale destinato all’amministrazione dei diritti del signore, comprendendo la riscossione di svariati tributi come quelli legati al macello, alla molitura e alla tintoria. Inizialmente, la gestione della Bagliva era affidata alla Regia Corte, ma successivamente fu concessa alle Università e ai feudatari. Secondo quanto afferma Raccioppi44 nei primi anni del XVII secolo, “quasi tutte le baglive sono già cedute o alle Università o ai baroni; i quali a libito loro concedono o affittano l’ufficio della bagliva ad uno o più affittatori”.
Nelle terre demaniali, la Bagliva era sotto il controllo dell’Università, mentre nelle terre infeudate veniva assegnata al barone. Quest’ultimo aveva la facoltà di appaltare la Bagliva, dietro compenso, sia all’Università che a terzi.
All’interno della Bagliva, troviamo l’istituto della mastrodattia, che consisteva nell’ufficio del mastrodatti o maestro di atti. Questa figura svolgeva il ruolo di funzionario responsabile della registrazione degli atti sia dell’Università che dei cittadini.

Adoa: L’imposta di carattere feudale, nota come “adohamentum”, rappresentava un tributo pagato al sovrano per gli aiuti militari, fissato come una percentuale fissa del reddito dell’Università. Nel caso specifico di Sant’Agnese, questa tassa era versata a Montefusco. In origine, il termine “adohamentum” indicava il pagamento in denaro richiesto al sovrano come alternativa all’invio di militi, offrendo quindi un’opzione per sottrarsi dall’obbligo di fornire soldati.

Censo enfiteutico: Molti istituti religiosi, come Chiese e Monasteri, detenevano estesi possedimenti che, essendo difficili da gestire direttamente, venivano concessi a privati in cambio di un affitto annuo. Approfittando dei vantaggi fiscali di cui godevano, questi istituti religiosi erano in grado di stabilire canoni molto favorevoli per i beneficiari che decidevano di prendere a censo tali terreni. Inoltre, grazie alla considerevole liquidità derivante dagli affitti, la Chiesa poteva offrire prestiti a tassi contenuti, consentendo ai censuari di investire in attrezzature, bestiame e attività commerciali45.

Prammatica: decreto con cui il sovrano di suo moto proprio o sentito il parere di un’adunanza di ministri regola l’amministrazione

Zita in capillis: ragazza in età da marito, probabilmente il termine era legato al modo con cui queste ragazze portavano i capelli

Rilevio: Il “rilevio feudale” è un termine che si riferisce al pagamento periodico che un vassallo o un feudatario doveva effettuare al signore feudale in cambio dell’uso e della protezione della terra o di altri privilegi concessi dal signore. In questo contesto si riferisce l’imposta pagata al Fisco per il subentro nel feudo.

Continua
12. RAVELLO NEL 1755 (edizione cartonata) EAN 9788872971635

12. RAVELLO NEL 1755 (edizione cartonata) EAN 9788872971635

Dalla Post-Prefazione del Prof. Luigi Buonocore

La Città di Ravello a metà del Settecento

A metà del Settecento Ravello doveva apparire un misterioso e solitario paese montano, emarginato e inaccessibile. Un processo di progressiva ruralizzazione aveva interessato l’antica Civitas che tuttavia conservava l’antica forma urbana, costituita da un nucleo centrale, contraddistinto da fabbriche religiose e domus aristocratiche, all’esterno del quale si estendevano una serie di casali. Oliveti di piccola pezzatura si distendevano sull’intero territorio ed in modo particolare nelle località del versante sud-orientale della città. Dal Petrito a Torello e da Civita e Marmorata, passando per località più vicine al mare come San Nicola a Bivaro, Sussiero e Casanova, gli ulivi verdeggianti dovevano disegnare i profili delle amene colline ravellesi. Negli stessi luoghi era praticata anche la coltivazione dei soscelleti (carrubi), spesso abbinati agli uliveti, la cui presenza è attestata soprattutto nelle zone prospicienti il mare come la Punta di Sant’Aniello e Castiglione. Un soscelleto era presente nella zona di Santa Catarinella a Civita, toponimo che rimanda all’antica chiesa di Santa Caterina già diruta nel 1577 e annessa alla parrocchia di Santa Maria del Lacco, così come era accaduto per le chiese di Sant’Agnello a Mare, San Giorgio alla Pendola, Santa Maria de Pumice, San Vito e SS. Salvatore di Sambuco. Ampie porzioni di territorio erano coperte da castagneti, a partire dallo sperone di Cimbrone, con le sottostanti grotte di Santa Barbara in cui si trovavano i resti della omonima chiesa, fino al monte su cui era stato edificato il castello di Fratta. Selve e boschi cedui cingevano il versante settentrionale nei siti di Monte Brusara, di San Pietro a Bucito, e Aqua di Scala o in altre località sul versante nord-orientale come Taversa e Sambuco, nota per la produzione di legname. Tra la vegetazione erano ancora visibili le torri e il tratto dell’antica cortina muraria del sistema difensivo settentrionale, ormai simbolico e privo di funzione. D’altra parte, agli inizi del secolo, la città era apparsa al vescovo Luigi Capuano priva di quelle mura di cinta che in passato avevano incarnato l’orgoglio di una città inespugnabile. Le Mura della Città sono menzionate nei pressi della località denominata Porta di Campo, verosimilmente riferita ad una cortina della fortificazione di Fratta. Il vigneto con frutti, spesso censito come vigna fruttata o vigna fruttata et vitata, dominava il paesaggio agrario. In alcuni casi viene annotata anche la presenza di case o vigne con bottaro e palmento a Torello o in località vicine come lo Pastino. I giardini dal carattere anche ornamentale, ad eccezione di quello vescovile, restavano una prerogativa dei personaggi più rappresentativi, come i nobili Girolamo D’Afflitto e Paolo Confalone nel rione Toro, o gli esponenti di un nuovo ceto borghese come il notaio Liborio Imperato nella Punta di Sant’Aniello e Nicola Pisacane a Sant’Agostino, che suggellavano la propria posizione sociale con l’elezione al Seggio dei Nobili o del Popolo. Senza tralasciare Matteo D’Afflitto, patrizio della Città di Scala ma nativo di questa Città di Ravello, che abitava in casa Rufolo con giardino sul quale pagava un censo perpetuo di dieci carlini annui alla Mensa Vescovile. A Marmorata, nella proprietà di Paolo Confalone, viene attestato l’unico esempio di giardino con frutti dolci che beneficiava di una irrigazione organizzata come si rileva dalla dicitura agri ad acquatorio, con peschiere alimentate dal canale dell’acqua proveniente dalla Pendola, riscontrabile anche nella platea vescovile risalente all’episcopato di Biagio Chiarelli. Poco distante era la zona di Bivàro, corrispondente all’attuale via per Zia Marta, nota in passato per la presenza di peschiere. Una sola volta sono menzionati i celsi piantati nel luogo di San Pietro alla Costa, e piedi di agrumi con fontana d’acqua sorgente dentro nel luogo detto Marmorata. E’ presumibile però che i gelsi e le piante di limone e cedrangolo, così come altre colture locali quali fichi, meli, peri e ciliegi, potessero essere comprese nella dicitura di giardino semplice o di vigna fruttata. Una parte del paesaggio agrario era pur sempre caratterizzata da zone sterili e pietrose. L’Università di Ravello, tra l’altro, possedeva la montagna demaniale in parte petrosa e sterile confinante con la montagna di Scala e denominata comunemente Demanio. Solo un’esigua porzione di terreni doveva essere adibita al pascolo, non meraviglia quindi che, tra gli abitanti, solo il bracciale Domenico Di Palma possedesse un gregge di pecore. Le proprietà agricole erano perlopiù parcellizzate in piccoli o medi possedimenti, misurati in giornate di zappa. Non mancavano fondi di grande estensione come due vigne fruttate a Cigliano e Sambuco o un terreno di soscelle, olive e fruttato a Civita pari a cinquanta giornate di lavoro. Le acque sorgenti sono attestate nelle località di Fontana Carosa, Marmorata e Sambuco. Tre cannelle delle sette dell’acqua Sabucana erano di Matteo D’Afflitto mentre non viene menzionato l’antico diritto di proprietà della mensa vescovile che in quegli anni, ad ore stabilite, concedeva l’acqua a diversi cittadini. Gli unici due molini sono attestati lungo i corsi d’acqua di Marmorata, ad est, e di Fiume, ad ovest. I frantoi, denominati trappeti, erano sette, uno dei quali si trovava nella diruta chiesa di Santa Maria a Lago sottostante Santo Cosimo. I nuclei familiari si distribuivano nei territori delle otto parrocchie cittadine. Oltre alla cattedrale erano chiese parrocchiali Santa Maria a Gradillo, San Giovanni del Toro, Santa Maria del Lacco, San Martino, San Pietro alla Costa, Sant’Andrea del Pendolo e San Michele Arcangelo a Torello. Nel luogo del Vescovado seu lo Seggio, in riferimento al Sedile dei Nobili che si riunivano in cattedrale presso la cappella del Santo Rosario, sono attestate perlopiù vigne con qualche casa e una bottega. Il Toro continuava ad essere il rione esclusivo della nobiltà dove si ergevano le aristocratiche magioni rivolte ad est verso i fondi di Gaimano e di San Bartolomeo. Nel catasto preonciario, redatto nel 1646, era stata documentata la presenza delle famiglie Bonito, Confalone, D’Afflitto, Frezza e De Fusco. Nel 1755 il censimento fiscale si è ridotto a soli tre capofuochi i magnifici Paolo Confalone, Girolamo D’Afflitto e Domenico Sasso, Patrizio di Scala che, tra l’altro, si era trasferito a Ravello solo nel 1747. Nel rione Toro sorgeva il palazzo vescovile in cui mons. Biagio Chiarelli aveva impiantato anche una celendra volta alla politura, alla manganatura e alla tintura dei panni di lana, attività già esercitata in città dal 1299 e interrotta con la peste del 1656. L’edificio era dotato di un giardino che consentiva un accesso diretto alla cattedrale, in quegli anni interessata dai lavori del rifacimento barocco non senza difficoltà se si considera che, nel 1755, le somme raccolte erano state integralmente spese senza che il sacro edificio potesse essere nuovamente officiabile. Alcune abitazioni con orti e vigne erano presenti anche nei pressi del Belvedere, l’antica roccaforte del sistema difensivo cittadino. Viene menzionata la sottostante Santa Margarita de’ Grisoni, il cui beneficiato era Don Domenico Romeo Napoletano, mentre non ci sono riferimenti alla vicina Porta Platee. Il luogo della Piazza Publica, l’attuale Piazza Fontana, sembrava aver conservato l’antica vocazione commerciale con la presenza di alcune botteghe di proprietà del magnifico Nicola Pisacane e del bottegaro Giuseppe Carrano, dimoranti in quella località che, per antica tradizione, accoglieva anche le adunanze dei Parlamenti Generali dell’Università. Il ricordo dell’antica chiesa di Sant’Adiutore era ancora presente se consideriamo che la casa di Don Giuseppe Giordano si trovava nella zona denominata Borgo di Sant’Adjutorio presso la Piazza publica. Nel Pianello, sotto l’antica porta de Grache, tra vigne e oliveti la chiesa di Sant’Angiolo dell’Ospedale seu li Frezzi conservava nella denominazione il ricordo dei fondatori. A poca distanza la località dove dicesi a la Marra mostrava un chiaro riferimento all’hospitium domorum Della Marra che già a partire dal Cinquecento appariva allo stato di rudere. A Santa Maria a Gradillo, Ponticeto e Pendolo si attestava il maggior numero di famiglie dell’antico centro urbano, all’interno del quale erano in funzione il Convento di San Francesco, cui erano passate le rendite del Convento di Sant’Agostino e del seminario, e i Monasteri di Santa Chiara e della SS. Trinità. All’estrema propaggine meridionale di Ravello il Cimbrone era abitato dalla Magnifica Isabella Sasso Del Verme, vedova del Patrizio di Ravello Pietro De Fusco. Sul versante orientale, al di fuori dell’antico perimetro urbano, i fuochi erano presenti a partire da lo Traglio, dove sorgeva la cappella di Sant’Agnello eretta da Gerolamo Manso, spesso richiamato in relazione al Monte per il maritaggio delle fanciulle bisognose. Lungo il declivio le abitazioni erano concentrate tra San Giovanni e San Pietro alla Costa in cui ritroviamo anche la località Cerasara, probabile riferimento alla presenza di giardini fruttati. Una sola abitazione è presente a Santo Cosimo, da cui si raggiungeva il vicino Petrito, e nella sottostante Santa Maria a Lago in cui si trovavano vigne e peschiere. A Torello, dove vengono menzionati i luoghi Sant’Angiolo, le Lenze e Masiello, viene censito il maggior numero di unità abitative, costituite da famiglie estese che potevano raggiungere i 17 componenti come nel caso del bracciale Aniello D’Amato. Alcune famiglie vivevano anche a Santa Croce e Santo Nicola al Càrpeno, ai confini di Minori, a lo Vallone e Sussiero sul versante di Marmorata. La vigna denominata lo Capitolo, ancora presente nella toponomastica del linguaggio comune, richiamava l’antica proprietà del Reverendo Capitolo della Cattedrale di Ravello. Proseguendo verso le zone interne sia a Casa Rossa che a Taversa viene censito un solo fuoco così come a Sambuco in cui erano le proprietà boschive del Venerabile Monistero di Santa Chiara a Sambuco piccolo e del forestiere non abitante Filippo Mezzacapo nelle località Riola, Sambuco Grande e Pontemena. Ai confini con Minori, nel territorio sovrastante la valle del torrente Reghinna Minor, tra boschi e castagneti, era presente la piccola chiesa di Santa Maria della Rotonda. Nella zona settentrionale i fuochi si distribuivano principalmente a San Martino e San Trifone con alcuni nuclei familiari a Monte Brusara. A San Trifone abitavano i fratelli Tommaso e Saverio Pisano, lavoranti di panettiere. L’attuale presenza in questa località di una via denominata Casa Pisani, riscontrabile almeno a partire dalla fine dell’Ottocento, potrebbe avere conservato la memoria dell’insediamento familiare. Lo Monte di Brusara, attraverso luoghi dai nomi suggestivi come Creta seu la Posa de lo Vescovo o il Passo de lo Lupo, si spingeva poi all’interno fino agli estremi confini settentrionali della città dove era l’Aqua di Scala. Gli indici demografici non sono particolarmente rilevanti per la zona prospiciente la Marina, ad eccezione della Ponta di Sant’Aniello dove abitava il notaio Liborio Imparato. Le uniche porte cittadine di cui si fa menzione, al fine di specificare le località delle proprietà censite, sono a nord Porta del Campo, Case Bianche seu Porta Penta, Porta del Lacco e ad est Portadonica, nei pressi della quale viveva il marinaio Mattia Palumbo con una famiglia estesa di 19 componenti. La vedova Teresa Fraulo viveva invece nella Torre della Santissima Annunciata che potrebbe verosimilmente essere una delle torri ancora oggi visibili lungo la cortina muraria orientale o una costruzione inglobata successivamente nelle abitazioni edificate nei pressi della porta di San Matteo del Pendolo. Le vie di comunicazione erano costituite da sentieri percorribili più agevolmente a dorso di mulo, un bene prezioso in considerazione della sua attitudine al trasporto. I numerosi toponimi ricordano anche chiese ormai dirute come Santa Maria a Lago (San Cosma), Santo Nicola a Càrpino (Torello), o famiglie che avevano avuto proprietà in determinate zone come Casa Pepe, (Torello), Casa Parere (San Pietro alla Costa) e Casa Fenice (Ponticeto). Scorriamo, pertanto, una lunga serie di denominazioni che ancora oggi identificano gran parte del territorio ravellese. Di alcune, purtroppo, si è perso l’uso comune o, peggio ancora, la memoria. L’analisi delle strutture abitative è solo descrittiva, senza alcuna rappresentazione grafica, e pertanto non può essere esaustiva. Le abitazioni vengono distinte in case proprie e case in affitto e sono descritte anche nelle strutture adiacenti come cortili e giardini. Gli immobili nella disponibilità del capofuoco potevano essere o meno gravati da censo, spesso dovuto a istituzioni religiosi o privati cittadini. Le abitazioni erano esenti da tasse mentre le rendite provenienti dalle case in affitto venivano tassate al netto delle spese di manutenzione o di riparazione, che in genere ammontavano ad un quarto del canone. A Ravello vengono censite solo cinque case palaziate, uniche testimoni dei fasti di una stirpe gentile che si erano poi dissolte nella generale decadenza delle periferie meridionali. Erano state edificate secondo i canoni della domus medievale ravellese, a più piani, con luoghi terranei, sale coperte a volta, accessibili attraverso un ambulacro e cucine. Queste ultime erano tradizionalmente poste nella zona superiore per consentire la dispersione dei fumi e degli odori ma potevano essere localizzate anche al pian terreno. Per quanto riguarda le abitazioni solo in alcuni casi si specifica la presenza di più stanze soprane o sottane. In genere, purtroppo, registriamo l’assenza di qualsiasi informazione in merito ai vani abitativi, a servizio non solo di famiglie formate da una coppia, con o senza figli, ma anche di famiglie estese ad altri membri del gruppo parentale. Questa circostanza però non deve indurci a credere che si potesse trattare di abitazioni di un solo vano, anche in considerazione del fatto che il fuoco poteva raggiungere un ragguardevole numero di componenti. Il cognome più diffuso è Manso, presente sull’intero territorio cittadino così come, in misura minore, Guerrasio, Coppola e Gambardella. Alcuni cognomi sono riconducibili a specifiche zone come di Palma, tra Costa e Torello, d’Amato, tra Pendolo e Torello mentre l’unico esponente della famiglia Cioffo, originario di Minori, viveva a San Martino. Numerosi sono i benefici ecclesiastici in capo a cappelle, chiese, congreghe ma anche a sacri edifici ormai diruti che tuttavia avevano conservato rendite e pesi. Piace addurre come esempio il beneficio della chiesa dedicata a Santa Maria delle Grazie e ai santi Gennaro e Michele nella località di Marmorata il cui beneficiato era il canonico tesoriere della cattedrale Don Lorenzo Risi. Eretta a spese del minorese Gennaro Manso e consacrata il 29 luglio 1751, come apprendiamo dall’atto notarile del Magnifico Notaro Luise D’Amato, la chiesa aveva una rendita costituita da una casa, oliveti e soscelleti con il peso di 25 carlini per le messe e 3 carlini per la visita del vescovo. Nel catasto sono elencati anche gli antichi diritti della mensa vescovile che a quei tempi fruttavano poco o nulla. L’episcopio possedeva lo jus della doganella, cioè il diritto su tutte le merci che si acquistavano e si vendevano, lo jus dello scannaggio, sul macello degli animali, lo jus fumatico sulle fornaci di calce della città che, stando ai dati, sarebbero a Sambuco, al Monte Brusara e a Lo Ietto nei pressi di Casa Rossa. Lo jus seu la decima sopra il pescato di Castiglione, dalla Marinella fino alle Fontanelle, rendeva poco e si era rivelato di difficile gestione alimentando una storia clamorosa di liti e scomuniche. C’è anche un riferimento al cattedratico, anticamente corrisposto al vescovo nel giorno della resurrezione e della nascita del Signore dal capitolo e dai parroci. Un tempo costituito da prosciutti a Pasqua e da capponi a Natale, veniva ricambiato con il “prandium de ipsis clericis”, offerto dal vescovo al capitolo e ai parroci della città il Giovedì Santo e nella solennità dell’Assunzione della Vergine Maria, titolare della cattedrale. Nel 1648, però, il capitolo aveva rinunciato al pranzo e da allora il cattedratico era stato pagato in denaro. Il catasto onciario di Ravello offre una serie di elementi utili alla ricostruzione del paesaggio e dell’urbanistica della Ravello settecentesca, riassunti in questa breve presentazione che potrà essere esplicitata in modo più analitico e integrata con le molteplici indicazioni di carattere socio-economico e demografico in esso contenute. Si tratta di una fonte preziosa da oggi accessibile ad un più vasto pubblico di studiosi e cultori della storia cittadina, con pagine inedite in cui ritrovare luoghi e persone dai nomi familiari e forse, non è da escludere, anche qualche frammento di storia personale.

Continua
12. RAVELLO NEL 1755

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Dalla Post-Prefazione del Prof. Luigi Buonocore

La Città di Ravello a metà del Settecento

A metà del Settecento Ravello doveva apparire un misterioso e solitario paese montano, emarginato e inaccessibile. Un processo di progressiva ruralizzazione aveva interessato l’antica Civitas che tuttavia conservava l’antica forma urbana, costituita da un nucleo centrale, contraddistinto da fabbriche religiose e domus aristocratiche, all’esterno del quale si estendevano una serie di casali. Oliveti di piccola pezzatura si distendevano sull’intero territorio ed in modo particolare nelle località del versante sud-orientale della città. Dal Petrito a Torello e da Civita e Marmorata, passando per località più vicine al mare come San Nicola a Bivaro, Sussiero e Casanova, gli ulivi verdeggianti dovevano disegnare i profili delle amene colline ravellesi. Negli stessi luoghi era praticata anche la coltivazione dei soscelleti (carrubi), spesso abbinati agli uliveti, la cui presenza è attestata soprattutto nelle zone prospicienti il mare come la Punta di Sant’Aniello e Castiglione. Un soscelleto era presente nella zona di Santa Catarinella a Civita, toponimo che rimanda all’antica chiesa di Santa Caterina già diruta nel 1577 e annessa alla parrocchia di Santa Maria del Lacco, così come era accaduto per le chiese di Sant’Agnello a Mare, San Giorgio alla Pendola, Santa Maria de Pumice, San Vito e SS. Salvatore di Sambuco. Ampie porzioni di territorio erano coperte da castagneti, a partire dallo sperone di Cimbrone, con le sottostanti grotte di Santa Barbara in cui si trovavano i resti della omonima chiesa, fino al monte su cui era stato edificato il castello di Fratta. Selve e boschi cedui cingevano il versante settentrionale nei siti di Monte Brusara, di San Pietro a Bucito, e Aqua di Scala o in altre località sul versante nord-orientale come Taversa e Sambuco, nota per la produzione di legname. Tra la vegetazione erano ancora visibili le torri e il tratto dell’antica cortina muraria del sistema difensivo settentrionale, ormai simbolico e privo di funzione. D’altra parte, agli inizi del secolo, la città era apparsa al vescovo Luigi Capuano priva di quelle mura di cinta che in passato avevano incarnato l’orgoglio di una città inespugnabile. Le Mura della Città sono menzionate nei pressi della località denominata Porta di Campo, verosimilmente riferita ad una cortina della fortificazione di Fratta. Il vigneto con frutti, spesso censito come vigna fruttata o vigna fruttata et vitata, dominava il paesaggio agrario. In alcuni casi viene annotata anche la presenza di case o vigne con bottaro e palmento a Torello o in località vicine come lo Pastino. I giardini dal carattere anche ornamentale, ad eccezione di quello vescovile, restavano una prerogativa dei personaggi più rappresentativi, come i nobili Girolamo D’Afflitto e Paolo Confalone nel rione Toro, o gli esponenti di un nuovo ceto borghese come il notaio Liborio Imperato nella Punta di Sant’Aniello e Nicola Pisacane a Sant’Agostino, che suggellavano la propria posizione sociale con l’elezione al Seggio dei Nobili o del Popolo. Senza tralasciare Matteo D’Afflitto, patrizio della Città di Scala ma nativo di questa Città di Ravello, che abitava in casa Rufolo con giardino sul quale pagava un censo perpetuo di dieci carlini annui alla Mensa Vescovile. A Marmorata, nella proprietà di Paolo Confalone, viene attestato l’unico esempio di giardino con frutti dolci che beneficiava di una irrigazione organizzata come si rileva dalla dicitura agri ad acquatorio, con peschiere alimentate dal canale dell’acqua proveniente dalla Pendola, riscontrabile anche nella platea vescovile risalente all’episcopato di Biagio Chiarelli. Poco distante era la zona di Bivàro, corrispondente all’attuale via per Zia Marta, nota in passato per la presenza di peschiere. Una sola volta sono menzionati i celsi piantati nel luogo di San Pietro alla Costa, e piedi di agrumi con fontana d’acqua sorgente dentro nel luogo detto Marmorata. E’ presumibile però che i gelsi e le piante di limone e cedrangolo, così come altre colture locali quali fichi, meli, peri e ciliegi, potessero essere comprese nella dicitura di giardino semplice o di vigna fruttata. Una parte del paesaggio agrario era pur sempre caratterizzata da zone sterili e pietrose. L’Università di Ravello, tra l’altro, possedeva la montagna demaniale in parte petrosa e sterile confinante con la montagna di Scala e denominata comunemente Demanio. Solo un’esigua porzione di terreni doveva essere adibita al pascolo, non meraviglia quindi che, tra gli abitanti, solo il bracciale Domenico Di Palma possedesse un gregge di pecore. Le proprietà agricole erano perlopiù parcellizzate in piccoli o medi possedimenti, misurati in giornate di zappa. Non mancavano fondi di grande estensione come due vigne fruttate a Cigliano e Sambuco o un terreno di soscelle, olive e fruttato a Civita pari a cinquanta giornate di lavoro. Le acque sorgenti sono attestate nelle località di Fontana Carosa, Marmorata e Sambuco. Tre cannelle delle sette dell’acqua Sabucana erano di Matteo D’Afflitto mentre non viene menzionato l’antico diritto di proprietà della mensa vescovile che in quegli anni, ad ore stabilite, concedeva l’acqua a diversi cittadini. Gli unici due molini sono attestati lungo i corsi d’acqua di Marmorata, ad est, e di Fiume, ad ovest. I frantoi, denominati trappeti, erano sette, uno dei quali si trovava nella diruta chiesa di Santa Maria a Lago sottostante Santo Cosimo. I nuclei familiari si distribuivano nei territori delle otto parrocchie cittadine. Oltre alla cattedrale erano chiese parrocchiali Santa Maria a Gradillo, San Giovanni del Toro, Santa Maria del Lacco, San Martino, San Pietro alla Costa, Sant’Andrea del Pendolo e San Michele Arcangelo a Torello. Nel luogo del Vescovado seu lo Seggio, in riferimento al Sedile dei Nobili che si riunivano in cattedrale presso la cappella del Santo Rosario, sono attestate perlopiù vigne con qualche casa e una bottega. Il Toro continuava ad essere il rione esclusivo della nobiltà dove si ergevano le aristocratiche magioni rivolte ad est verso i fondi di Gaimano e di San Bartolomeo. Nel catasto preonciario, redatto nel 1646, era stata documentata la presenza delle famiglie Bonito, Confalone, D’Afflitto, Frezza e De Fusco. Nel 1755 il censimento fiscale si è ridotto a soli tre capofuochi i magnifici Paolo Confalone, Girolamo D’Afflitto e Domenico Sasso, Patrizio di Scala che, tra l’altro, si era trasferito a Ravello solo nel 1747. Nel rione Toro sorgeva il palazzo vescovile in cui mons. Biagio Chiarelli aveva impiantato anche una celendra volta alla politura, alla manganatura e alla tintura dei panni di lana, attività già esercitata in città dal 1299 e interrotta con la peste del 1656. L’edificio era dotato di un giardino che consentiva un accesso diretto alla cattedrale, in quegli anni interessata dai lavori del rifacimento barocco non senza difficoltà se si considera che, nel 1755, le somme raccolte erano state integralmente spese senza che il sacro edificio potesse essere nuovamente officiabile. Alcune abitazioni con orti e vigne erano presenti anche nei pressi del Belvedere, l’antica roccaforte del sistema difensivo cittadino. Viene menzionata la sottostante Santa Margarita de’ Grisoni, il cui beneficiato era Don Domenico Romeo Napoletano, mentre non ci sono riferimenti alla vicina Porta Platee. Il luogo della Piazza Publica, l’attuale Piazza Fontana, sembrava aver conservato l’antica vocazione commerciale con la presenza di alcune botteghe di proprietà del magnifico Nicola Pisacane e del bottegaro Giuseppe Carrano, dimoranti in quella località che, per antica tradizione, accoglieva anche le adunanze dei Parlamenti Generali dell’Università. Il ricordo dell’antica chiesa di Sant’Adiutore era ancora presente se consideriamo che la casa di Don Giuseppe Giordano si trovava nella zona denominata Borgo di Sant’Adjutorio presso la Piazza publica. Nel Pianello, sotto l’antica porta de Grache, tra vigne e oliveti la chiesa di Sant’Angiolo dell’Ospedale seu li Frezzi conservava nella denominazione il ricordo dei fondatori. A poca distanza la località dove dicesi a la Marra mostrava un chiaro riferimento all’hospitium domorum Della Marra che già a partire dal Cinquecento appariva allo stato di rudere. A Santa Maria a Gradillo, Ponticeto e Pendolo si attestava il maggior numero di famiglie dell’antico centro urbano, all’interno del quale erano in funzione il Convento di San Francesco, cui erano passate le rendite del Convento di Sant’Agostino e del seminario, e i Monasteri di Santa Chiara e della SS. Trinità. All’estrema propaggine meridionale di Ravello il Cimbrone era abitato dalla Magnifica Isabella Sasso Del Verme, vedova del Patrizio di Ravello Pietro De Fusco. Sul versante orientale, al di fuori dell’antico perimetro urbano, i fuochi erano presenti a partire da lo Traglio, dove sorgeva la cappella di Sant’Agnello eretta da Gerolamo Manso, spesso richiamato in relazione al Monte per il maritaggio delle fanciulle bisognose. Lungo il declivio le abitazioni erano concentrate tra San Giovanni e San Pietro alla Costa in cui ritroviamo anche la località Cerasara, probabile riferimento alla presenza di giardini fruttati. Una sola abitazione è presente a Santo Cosimo, da cui si raggiungeva il vicino Petrito, e nella sottostante Santa Maria a Lago in cui si trovavano vigne e peschiere. A Torello, dove vengono menzionati i luoghi Sant’Angiolo, le Lenze e Masiello, viene censito il maggior numero di unità abitative, costituite da famiglie estese che potevano raggiungere i 17 componenti come nel caso del bracciale Aniello D’Amato. Alcune famiglie vivevano anche a Santa Croce e Santo Nicola al Càrpeno, ai confini di Minori, a lo Vallone e Sussiero sul versante di Marmorata. La vigna denominata lo Capitolo, ancora presente nella toponomastica del linguaggio comune, richiamava l’antica proprietà del Reverendo Capitolo della Cattedrale di Ravello. Proseguendo verso le zone interne sia a Casa Rossa che a Taversa viene censito un solo fuoco così come a Sambuco in cui erano le proprietà boschive del Venerabile Monistero di Santa Chiara a Sambuco piccolo e del forestiere non abitante Filippo Mezzacapo nelle località Riola, Sambuco Grande e Pontemena. Ai confini con Minori, nel territorio sovrastante la valle del torrente Reghinna Minor, tra boschi e castagneti, era presente la piccola chiesa di Santa Maria della Rotonda. Nella zona settentrionale i fuochi si distribuivano principalmente a San Martino e San Trifone con alcuni nuclei familiari a Monte Brusara. A San Trifone abitavano i fratelli Tommaso e Saverio Pisano, lavoranti di panettiere. L’attuale presenza in questa località di una via denominata Casa Pisani, riscontrabile almeno a partire dalla fine dell’Ottocento, potrebbe avere conservato la memoria dell’insediamento familiare. Lo Monte di Brusara, attraverso luoghi dai nomi suggestivi come Creta seu la Posa de lo Vescovo o il Passo de lo Lupo, si spingeva poi all’interno fino agli estremi confini settentrionali della città dove era l’Aqua di Scala. Gli indici demografici non sono particolarmente rilevanti per la zona prospiciente la Marina, ad eccezione della Ponta di Sant’Aniello dove abitava il notaio Liborio Imparato. Le uniche porte cittadine di cui si fa menzione, al fine di specificare le località delle proprietà censite, sono a nord Porta del Campo, Case Bianche seu Porta Penta, Porta del Lacco e ad est Portadonica, nei pressi della quale viveva il marinaio Mattia Palumbo con una famiglia estesa di 19 componenti. La vedova Teresa Fraulo viveva invece nella Torre della Santissima Annunciata che potrebbe verosimilmente essere una delle torri ancora oggi visibili lungo la cortina muraria orientale o una costruzione inglobata successivamente nelle abitazioni edificate nei pressi della porta di San Matteo del Pendolo. Le vie di comunicazione erano costituite da sentieri percorribili più agevolmente a dorso di mulo, un bene prezioso in considerazione della sua attitudine al trasporto. I numerosi toponimi ricordano anche chiese ormai dirute come Santa Maria a Lago (San Cosma), Santo Nicola a Càrpino (Torello), o famiglie che avevano avuto proprietà in determinate zone come Casa Pepe, (Torello), Casa Parere (San Pietro alla Costa) e Casa Fenice (Ponticeto). Scorriamo, pertanto, una lunga serie di denominazioni che ancora oggi identificano gran parte del territorio ravellese. Di alcune, purtroppo, si è perso l’uso comune o, peggio ancora, la memoria. L’analisi delle strutture abitative è solo descrittiva, senza alcuna rappresentazione grafica, e pertanto non può essere esaustiva. Le abitazioni vengono distinte in case proprie e case in affitto e sono descritte anche nelle strutture adiacenti come cortili e giardini. Gli immobili nella disponibilità del capofuoco potevano essere o meno gravati da censo, spesso dovuto a istituzioni religiosi o privati cittadini. Le abitazioni erano esenti da tasse mentre le rendite provenienti dalle case in affitto venivano tassate al netto delle spese di manutenzione o di riparazione, che in genere ammontavano ad un quarto del canone. A Ravello vengono censite solo cinque case palaziate, uniche testimoni dei fasti di una stirpe gentile che si erano poi dissolte nella generale decadenza delle periferie meridionali. Erano state edificate secondo i canoni della domus medievale ravellese, a più piani, con luoghi terranei, sale coperte a volta, accessibili attraverso un ambulacro e cucine. Queste ultime erano tradizionalmente poste nella zona superiore per consentire la dispersione dei fumi e degli odori ma potevano essere localizzate anche al pian terreno. Per quanto riguarda le abitazioni solo in alcuni casi si specifica la presenza di più stanze soprane o sottane. In genere, purtroppo, registriamo l’assenza di qualsiasi informazione in merito ai vani abitativi, a servizio non solo di famiglie formate da una coppia, con o senza figli, ma anche di famiglie estese ad altri membri del gruppo parentale. Questa circostanza però non deve indurci a credere che si potesse trattare di abitazioni di un solo vano, anche in considerazione del fatto che il fuoco poteva raggiungere un ragguardevole numero di componenti. Il cognome più diffuso è Manso, presente sull’intero territorio cittadino così come, in misura minore, Guerrasio, Coppola e Gambardella. Alcuni cognomi sono riconducibili a specifiche zone come di Palma, tra Costa e Torello, d’Amato, tra Pendolo e Torello mentre l’unico esponente della famiglia Cioffo, originario di Minori, viveva a San Martino. Numerosi sono i benefici ecclesiastici in capo a cappelle, chiese, congreghe ma anche a sacri edifici ormai diruti che tuttavia avevano conservato rendite e pesi. Piace addurre come esempio il beneficio della chiesa dedicata a Santa Maria delle Grazie e ai santi Gennaro e Michele nella località di Marmorata il cui beneficiato era il canonico tesoriere della cattedrale Don Lorenzo Risi. Eretta a spese del minorese Gennaro Manso e consacrata il 29 luglio 1751, come apprendiamo dall’atto notarile del Magnifico Notaro Luise D’Amato, la chiesa aveva una rendita costituita da una casa, oliveti e soscelleti con il peso di 25 carlini per le messe e 3 carlini per la visita del vescovo. Nel catasto sono elencati anche gli antichi diritti della mensa vescovile che a quei tempi fruttavano poco o nulla. L’episcopio possedeva lo jus della doganella, cioè il diritto su tutte le merci che si acquistavano e si vendevano, lo jus dello scannaggio, sul macello degli animali, lo jus fumatico sulle fornaci di calce della città che, stando ai dati, sarebbero a Sambuco, al Monte Brusara e a Lo Ietto nei pressi di Casa Rossa. Lo jus seu la decima sopra il pescato di Castiglione, dalla Marinella fino alle Fontanelle, rendeva poco e si era rivelato di difficile gestione alimentando una storia clamorosa di liti e scomuniche. C’è anche un riferimento al cattedratico, anticamente corrisposto al vescovo nel giorno della resurrezione e della nascita del Signore dal capitolo e dai parroci. Un tempo costituito da prosciutti a Pasqua e da capponi a Natale, veniva ricambiato con il “prandium de ipsis clericis”, offerto dal vescovo al capitolo e ai parroci della città il Giovedì Santo e nella solennità dell’Assunzione della Vergine Maria, titolare della cattedrale. Nel 1648, però, il capitolo aveva rinunciato al pranzo e da allora il cattedratico era stato pagato in denaro. Il catasto onciario di Ravello offre una serie di elementi utili alla ricostruzione del paesaggio e dell’urbanistica della Ravello settecentesca, riassunti in questa breve presentazione che potrà essere esplicitata in modo più analitico e integrata con le molteplici indicazioni di carattere socio-economico e demografico in esso contenute. Si tratta di una fonte preziosa da oggi accessibile ad un più vasto pubblico di studiosi e cultori della storia cittadina, con pagine inedite in cui ritrovare luoghi e persone dai nomi familiari e forse, non è da escludere, anche qualche frammento di storia personale.

Continua
ATTI DI NOTAI PUGLIESI. FRA OTRANTO E BARI, VENETI IN CAPITANATA, LA BASILICATA AI FRANCESI, S.VITO E LO SBARCO, CAROVIGNO E SERRANOVA NEL 1700, I DENTICE PADRONI DI OSTUNI E TRIESTE

ATTI DI NOTAI PUGLIESI. FRA OTRANTO E BARI, VENETI IN CAPITANATA, LA BASILICATA AI FRANCESI, S.VITO E LO SBARCO, CAROVIGNO E SERRANOVA NEL 1700, I DENTICE PADRONI DI OSTUNI E TRIESTE

ESTRATTO DALLA PRESENTAZIONE


Note capitoli

1. Marino Sanuto (1496-1533), I Diarii, dall’autografo Marciano Ital. cl. VII codd. CDXIX.CDLXXVII, a cura di R.Fulin-F.Stefani-N-Barozzi-G.Berchet-M.Allegri, La deputazione veneta di storia patria, Vol.I, pubblicato per cura di F.Stefani a spese degli editori, Venezia 1879. Così continua: “Pertanto, volendo farne qualche memoria, quivi, lassiato ogni altro ordine dil compore, sarà descripte tute le nove verissime venute. Et succincte, comenziando nel primo dil mexe di zenaro 1495, al costume nostro veneto, perfino che si vedrà la quiete de Italia, a Dio piacendo andarò descrivando: prometendo a li lectori, in altro tempo, havendo più ocio, in altra forma di parlare questo libro da mi sarà redutto; ma quivi per giornata farò mentione di quello se intendeva, comenciando da Alexandro pontifice romano sexto.
2.Antonello Coniger, Cronica. In: Giovanni Bernardino Tafuri: Annotazioni critiche del sig.Gio:Bernardino Tafuri patrizio della città di Nardò sopra le Cronache di M.Antonello Coniger leccese. In: Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, Tomo VIII, Appresso Cristoforo Zane, Venezia 1733. Pagg: 198-225.
3. Marino Sanuto, I Diarii, cit. Exempio de’ capitoli tra lo serenissimo signor Ferdinando Re di Napoli, heriedi et successori nel Regno, et lo illustrissimo dominio de Veniexia, a dì 21 dil mexe di zenaro M°CCCCLXXXXVI, more veneto 1495. V. AA.VV, Apice nella Riconquista Aragonese, ABE, Avellino 2011.
4. Marino Sanuto, I Diarii, dall’autografo Marciano Ital. cl. VII codd. CDXIX.CDLXXVII, a cura di R.Fulin-F.Stefani-N-Barozzi-G.Berchet-M.Allegri, La deputazione veneta di storia patria, Vol.I, pubblicato per cura di F.Stefani a spese degli editori, Venezia 1879.
5. Ivi, Copia de una lettera venuta di reame, data in Napoli a dì 28 zener predicto. De novo vi significho, chome se ritrovamo de qui a le bande di Puglia in uno locochiamato Doana, dove son molti animali e grosi e menudi a pascolare, che pasano più de octo milia duc. del fito del pascolo. E li homeni ubligati a pagar, dubitando de garbugli son in questa parte, hano tolto salvo conduto da li franzosi et etiam da Re Ferando, con questo pacto facto, che chi serà vincitore al tempo che se dà la paga, quelli habia a riscoder dicti fitti o sia dacio.
6. Ivi, sommario di febbraio. Così continua: El marchexe di Martina sarà con lui e Carlo di Sanguina, et le pratiche di l’acordo fonno tute fraudolente. El Re ha mandà uno secretario in Calavria chiamato Bernardino de Verna, perché li significhi le cosse di quella provintia. El messo dil turcho venuto al Re, fo mandà per el sanzacho de la Valona, per haver dil corpo dil fratello ch’è in Gaeta custodito da tre turchi. El Re ha mandà ditto messo al Principe, el qual messo pertende esser in Gaeta, ma non sarà lassato intrar. El signor Fabricio Colona va in Apruzo. Sarà con più di 200 homeni d’arme fra il Conte di Populo et altri. Et queste lettere zonse in questa terra per la via di Roma a dì 18 ditto”.
7. Antonello Coniger, Cronica. In: Giovanni Bernardino Tafuri: Annotazioni critiche del sig.Gio:Bernardino Tafuri, cit. Tafuri dice che Ferrante avesse precedentemente recuperato il Regno una prima volta il 7 luglio 1495, già aiutato da Ferdinando Re di Spagna e di Sicilia, come consta da una lettera del medesimo Ferdinando scritta al popolo di Brindisi, spedita da Avellino ai 13 febbraio 1496. La lettera intera del 13/2/1496 è in: Frate Andrea della Monaca, Memorie Istoriche di Brindisi, Libro 5, Cap.3; Ed. Ripubblicata come Memoria Historica dell’antichità della città di Brindisi, Lecce 1674, pag.593.
8. Ibidem. Aggiunge: Il 23 febbraio “el Re, si dice, è partito e condutosi a la Grota verso Puja, dove li nemici se drezano. El Turco vene per il corpo di Giem sultam, è stato a Gaeta con Beulchario, e mo è tornato qui per andarsene”.
9. Ivi, Lista di le terre pigliate in Calabria per don Consalvo Fernandes soprascripto.
Martorano. La Mota de la Porchia. Grimaldo abrusà per le galee. Cosenza con 366 casali. Castelfrancho. Rento over Renda. Montealto. La Frina over la Reina. Lo Trarcho. Terano. San Marcho. Visognano. Tarsia. Terranova.
De la parte de la marina di ponente.
Cormino de Napoli. Flumifredo. Santo Michileto over Lucido. Paula. Forealdo.La Guardia. Rugiano da la banda dil marcado. Rose. Acie. Locitano. Belveder. Ysoreta. Raycholi.
10. Ivi, Sumario di lettere di 6 ditto; dì 7 marzo; 8 ditto.
11. Ibidem
12. Ibidem
13. Ibidem. Così continua: “Habiamo esser stà facta la consignatione di Trani pacificamente. Questa nocte si partino le do galee per Civitavechia. Debeno esser a Baya. Partì etiam l’altro proveditor con il Cabriel sua conserva, et è restato a Pusilipo qui apresso per il tempo. Si dice questa sera come il Re con il legato diman sarano qui. El suo capelo gionse eri con pompa. S’è dito per via di Matorica, ch’è 16 dì che partì, come intese ivi per uno venia di Cartagena, come lì era la nave minor che va in Fiandra con vini, senza arboro”.
14. Ibidem
15. Ivi, sommario di marzo
16. Ibidem
17. Ibidem. Così continua nel medesimo giorno “A San Severo si trova Virginio Orsino, et al Guasto li viteleschi. Atendono a le doane. Hanno in opposito el signor don Cesare et Prospero Colona e, novamente mandato per el signor Re, el figlio dil signor di Camerino et messer Alvise da Capua con 100 homeni d’arme et 400 stratioti. In tuto poteno esser 330 in 350 homeni d’arme. El Re con l’exercito a Benivento, et li inimici ad Apice et nel convicino. La majestà sua conviene seguir la lhoro tracia”.
Il 24 marzo il Re è a Benevento, quando “si affirma la deliberatione di la lana per el pagamento di la doana, esser ordinata con questo che sia da rendere pagando, siché dicta lana verà ad essere per securtà di la corte, e così mi acerta domino Antonio di Jenaro suo ambasiatore a Venecia. Col signor don Cesare et il signor Prospero si trova bona gente da circa 400 homini d’arme, 1000 cavali lizieri computà li 400 stratioti et 1000 fanti. Se il marchexe venisse presto, tutte le cosse anderiano bene. El Re è a Bonivento”.
“Li viteleschi son mossi per esser in favor di Marzano. El Re manda el signor Fabritio et il Conte di Matalone al Principe per esser a l’incontro. Così le cosse vano variando di zorno in zorno. Li gripi, per li tempi, non sono zonti. Avanti eri ne morì 14 di li homeni di questa armata. El proveditore aspecta li danari per rimediare a tutto”.
18. Ivi, Sommario di marzo.
19. Antonello Coniger, Cronica. In: Giovanni Bernardino Tafuri: Annotazioni critiche del sig.Gio:Bernardino Tafuri, cit.
20. Ibidem. Così poco prima: – “El Principe di Salerno si condusse a Marzano con 100 et più homeni d’arme, et ha animo di conjunger quelle genti de lì con le altre. Al Principe di Altemura erano venuti docapi de’ sguizari con alcuni di lhoro, et si el Principe di Salerno non veneria, si partiranotutti. El proveditor sta di mala voja non venendo il pane. Questa matina fo a l’oficio a Santa Maria di la Nova dove era l’orator yspano, non però insieme, e, venendo il basar di la croxe, li frati si apresentò al proveditor dicendoli che andasse. Sua magnificencia disse che tochava a l’ambasador preditto, e cussì mandò a dir a l’ambasador, el qual li fé risponder che cominziasse. El proveditor remandò a replicar, et cussì l’andò, et poi el proveditor enbrazò l’ambasador dicto, che più non li havea parlato. E basata la croce, et nota fu el venere sancto, li disse dil partir dil marchexe di Roma, e li piaque e ritornorono a lochi lhoro”.
21. Ibidem. Lettera del 14 aprile.
22. Ibidem
23. Ibidem. V. AA.VV, Apice nella Riconquista Aragonese, ABE, Avellino 2011.
24. Ibidem. E così continua il Re al segretario: “Secretario nostro dilectissimo. Havemo havuto la vostra lettera de 14, et con grandissimo piacer inteso che lo illustrissimo signor marchexe sia arivato in la Grota, et se advicina con tanta presteza ad noi. Rengratiarete la signoria sua da nostra parte quanto più porete, et lo conforterete ad venirsene con tute le gente ad Asculi et lì fermarse, ateso che li inimici sono allogiati qui vicino ad tre miglia, et credimo seguirano lo camino lhoro di andar ad readunare et ricoperare la dohana. Et poria essere facessero pensiero voltar la via de là per Soto Candela, et però seria molto ad proposito che sua signoria si trove ad Asculi, dove haveriamo da fare testa grossa per rompere dicta doana a li inimici, quando faceseno tal disegno. Tuta volta, teneremo advisata la sua signoria di passo in passo de tuti i motivi farano dicti inimici, secondo loro anderano. Cussì ne porimo governar, et questo è lo parere nostro fin qua, benché el desiderio è grandissimo che havemo di vedere lo prefato signor marchexe, et ne pare omni hora mille anni fin che lo abraciamo.
25. Ibidem. Così ancora nella lettera di 7 april di Zuan Philippo da Ravenna: “El Principe ha facto intender al magnifico capitano et a mi, come li nimici erano andati a uno loco distante di qui 8 mia chiamato Bonalbergo, loco forte per la rocha et fede di homeni, et che non dubita ponto che possano in breve tempo expugnarlo che non possa esser socorso da nui, maxime zonzendo questa sera, come el tiene, la excelencia del marchese a Capua, donde, in doi dì o tre a la più longa, porà esser qui; ma che più tosto stima farano una demostratione, per veder se con terore potesseno haver quello loco. Per questo ne ha rechiesto che vogliamo mandare doi di nostri contestabeli a uno loco chiamato Padule, presso le Grote, acciò non seguise, per esser disfornito, qualche inconveniente. Et cussì, li havemo promesso di mandarli”.
26, Ivi, sommario delle lettere di aprile 1496. V. AA.VV, Apice nella Riconquista Aragonese, ABE, Avellino 2011.
27. Coniger, cit; in: Tafuri, cit.
28. M.Sanuto, I Diriaii, cit. Ibidem. Lettera del 14 aprile.
29 Ivi, Sumario di lettere di Zuam Philippo Aureliano colateral, date a Troja. “I nimici sono in campagna, alozati apresso Foza, da dì 15 fino al zorno presente. Nui siamo divisi. La majestà dil Re è a Foza; el Marchexe a Santa Agata; Bon Cesare e ’l signor Prospero Colonna a Nocera; alcuni altri condutieri a Troja. Nui provisionati divisi in tre parte, el capitano Francesco Grasso con Zuan da Feltre, Toso et Antonio di Fabri sono a Foza. Zuan da Feltre da l’Ochio è con il signor marchexe. Hironimo da Venecia e Paulo Basilio et io, siamo restati de mandato regio qui a custodia di questa terra. Stiamo mal cussì separati.
30. Ivi, Nocerae, die 22ª aprilis 1496. In medio litterae marchio Mantuae.Exemplum litterarum illustrissimi marchionis Mantuae ad Paulum Capello equitem oratorem scritta al Marchese di Mantova in quel di Lucera il 22 aprile 1496. Magnifice et generose orator. Heri sera joncto qui, judicando ritrovar la majestà regia, quella non havendo ritrovata, mi fo ditto li inimici haver arbandonata la dohana, et esserse andati fra San Severo, Procia et Ariano, et poi mi mandò il Conte de Merliano a dir come li stratioti haveano cavalcato, et erano stati ad ritrovar la preffata doana, la qual vete esser senza alcuna custodia de dicti inimici, et tolseno bona quantità de pecore, le qual ridusse a Fogia, non dice el numero, et per andar a tuor el resto, il magnifico proveditor era per cavalcar, il qual poi era restato, come per la alligata scriptami per la regia majestà vederà la magnificentia vostra, la qual ge mando, acciò del tutto la sia informata. Ben mi pare che questoro non sapino quello facino, et se confondino ne li ordini sui. Pur è stato ad proposito che dicti inimici habino arbandonata cussì dicta doana. Expecto hordine da la regia majestà, et secundo io haverò, ne darò noticia a la magnificentia vostra a la qual me ricomando, pregandola vogli participar il tutto con messer Phebus et quelli nostri, facendo el dichi al milanese che ’l vegni de qui con il fornimento de la mia camera, et dichi etiam ad Evangelista che ’l vegni qui, et menami fino quatro over cinque di mei cavali.
A tergo. Magnifico et generoso domino Paulo Capello equiti oratori veneto ad sacram regiam majestatem dessignato, tanquam fratri honorevolissimo. Noto come domino Phebo de Gonzaga suo cusino havia titolo marchionali copiarum siniscalcho generali. Exemplum litterarum comitis Philippi Rubei ad Hironimum Georgio equitem oratorem venetum in romana curia.
31. Ivi, Magnifice ac generose mi domine maior honorande. Per una comissione mi fu facta per parte dil illustre Principe di Altamura, andai a dare bataglia a dui casteli, uno chiamato l’Episcopo, l’altro Trajeto de Sancto Piero in Vinculo. Uno se rese d’acordo, et l’altro, che fu Trajeto, si have per forza de bataglia, con alquanti de li miei feriti e guasti. Altro non ho degno per vostra magnificentia, se no che:
“Lo illustrissimo signor marchese al presente se trova a Santa Agata.
La majestà dil Re se trova a Fogia, et li inimici alla Incoronata.
Et l’una e l’altra parte se hanno scoso de la doana.
Io me trovo a Benivento a obedientia.
Se altro acaderà de novo, farò lo debito mio inver de quella, de avisarla del tutto. A la quale humilmente mi ricomando. Ex Beniventi die 25ª aprilis 1496, subscriptio erat. E. M. V. servitor Philippus Maria de Rubeis comes Berceti ac armorum etc.
32. Ivi, Sumario di lettere dil proveditor Zorzi da Napoli, scrita ut supra: Il Conte Filippo di Rossi ancora stava a Benevento,“pur dovea passar in Apruzo. El dinaro assai ce fa guerra. Saria bona parte haver l’animo senciero de le cosse di ponente, che non se ne s
Scrive il provveditore Giorgi da Napoli: La Callabria quasi tuta se tiene per lo Re Ferdinando, et per Franza se tengono cercha sei bone cosse, che sono queste: Terazo, lo castello de Cossenza, Ariopoli et Oriopoli sino a Salerno, et poi verso lo contado de Marcone. Per franzosi se tiene Marcone et Santo Iorio, et da Salerno verso Napoli, tuto lo Stato del Principe de Bisignano se tene per lo signor Re Ferdinando.
La Puglia, la maiore parte sta per lo Re Ferdinando et quasi tuta. Vero che per franzosi se tene Taranto che è bona cossa, et simelmente la Montagna de Santo Angelo sta per Franza quasi tuta, et oltra de questo, San Severo, La Porcina, Bestice, che sono soto la montagna. Nel piano de Puglia di qua, pare stano per franzosi la Sera Capriola che è nel passo che hanno a fare le pecore che hanno ritornare in Abruzo.
Lo Abruzo quasi tuto sta per francesi. Per lo Re Ferdinando se tengono Agnone, lo contado de Cellano, Sernia, la Badia de Sancto Vincenzo, castello de Sanguino, et cussì Lanzano con alcune altre cosse. Lo signore Virginio Ursino sta a Santo Severo, et dicesse che, in tuto, fra lui et francesi che ultimamente sono calati in Puja non sono oltra 800 homeni d’arme et circa 5000 fanti, fra comandati, paesani et svizari, et fasse conto che, in tutto, sono cercha 8 o 9 milia persone.
La majestà dil Re Ferando sta a Nocera de Puja con 1200 homeni d’arme, cum lo marchexe de Mantoa et 800 stratioti, et circha 8000 fanti fra svizari, overo alemani et italiani. Dapoi serano tanto più numero per l’arivata de lo marchexe de Mantoa, quale partì da Benivento a dì 14 de lo presente mexe de aprile. Parte del stato dil Principe de Bisignano, dapoi partito el vice Re cum le sue zente, è tornato a la devotion de’ francesi etc.
33. Ivi, 27 aprile 1496, Lettera dil Zorzi proveditor
34. Ivi, 3 maggio 1496, Sumario di lettera di 3 mazo di Bernardo Contarini; ivi, Sumario di lettere di Polo Capelo cavalier orator, date a dì 3 mazo in Nocera; ivi, Lettera da Lucera, Lettera dil ditto de 5 in Nocera a l’orator in corte.
35. Ivi, Lettera dil ditto de 6 ditto, recevuto, qui a dì 17 mazo.
36. Ivi, Lettera dil dito, di 7, data ut supra, a dì 18 ditto.
37. Ivi, Littera di Bernardo Contarino a l’orator a Roma, data a dì 7 in Lucera.
38. Ivi, Copia di una lettera scritta a l’orator nostro a Roma per Zuan Philippo collateral, narra la presa di Vallata.
39. Ivi, Data ut in litteris, 7ª maji hora 12.ª Subscriptus servitor et compater.
Joh. Phil. Aurelianus. A tergo. Magnifico et clarissimo equiti domino Hironimo Georgio oratori etc.
40. Ivi, Sumario di lettera dil Ringiadori da Napoli, data a dì 8 mazo.
El signor Re dovea andar a la expugnatione di San Severo. El marchexe è andato in la Baronia de Flumene; doverà fare bona opera, e serà assai in proposito per le cosse di Terra di Lavoro. Li inimici sono a la volta di l’Abruzo, con fede hano pigliato e sachizato Coglionisi Terra di qualche conditione, ma non di farne caxo, salvo per chi ha patito. Si judicha volterano in Terra di Lavoro, e, senza dubio, necessità li ha conduti in l’Apruzo. El signor da Pexaro dimorerà in Terra di Lavoro, sì per intender dove si volterà il nimico, sì per la impresa di Gaeta. Si dice diman si partirà don Fedrico, e si spera farà fructo. Le artigliarie sono carichate, et fanti et ogni altra cossa necessaria.
È partita l’armata di la illustrissima Signoria, e si trova ad Pozuol.
Dio faza quel ajere conforti li amallati, che assà desturbano quella armata.
41. Ivi, Sumario di lettera dil Contarini in Nocera, a dì 9 detto. Aggiunge nella lettera scritta da Lucera: – Come habiamo saputo, quando Monpensier et el signor Virginio preseno li alemani, veneno per serar il Re in Fogia, et io fui causa di la victoria, et presi 27 homeni d’arme et recuperai le pecore a dì 22 april, et li desordenai in modo non si acostò a la terra, e con pocho honor si ritirò indriedo. Scrive come el marchexe have Montelione, come è scrito di sopra, castelo di fochi 250, mia 27 da Nocera (Lucera), situado su la via va a Napoli.
Fu in proposito per haver quella via più dreta et expedita.
42. Ivi, Lettera di 10 ditto dil Contarini pur in Nozera.
43. Ivi, Sumario di lettera dil dicto proveditor di stratioti a dì 11 mazo data. Segue la Littera dil Capello scrita al zorno soprascrito, in cui Narra el prender di la Rocheta per li colonesi per forza, tajato a pezi da homeni 25 erano dentro, computà 4 franzosi. Poi l’havevano arsa. Item, havia scrito a Napoli li fusse comprà uno pavion e una trabacha per ussir con la majestà dil Re in campo, el qual era lì.
44. Ivi, Littera dil ditto de’ 12 mazo, ricevuta a dì 22 ditto qui.
45. Ivi, Lettera di Polo Capelo data a dì 14 ditto in Nocera, e ricevuta qui a dì 27. 16 maggio 1496. A dì 16 mazo, scrisse come l’archiduca Philippo era gionto a Vormes, andava in Argentina, et che ’l Re li havia scripto vegnisse a Olmo.
Item, che quelli di la dieta di Berna, dove era Marco Bevazan secretario nostro, non erano contenti di franchi 2500, ma volevano franchi 8000 a l’anno. Noto chome el Re di romani, inteso che l’have la nuova di esser conduto che ’l vegni in Italia con il stipendio che ho scripto di sopra, con cavali 2000 et sguizari 4000, al corier portoe dita nuova a Augusta esso Re li fece donar ducati 25 in segno di averla molto a grata, et lo fece vestir, et rescrisse a la Signoria la littera di sopra posta.
Seguita altre nuove. In questo tempo, a Mantoa fo una egritudine molto cativa, adeo molti moriteno, chiamato mal di mazucho, et era quasi come morbo contagioso; ma pocho duroe. Pur assà mantoani moriteno in questo mexe. È da saper chome el pontifice, per dimostrar di ajutar etiam lui il Re Ferandino a recuperar il suo Regno, si offerse mandarli ogni mexe ducati 2 milia; ma mandoe solum li primi do mexi, et poi non mandò più. È da saper, che li danari che la Signoria nostra mandava in campo in reame, erano mandati a Roma, et da Roma a Napoli per lettere di cambio con interesso di do e meza per cento, e da Napoli in campo con interesso di una e meza per cento, siché [151] ogni ducati 100, havia di danno ducati 4. E poi non li haveano a tempo, et andavano mal securi se li se mandava in gropi: perhò nostri volentiera mandono le do fuste con Zenoa, chome ho scrito di sopra. Et etiam per mar Francesco Valier et la galia ystriana veneno di Napoli a Civitavechia per tuor alcuni danari che di Roma la Signoria mandava a Napoli, sì per subsidio di quella armata, come per li soldati.
46. Ivi, Littera di 18 da Nocera dil ditto, ricevuta qui a dì 28 mazo. Li inimici eri ebbe Petracatello castello fortissimo a pati, salvo l’aver e le persone, e tuto lo resto a sacho, el qual era ben fornito di fanti e in sito fortissimo. Da matina per tempo, il provedador di stratioti, con il signor Prospero Colona, cavalcha con li stratioti e ballestrieri e altri cavali lezieri a san Bartholamio, per conforto di quella terra e altri luoghi circumvicini, quali sono spaventadi per la perdita di Petrachatino. Diman il Re insirà in campo con il marchexe e tute altre zente. Farasse uno alozamento verso inimici mia 8. Si aspecta el signordi Pexaro.
Lettera di Bernardo Contarini a dì 19 ditto in Ongera. Sono stato occupato in far la mostra de li stratioti, et ho convenuto cavalcar a Troja a far la mostra di provisionati, i qual non ha voluto levarsi di Troja senza danari. Pagai li compagni vechi 450, poi 80 che son n.° 530. Manchò 120 nuovi, in tuto 650. In tuto serano provisionati 730. La majestà dil Re mi ha mandà a dir, et cussì il capitano nostro, che a dì 18, la matina, andar dovesse con tutti li stratioti e ballestrieri a cavalo, quanti se ne trova, a la volta di San Bartolamio de Gualdo vezino a li nimici mia 8, per favorir dicto loco. Io ho obedito, et a hora prima de dì monto a cavalo.
47. Ivi, Queste son altre nuove degne di memoria in ditto mexe… Successo di le cosse di reame seguite dil mexe di mazo, secondo varii sumarii di littere, primo di Hironimo Rengiadori da Napoli, di Bortolo Zorzi provedador di l’armata, di Polo Capelo cavalier, di Bernardo Contarini provedador di stratioti, di Zuan Philippo colateral, et del figliol del signor di Camarino, seguendo l’hordine di zorni…Sumario di lettere del Ringiadori date a dì 1° mazo in Napoli.
48. Ivi, Questi sono li anzuini presi a Lagno a dì 17 mazo da don Consalvo Fernandes capitano spagniul, Jacomo Conte et Conte di Matalon e altri baroni,videlicet, preso il borgo con tratato et questi. La qual nuova zonse in questa terra a dì 28 detto. El fratello del Principe de Bisignano. Lo signor Carlo di San Severino. Lo signor Alovise di San Severino. Lo Conte de Nicastro. Lo barone de Agete. Lo barone de Libunati. Lo barone del Casteleto. Lo barone de Castro Micho, Lorienzo d’Abruzo homo d’arme. Lo barone de li Morgerari. Jacobeto homo d’arme. Antonio de Laurino. Jacomo Molioto. Jacomo de Olivito. Petro d’Issa. Zuan Marin, con suo compagno. Bernardo Uriegio. Rao Ferrao. Antonio Ferrao. Antonello Ferrao. Pietro Paulo Quatromino. Jacomo Andrea de Monteforte. Luca Solimi. Colla monaco, et altri presi al numero 300.
Morti. Lo signor Mericho figliol dil Conte di Capazo. Antonio Castracane. Gasparo Feraro. Lo secretario del signor Merico et altri homeni d’arme n.° 200. Cavalli e cariazi n.° 400. Item, Francesco de’ Senesi governador dil stato dil Principe et capo di sij. Il Conte di Melito, Il Conte di Lauris, non si trovano.
Noto. Don Consalvo preditto, con 500 provisionati, 600 cavali et li marinari di l’armata, have la antescrita victoria.
Questi sono nomi di lochi in l’Abruzo acquistati per el Camerino e Jacomazo, per nome dil Re. Teramo. Atri. Civita Santo Angelo. Civitella. Lorio.

Note Capitolo III

1. Re Carlo scriveva al suo vicario del Principato essendo vacante la cappellania a lui spettante sulla chiesa di San Salvatore. Seguì Matteo Platamone, autore di un commento sul Carme di Pietro da Eboli, reggente di scuola medica salernitana in Napoli nel 1300. Nel 1567, a Santo Salvatore della Doana vecchia, si ordina al beneficiato Giulio Villano di ripararlo in quanto gia sta in atto de andare tutta a ruina et da vicini ne è stata fatta istanza che se ripari, per il pericolo che vi è di cascare et cascando rovinare gli edifici contigui. Nel 1616 il vescovo ordina di non celebrare più messa e di profanare la Cappella di San Salvatore de Dogana, nel territorio Parrocchiale dei Santi Dodici Apostoli, semplice beneficio di patronato Regio. Quello dei 12 S.Apostoli e di altre alla Marina, ex Commenda maltese di Capua, era uno dei quartieri più antichi di Salerno. Era raggruppato intorno alla Chiesa parrocchiale detta dei Dodici Santi Apostoli oppure, più semplicemente, come viene accennata nel Catasto settecentesco, solo Chiesa dei Santi Apostoli, quando la stessa parrocchia aveva perso vigore, contando solo due case di benestanti proprio fuori la chiesa.
I piani erano quasi chiari: Consalvo sarebbe passato col governo delle genti in Sicilia e, andando contro i Turchi a Cefalonia, si sarebbe congiunto con l’armata in Puglia visto che il fratello Don Alfonso, era già a Zante, mentre s’apparecchiavano le armi per l’autunno contro il Sultano e la sua armata turchesca.
E ancora in Grecia Consalvo si distinse durante la carestia, quando ordinò alle donne, le quali “non sapevano” come separare la farina dalla crusca, di levarsi i veli sottili dal capo e fabbricò “picciol forni nella riva per cuocere il pane; mentre che gli altri cocevano ne’ paiuoli il fromento pesto col lardo benchè nimico a’ corpi”.
Assoldati gli Svizzeri a Milano e una grossa armata a Genova i Francesi aspettavano solo la primavera per muovere guerra, mentre Consalvo tornava carico di doni veneziani, fra “vasi d’oro e d’argento intagliati, panni paonazzi di lana, e cremisi di seta, e molti broccali d’oro” (oltre a 10.000 ducati d’oro e dieci cavalli turchi), accolto a Messina come un re dagli ambasciatori giunti da tutta l’isola. Ancora più contento fu Re Federico, il quale, sperando in un aiuto, gli spedì spesso ambasciate.
L’apprestarsi dei Francesi, legatisi a Veneziani e Fiorentini, per la congiura del Papa e di suo figlio, poteva ritorcersi anche sulla Sicilia con un imminente assalto, ignorando la congiura del cugino con Luigi XII.
2. Consalvo era consapevole, ma avrebbe ubbidito solo alla Corona di Castiglia, affinchè “non paresse che egli mancasse di fede al Re suo Signore, il cui animo per certe offese alienato Federigo s’haveva concitato contra”, convinto che Ferdinando Il Cattolico, nella sua vita, aveva trattato con Re Luigi la pace solo in cambio dell’annuo tributo, avendo difeso con le ricchezze della Sicilia il Regno di Napoli conquistato a suo tempo dallo zio Alfonso. Dalle quattro ex province angioine erano nate le due sottoprovince di Basilicata e di Terre di Bari), rette dalle Cortes provinciali dei Vicerè Catalani d’Aragona e non più dagli originari Mastri Portulani. In passato si erano cioè avuti un Vicerè per l’Abruzzo (vedi Bartolomeo III di Capua), un Vicerè in Terra di Lavoro e Molise, un Vicerè in Terra d’Otranto, un Vicerè per le Calabrie esistente da tempo immemore. Si racconta che Re Alfonso d’Aragona avesse scippato il Regno agli Angioini proprio ad un capitano, Antonio Ventimiglia Conte e Centeglia “creato suo Vicerè nelle Calabrie” per aver condotto all’obbedienza la città di Cosenza, i Casali e Grimaldo.
3. A.Della Monica, Memoria istorica…, cit., pag.605 e segg. “Fatto questo secreto concerto, il Francese fù il primo ad entrar nel Regno con esercito di mille lancie, diece mila cavalli, e con buon numero d’artigliarie, come dice il Guicciardino. La prima città, che combatterono fù Capua, della quale impadronendosene à forza d’armi con grandissima crudeltà la sacchegiorono, usando mille dishonestà, e violenze, il che diede tanto spavento alle Terre convicine, che quasi tutte alzaro le bandiere di Francia. Il misero Rè Federico riscorse per agiuto, come diansi haveva fatto, all’istesso Rè Cattolico suo parente, il quale dissimulando, mandò di nuovo Consalvo di Cordova chiamato il gran Capitano, ma con l’intento contrario, che se la prima volta andò per discacciare dal Regno i Francesi in favor degli Aragonesi, questa seconda volta vi mandò à discacciar gl’Aragonesi in favor de’ Francesi”.
4. Gli aiuti di Consalvo a Gaeta non arrivavano mai, sebbene il Re continuasse a donargli i castelli calabresi che chiedeva in cambio, nella speranza di poter presto avere un forte esercito per respingere i Francesi ed evitare l’assedio accaduto al nipote ai tempi di Carlo. Federico si fermò quindi a San Germano, attendendo inutilmente i fratelli Colonna, mentre Spagnoli e Francesi mettevano le mani sul trono di Napoli sbarcando sulle coste e celando, gli uni agli altri, la volontà di volersi appropriare delle conquiste altrui. Fu così che Luigi XII si impossessò della “sua” metà del Regno di Napoli (1501-1503) senza neppure dichiarare guerra ai Catalani Aragonesi, quanto ai baroni più testardi. Consalvo, dal canto suo, si era portato da Messina a Reggio per prendere la Calabria e aveva mandato a dire a Federico che rompeva i patti di sudditanza, rinunciando all’Abruzzo e Monte S.Angelo che gli aveva donato. Federico, ancora più signorilmente, rispose che gli rinnovava l’atto. Questo significava che i Francesi avrebbero dovuto togliere l’Abruzzo a Consalvo, il quale, restituiva ai Sanseverino e a Bernardino Principe di Bisignano i loro castelli. I Francesi attaccarono dal Garigliano con 15.000 uomini al comando di Robert Stuart signore d’Aubigny, affiancato dall’allora Cardinale e Legato Pontificio Cesare Borgia e Galeazzo Sanseverino Conte di Caiazzo, sempre con Napoli, la Terra di Lavoro, il Ducato di Benevento e l’Abruzzo sulla carta; mappa che invece assegnava al Cattolico la Calabria, la Basilicata, la Puglia e Terra d’Otranto. Per giungere su Capua, nell’estate del 1501, occuparono il Castello di Calvi, ma si ritrovarono proprio il figlio del fu Conte di Mignano, ch’essi avevano ucciso nel precedente assedio, a difendere la città. Fu infatti Ettore Ferramosca, posto a difesa del castello, a mostrare il suo valore, mettendo in fuga il nemico, sebbene ciò non servì a salvare la città. Infatti, caduta la difesa di Capua, e uccisi i Conti di Palena e di Marciano, vennero catturati sia il comandante Fabrizio Colonna e Ugo Cardona, che Guido ed Ettore Ferramosca, capitano di ventura piccolo di corpo, ma di animo grande e forza meravigliosa, tipico esempio di coraggio personale e di valoroso soldato, fu tradito da Cesare Borgia. Con i loro soldi, per la gioia di Consalvo, l’intera famiglia dei Colonnesi era dalla sua parte, quando seppe che, pagato il riscatto per la prigione, Fabrizio e Prospero si erano allineati alle idee del fratello Cardinale Giovanni, già da tempo in Sicilia, vittima anch’egli della cacciata da Roma operata da Borgia. Ora erano tutti nemici dichiarati del Papa.
5. Alfonso Ulloa, Vita dell’invittissimo, e sacratissimo imperator Carlo V, III ed., Vincenzo Valgrisio, Venetia 1566 (anni 1500-1560), pag.16v e pagg.26-29.
6. Alfonso Ulloa, Vita dell’invittissimo, e sacratissimo imperator Carlo V, III ed., Vincenzo Valgrisio, Venetia 1566 (anni 1500-1560), pag.16v e pagg.26-29.
7. La vita di Consalvo Ferrando di Cordova detto il Gran Capitano, scritta per Monsignor Paolo Giovio Vescovo di Nocera, & tradotta per M.Lodovico Domenichi, Lorenzo Torrentino, Fiorenza 1552. Per la cronologia storica sono stati altresì utilizzati elementi provenienti da fonti francesi e napoletane, come da note.
8. Geronimo Curita, Historia del Rey Don Hernando el Catholico, Domingo de Portonarijs, Saragozza 1580, pag.218-220. Questo accadde perchè quando entrarono gli eserciti in Puglia si prospettò la nuova difficoltà solo sul campo fra baroni che alzavano bandiera francese e altri che inneggiavano agli spagnoli sostenendo, gli uni e gli altri, di appartenere alla medesima provincia. Pertanto, non avendo copia dell’accordo deciso fra i due Re, per non pregiudicare nessuna delle parti, decisero di seguire un ordine, che fu quello di far alzare bandiera spagnola anche a quei castelli che avevano pensato di alzare bandiera francese, senza avanzare pretese da nessuna delle parti. Questo sebbene, secondo gli Spagnoli, ricadessero fra le loro quattro province e che quindi dovessero abbassarla. Fu quindi creata una specie di zona franca nella zona di confine, chiamata provincia di Capitanata, i cui i castelli avrebbero alzato ambedue le bandiere, nonostante che il luogotenente generale di Francia, Luigi Palau, cercò di dimostrare che per diverse ragioni la Capitanata era la verdadera Puglia. Ad ogni modo pretese che si considerasse provincia separata e che era meglio accordarsi affinché le cose di quello stato provinciale si sarebbero governate da commissari di ambedue i Re, dividendo in parti uguali le rendite. Il problema è che i Francesi mostravano interessi economici per ragione di riscossione della Dogana dei ganado, volgarmente detta delle Pecore, che si faceva in Capitanata. Per questo motivo si decise di dare al Re di Francia (per mano di un di lui commissario), allo scadere del primo anno, la metà delle entrate dell’annualità detta Dogana delle Pecore spettante al Re Cattolico (per mano di un proprio commissario) che si sarebbe riscossa nella Capitanata che a questo punto andava staccata dalla Puglia lasciandovi solo Otranto e Bari. A questo punto Luigi Palau se ne andò dopo aver accettato e deciso per la nomina di due commisari in comune che facessero alzare le bandiere di entrambi i Re in quelle quattro province, sebbene l’intenzione dei francesi era comunque quella di occuparle tutte.
9.Geronimo Curita, Historia del Rey Don Hernando el Catholico, Domingo de Portonarijs, Saragozza 1580, pag.218-220. Cioé quella que se estiende desde el rio Fertoro, hasta el rio Aufido e che si chiamò Capitanata, desde el tiempo de los Griegos, y Normandos: y lo que antiguamente integrava la Calabria. Quindi Calabria restò tutta quella regione che includeva la marina di Baroli, Trana, Molfetta, Iuvenazo, y Monopoli, que era de la antigua, y verdadera Calabria, che poi fece capo al quella ciudad que llamaron Bario che ancora allora si chiamava Bari, il cui territorio dal mare continuava fino ai luoghi montagnosi che in origine furono abitati da Lucani, Apuli e mantenuti dai governatori del Imperio Griego Basilicata. In essa si includevano perfino Taranto e Brindisi, nell’area che poi prese nome de Hydrunto, che era il luogo principale della Terra di Otranto. L’antica Calabria stava quindi ben distinta, separata e lontano dall’attuale Calabria che per la maggior parte della sua estensione era abitata dai Bruzi. Quindi la Capitanata integrava la Calabria di Bari e la Calabria si chiamava Bruzio di Cosenza. Nella ripartizione che fecero i due Re non si tennero in considerazione i nomi antichi delle regioni (in parte ancora esistenti sotto gli angioini fino al terremoto del 1348), ma ci si riferì all’ultima divisione politica delle province sotto Federico I.
10. Geronimo Curita, Historia del Rey Don Hernando el Catholico, Domingo de Portonarijs, Saragozza 1580, pag.218-220.
11. Geronimo Curita, Historia del Rey Don Hernando el Catholico, Domingo de Portonarijs, Saragozza 1580, pag.218-220
12. La vita di Consalvo Ferrando di Cordova detto il Gran Capitano, scritta per Monsignor Paolo Giovio Vescovo di Nocera, & tradotta per M.Lodovico Domenichi, Lorenzo Torrentino, Fiorenza 1552. Per la cronologia storica sono stati altresì utilizzati elementi provenienti da fonti francesi e napoletane, come da note.
13. La vita di Consalvo Ferrando di Cordova detto il Gran Capitano, scritta per Monsignor Paolo Giovio Vescovo di Nocera, & tradotta per M.Lodovico Domenichi, Lorenzo Torrentino, Fiorenza 1552.
14. Alfonso Ulloa, Vita dell’invittissimo, e sacratissimo imperator Carlo V, III ed., Vincenzo Valgrisio, Venetia 1566 (anni 1500-1560), pag.16v e pagg.26-29.
15. Geronimo Curita, Historia del Rey Don Hernando el Catholico, Domingo de Portonarijs, Saragozza 1580, pag.253-254.
16. AA.VV, Capitani di Ventura 1458-1503, ABE, Avellino 2006.Cfr. Paolo Giovio, La vita di Consalvo Ferrando di Cordova, Torrentino, Firenze 1552.
17.Geronimo Curita, Historia del Rey Don Hernando el Catholico, Domingo de Portonarijs, Saragozza 1580, pag.253-254.
18. ASAV, Protocolli notarili di Ariano Irpino, b.78, Notaio Angelo Tantaro, anni 1501-1507, f.235 e segg.
19. ASAV, Protocolli notarili di Ariano Irpino, b.78, Notaio Angelo Tantaro, anni 1501-1507, p.50 r. e v.
20. ASAV, Protocolli notarili di Ariano Irpino, b.78, Notaio Angelo Tantaro, anni 1501-1507, p.50 r. e v., frontespizio. D’improvviso comincia a parlare anche di Semiramis uxor Nini fuit prima inventrix braca rum, cioé di Semiramide moglie di Nino, I Re di Babilonia al tempo di Abramo, che fu la prima inventrice dei pantaloni. Poi insiste con Sam fuit filius Noé qui postanam eccepit sacerdotium mutavit nome et dictus est Melchisedech, quel Sem sul Nilo, figlio di Noé, che divenne sacerdote Melchisede. Ed ancora si rifà alle imprecazioni: – Emendamus inutilius quo ingnorantia peccavimus si subito preoccupati dum mortis queramus spatium penitentie et invenire non possum.Poi lascia la penna di filosofo latino e abbraccia quella del poeta volgare e patriottico, quasi scimmiottando il Petrarca, anzi a lui assomigliando in questo sonetto inedito proveniente dal medesimo rogito dell’Archivio di Stato di Avellino. Al foglio 294v, siamo nel solito rogito arianese, in ultima pagina, il notaio Tartaro stavolta si diverte a riportare un sonetto che stavolta cita chiaramente, essendo tratto dal Salutario Francisci Petrarce de studio, ma, guarda caso, è ancora una invocazione patriottica, il Redrentus ad Laudem Italie, che è il sonetto trecentesco conosciuto come Ad Italiam. In altra pagina trascrive proprio un sonetto del Petrarca. ASAV, Protocolli notarili di Ariano Irpino, b.78, Notaio Angelo Tantaro, anni 1501-1507, Al f.294v. Il sonetto e una trascrizione tratta da Petrarca Francesco Petrarca, XXII, AD ITALIAM [III, 24]. E’ totalmente in latino: Salve, cara Deo tellus sanctissima, salve / tellus tuta bonis, tellus metuenda superbis, / tellus nobilibus multum generosior oris, / fertilior cuntis, terra formosior omni, / cincta mari gemino, famoso splendida monte, / armorum legumque eadem veneranda sacrarum… lui…paratis / Pyeridumque domus auroque opulenta virisque, / cuius ad eximios ars et natura favores / incubuere simul mundoque dedere magistram. / Ad te nunc cupide post tempora longa revertor / incola perpetuus: tu diversoria vite / grata dabis fesse, tu quantam pallida tandem / membra tegant prestabis humum. Te letus ab alto / Italiam video frondentis colle Gebenne. / Nubila post tergum remanent; ferit ora serenus / spiritus et blandis assurgens motibus aer / excipit. Agnosco patriam gaudensque saluto: / Salve, pulcra parens, terrarum gloria, salve.
21. ASAV, Protocolli notarili di Ariano Irpino, b.78, Notaio Angelo Tantaro, anni 1501-1507, p.50 r. e v., frontespizio. V. passo: “L’illustrissimo pranzò e partì da Rohano in lectica accompagnato da Massimiliano Sforza detto il Moro già duca di Milano”. In: Itinerario di monsignor reverendissimo et illustrissimo il cardinale de Aragona mio signor incominciato da la cita de Ferrara nel anno del Salvatore MDXVII del mese di maggio et descritto per me donno Antonio de Beatis canonico Melfictano con ogni possibile diligentia et fede. Maggio 1517.
Il sonetto è di grande importanza perché mostra come sia avvertita ad Ariano, ex dipendenza salernitana, la voglia di libertà, essendo il popolo ormai stanco delle continue guerre in cui era stato coinvolto, ma con la solita voglia di riscatto. Il sonetto però non pare inneggiare alla sola libertà del Regno, quanto a quella dell’intera Italia, proprio come nel Trecento e nel Qauttrocento. Da qui l’ipotesi avanzata che non fosse farina del suo sacco. Ad ogni modo è onorevole che questa trascrizione, autografa o copiata, si ritrovi comunque ad essere inedita e trascritta dal notaio di Ariano. Nella sostanza si sprona il Moro Duca di Milano ad abbracciare le armi per difendere l’Italia dall’invasore spagnolo, per farlo ravvedere rispetto all’idea di esiliare a suo tempo Re Alfonso d’Aragona sostenuto dagli Sforza, giudicando indegno Re Ludovico di Francia, sostenendo che presto si sarebbero pentiti tutti. Marco, il Re di Spagna, l’Imperatore: si non si avede ognun essir fallito perché in Italia è intrato un firo basilisco. Da qui l’esortazione ad aprire le porte per far entrare chi nuovamente è partito per liberare l’Italia (l’ex Duca di Milano Massimiliano Sforza, nel 1517 era detto Il Moro).
22. Alfonso Ulloa, Vita dell’invittissimo, e sacratissimo imperator Carlo V, III ed., Vincenzo Valgrisio, cit.
23. ASAV, Protocolli notarili di Ariano Irpino, b.78, Notaio Angelo Tantaro, anni 1501-1507, f.235 e segg.
24.Alfonso Ulloa, Vita dell’invittissimo, e sacratissimo imperator Carlo V, cit.
25. G. Coniglio, I vicerè spagnoli di Napoli, Napoli, Fiorentino 1967.
26. Geronimo Curita, Historia del Rey Don Hernando el Catholico, Domingo de Portonarijs, Saragozza 1580, pag.270-271.
27. La vita di Consalvo Ferrando di Cordova detto il Gran Capitano, scritta per Monsignor P.Giovio Vescovo di Nocera, & tradotta per M.Lodovico Domenichi, L.Torrentino, Fiorenza 1552.

1. Andriani, Memorie.
2. Balsamo, Diritti.
3. Andriani, Memorie.
4. Da: Il Giornale del Regno delle Due Sicilie, n.220, 11 ottobre 1841.
5. Andriani, Memorie.
6. Cavallo, Memoria.

1. B.Croce, cit.; Cardami, cit.; Giannone, Storia.
2. Andriani, cit.
3. Archivio Comunale di Carovigno.
4. ASNA, Archivio di Stato di Napoli, 1464.
5. ASNA, cit., Commune Summ., 25.
6. CDB, Codice Diplomatico di Bari, 1481.
7. CDB, cit., 1482.
8. Coniger, Cronaca.
9. Spennati, 1569.
10. Spennati, 1569.
11. Marchese, De nobilium.
12. Andriani, Carbina.
13. Ivi.
14. Ivi.
15. Ivi.
16. Montorio, Lo Zodiaco di Maria.

Continua
69. ATRANI NEL 1754. 67° volume Catasti Onciari del Regno di Napoli sulla genealogia della Costiera Amalfitana. 13° numero sui cognomi del Principato Citra di Salerno in Costa d’Amalfi ISBN 9788872974575

69. ATRANI NEL 1754. 67° volume Catasti Onciari del Regno di Napoli sulla genealogia della Costiera Amalfitana. 13° numero sui cognomi del Principato Citra di Salerno in Costa d’Amalfi ISBN 9788872974575

La ricerca storica e genealogica è una materia che mi ha sempre affascinato. Credo non ci sia cosa più appagante che scavare, come un archeologo fa con il territorio, nelle proprie radici familiari e, spesso, non mancano sorprese, ritrovamenti inaspettati, persone e storie che raffiorano in superficie. Non sempre, però, si riesce ad andare a ritroso e, come un sentiero irto di rovi, possono esserci ostacoli lungo il percorso: ostacoli burocratici, documenti andati perduti, danneggiati, omonimie o errori anagrafici che, ahimè, un tempo erano molto frequenti. Ma posso affermare che la pazienza e la sagacia, nel tempo, ripagano sempre come, peraltro, mi è spesso successo nelle mie ricerche genealogiche. Come rivela il cognome che porto, e come scoprirete leggendo le pagine di questo libro, ho origini atranesi da parte paterna. Il cognome Proto era, ed è ancora oggi, se non il primo tra i primi tre cognomi più diffusi nella piccola Atrani. Mio padre nacque ad Atrani, così come suo padre e il padre di suo padre sino ad arrivare al mio avo Crescenzo Proto, citato nel Catasto Onciario del 1754, un marinaio di 45 anni. Da ciò che ho potuto scoprire nelle mie ricerche, tutti i miei avi atranesi, giungendo fino al mio bisnonno (vissuto nei primi decenni del ‘900), furono marinai o “barcaioli”. Io che sono nato in città, Salerno, ricordo con piacere quando da bambino, durante le stagioni estive, i miei familiari mi portavano a trascorrere del tempo, in villeggiatura, ad Atrani. E ho sempre sentito, e sento tutt’oggi, che quel borgo un pò mi appartiene. Ed Atrani è sempre rimasta la stessa, così com’era nel 1754 così è oggi, un piccolo borgo marinaro adiacente la ben più famosa Amalfi. Le storie di entrambi i borghi si intersecano tra loro sin dal primo Medioevo e, per un breve periodo (tra il 1929 e il 1945), Atrani fu accorpata al Comune di Amalfi per poi ritornare comune autonomo qual è ancora oggi. Altra materia che mi affascina è la ricerca toponomastica: i nomi antichi dei luoghi, delle vie, viuzze e vicoli, che nel corso del tempo hanno cambiato denominazione. E nel catasto onciario, oltre ai nomi ed i cognomi, i soprannomi se presenti, i mestieri e le rendite delle varie famiglie, si possono trovare anche le vecchie denominazioni di strade e luoghi. Leggere un’onciario è come un viaggio nel tempo: nomi di famiglie, di luoghi, di mestieri impressi sulla carta. Una fotografia del tempo, utile sia per la ricerca genealogica sia quella toponomastica. Ringrazio l’Editore Arturo Bascetta al quale inviai, qualche mese addietro la pubblicazione di questo libro, la copia digitalizzata, in mio possesso, del Catasto Onciario di Atrani e ringrazio l’Autore, il Professor Fabio Paolucci, per avermi chiesto di farne una breve introduzione che, con lieto piacere, ho accettato conscio del fatto che, tra le pagine di questo libro, c’è anche un pezzo delle mie radici familiari. Luca Proto

Continua
68. FRATTAPICCOLA NEL 1753. L’antico casale San Sebastiano di Frattaminore di Napoli

68. FRATTAPICCOLA NEL 1753. L’antico casale San Sebastiano di Frattaminore di Napoli

MIGLIAIA DI NOMI PER LE RICERCHE GENEALOGICHE

CAPITOLO I

Nei luoghi dell’antica Città di Aversa di A.Bascetta

1. Vico Cupoli del Pantano preso da Aversa: nasce il Principato

2. Fratta e Pomigliano di Atella casali aversani

3. Il confronto con altri paesi della provincia di Terra di Lavoro

4. L’inesistente ceto intermedio: comandano barone e sua corte

5. L’ex Casale di S.Sebastiano d’Aversa dato al Duca nel 1439

6. Beni di Fratta posseduti dal Duca Giuseppe Bruno nel 1754

Note Capitolo Primo

CAPITOLO II

le università dei casali di aversa e s.maria di S.Cuttrera

1. Fra gli ex Casali di Aversa, provincia di Terra di Lavoro

2. La struttura feudale della Corte Regia fra 1600 e 1700

3. Dal Catasto asburgico all’Onciario del 1741

Note Capitolo Secondo

APPENDICE DOCUMENTARIA
IL CATASTO ONCIARIO DI FRATTAPICCOLA di B.Del Bufalo

Note Capitolo Secondo
-sezioni da i a xvi-

Fonti, Bibliografia, Giornali, Riviste e Internet

Fonti, Bibliografia, Giornali, Riviste e Internet

Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Frattaminore – 1753
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Caserta – 1749
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di S.Maria Maggiore (S.M.C.V.) – 1754
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di S.Pietro ad Corpo Casale di Capua (S-M-C.V.) – 1754
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Capua – 1754
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Mugnano – 1754
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Avellino – 1745/1755
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Aiello Casale d’Atripalda – 1754
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Tavernola Casale d’Atripalda – 1754
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Torrioni in Principato Ultra – 1742
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Prata in Principato Ultra – 1742
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Montaperto in Principato Ultra – 1753
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Montemiletto in Principato Ultra – 1753
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Altavilla in Principato Ultra – 1742
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Pozzuoli – 1742
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Qualiano Casale di Napoli – 1742
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Giugliano – 1742
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Vico Pantano – 1742
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Atripalda – 1742
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Martina – 1755
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Avigliano – 1743
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Crotone – 1783
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Mercogliano – 1754
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Cardito – 1755
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Vico Equense – 1754
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Pietrastornina – 1749
Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di Camposano – 1754
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STRALCI DI ROGITI BENEVENTANI. Fiere, Rendite, Sposalizi, Testamenti e Omicidi nel 1700

STRALCI DI ROGITI BENEVENTANI. Fiere, Rendite, Sposalizi, Testamenti e Omicidi nel 1700

CONTI, DUCHI E MARCHESI SEMPRE PIU’ POVERI

DA BENEVENTO ALLA MONTAGNA DI MONTEFUSCO

Molti nobili dei paesi della Montagna di Montefusco si erano trasferiti quasi tutti a Napoli per vivere la vita della capitale nominando i fidati agenti per la riscossione dei censi, solitamente da pagarsi entro la Vigilia di Natale e, in altri casi, specie per affitti di masserie o frutteti, o terziaria sul raccolto, durante il mese di luglio. Una pressione fiscale che aumentava sempre di più e, laddove i feudi rendevano poco, i titolari lievitavano indiscriminatamente il valore del bene, come accade oggi agli speculatori in borsa, per effettuarne infinite compravendite.
E’ quello che accadde a Chianche dopo la vendita indiscriminata del feudo passato da Giovanbattista Manso (1593) a Beatrice de Guevara (1607), moglie di Enrico de Loffredo, Marchese di Sant’Agata. Il feudo dell’antica Planca, unito a Bagnara nella prima metà del 1700, appartenne al Duca della Castellina Giovanni Battista Zunica, l’ultimo della famiglia a possederlo.
Ritroviamo proprietario del feudo di Chianca nel 1627, Ottavio Zunica. Con questa famiglia Chianca, sebbene tartassata dalle tasse, ebbe un assestamento restando agli Zunica il feudo per oltre un secolo, passando in successione a Carlo (1634), a Francesco (1644), ad un altro Carlo (1690), a Giovanna nel 1714, ad Orazio nel 1724, a Giovanni Battista Zunica nel 1765.
Planca era un feudo che veniva comprato e venduto con tutti i suoi vassalli da tempo immemore. Zunica vendette il feudo per 40.000 ducati a Domenico Perrelli, conosciuto col nome di Duca di Montis Storacis.
La vendita a Perrelli avvenne il 4 maggio del 1778 per gli atti di Notar Aniello Rajola di Napoli, tenendo presente anche i censui annui da riscuotere dai vassalli. Per la precisione, il Duca Perrelli di Montis Storacis comprò dal duca della Castellina don Giovanni Battista Zunica il feudo di Pianca per ducati 39.480, e grana 6, e fra i corpi nell’acquisto descritti, vi furono compresi dei censi che vennero indicati nel modo seguente:
Li censi che si pagano dai vassalli sopra i fondi di detto feudo, secondo vengono descritti nella relazione d’apprezzo.
Tra Bagnara e Planca, insomma, i contadini, secondo gli antichi strumenti, dovevano pagare o la quarta o la quinta parte, quale censo annuo per il feudatario.
I terreni erano stati affidati sicuramente ai cittadini di Pianca e Bagnara a censo enfiteutico, esigendone, già il Duca della Castellina, gli annui canoni, la quartinia, o la quinquagesima, a seconda dei casi in cui, gli stessi enfiteutici, alienavano i fondi censiti.74
Un tiro mancino di Zunica a Perrelli, il quale, da nuovo proprietario dei feudi della zona, neppure immaginava la difficoltà della riscossione.
Planca fu ufficialmente ceduta il 3 ottobre del 1780, con atto pubblico per mano dello stesso notaio Aniello Rajola di Napoli, nonostante le proteste di tutti gli enfiteuti dei feudi, cioè di Pianca, Bagnara, Pianchetella, Petruro, Toccanisi, e Monterocchetto, che avanzarono la nullità dello strumento del 2 febbraio del 1778, stipulato dal venditore Zunica, col quale aveva confermato le “concessioni enfiteutiche dei stabili formanti la maggior parte di quel territorio, e rilevate d’antica platea come che fatte contro la costituzione del Regno”.
Da qui il pubblico parlamento del 6 dicembre del 1780 contro l’azione del Duca da parte dei cittadini delle università comunali di Pianca e Bagnara che professarono la legittimità del possesso, che ab immemorabili avea goduto, sono parole dei cittadini di Pianca, e Bagnara, di quei piacevoli tenuissimi poderi, che ad essi trovavansi dai loro maggiori tramandati con giustissimo titolo, ed acquisto solenne, e canonico, e per concessione dei predecessori possessori di quel picciolo feudo autentico, e di ogni solennità munita….

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02. EBOLI NEL 1755 (02 Onciari Principato Citeriore – XX.Catasti Onciari del Regno di Napoli)

02. EBOLI NEL 1755 (02 Onciari Principato Citeriore – XX.Catasti Onciari del Regno di Napoli)

MIGLIAIA DI NOMI PER LE RICERCHE GENEALOGICHE

A chiudere la lista sono gli ecclesiastici, cioè primiceri, sacerdoti e canonici in quanto il loro nome è preceduto da un Prim°, un Sace i da un Can°. Si tratta degli ecclesiastici del paese col titolo di Don, che, ovviamente, si dava anche ai Magnifici, ai Dottori e al possessore che viveva del suo (Speziali, Notai, etc.). 56Si tengono lontano da Eboli i ricchi forestieri, non mancano gli abili maestri di particolari arti, come il tintore di panni, per tingere le stoffe dei lanieri, come accadeva a Palena, in Abruzzo, descritto nella cronaca del Bindi, dove si obbligavano i vassalli a tingere i panni nella tintoria del Duca.57
Lì il livello non era neppure competitivo con l’Europa in quanto necessitava acquistare per la migliorazione delle tinturiere, qualche ottimo tintore, straniero onde sulle di costui istruzioni ed insegnamenti d’intelligenza co’ migliori de’ nostri chimici si possa stabilire e distendere nelle fabriche tutte del Regno il buon gusto, la delicatezza e la perfezione delle tinte.58 Resta inteso che, anche in comuni non lontani, come Piedimonte d’Alife, esisteva una tintoria privata, con 13 tintori, e la Tinta grande, dietro il Mercato.59 Diciamo che il paese è molto legato alle tradizioni popolari. Siamo in pieno periodo di scoperta del corpo umano, grazie agli speziali per gli unguenti medicamentosi, e ai ricercatori di cosmetici, ciarlatani e non, che propongono prodotti di bellezza tratti da piante naturali. La rosa di Gerico si apre tra le undici e mezzanotte, si espone alla rugiada e si mette sui capelli: il tal modo si è liberi dal mal di testa e crescono i capelli. Si va quindi alla ricerca del rimedio naturale, della cura per forza, del prodotto che liberi da piccoli fastidi e da dolori tormentosi. Addirittura si utilizzano gli stessi medicamenti nella magia popolare, volendo anche per tenere lontani i fulmini e altre calamità dalla casa in cui essa è custodita.60
E’ un secolo in cui ci si impone il rimedio attraverso libri, vademecum e consigli. Decine di manoscritti diffusi in tutta europa, fra cui il più antico del 1200, oggi ad Oxford alla Bodeleian Library, poi riuniti nel Thesaurus Pauperum, una raccolta di ricette per ogni specie di malattia o di disturbo, ordinate a capite usque ad pedas secondo la visione della scuola salernitana nella quale confluivano la tradizione medica greca, latina, araba e giudaica. Il Thesaurus rappresenta un significativo manuale di medicina medievale scritto soprattutto per beneficio degli studenti poveri che non potevano permettersi molti libri. Si tratta di raccolte di ricette, fra il Viaticus di Costantino l’Africano e il Thesaurus del 1250 circa, secondo l’ordine della medicina salernitana, dalla caduta dei capelli, de casu capillorum, alle malattie dei piedi, de gutta arthetica et podagra, rinvenute nell’edizione siciliana.61
Forse sono quelli letti dai nostri speziali, o anche dal fioraio, che proviene da Benevento. Ad Eboli v’è il prattico nell’officio di Speziale di medicina, cioè il praticante farmacista come lo speziale di medicina vero e proprio: gli speziali spadroneggiano un po’ ovunque. I nobili hanno per abitudine quella di mandare i loro figli a divenire speziali manuali in una delle tante botteghe, fra le piazze e le viuzze, quasi fosse un praticantato come per gli scolari per diventare studenti.62
Medicina popolare che si incontra con il folclore, sebbene le annotazioni demo-antropologiche sono spesso dimenticate da storici locali animati da vuoto campanilismo, in Campania come in Terra di Lavoro.63 Aspetti di cultura agro-pastorale spesso impossibili da ricostruire per quella maledetta voglia, per dirla con Lutzenkirchen, di rimuovere, di proposito e in tempi molto brevi, quanto potesse ricordare una epoca pur non lontanissima di disagi, di difficoltà e di miseria. Così, al tempo stesso, si è inteso (soprattutto dall’alto) cancellare la coscienza delle proprie origini, nella prospettiva di una vita soltanto economicamente migliore.64
La crescita di grandi paesi è dovuta anche alla presenza di uno stampatore, cioè una stamperia nei capoluoghi,65 purtroppo assenti in provincia, nè è difficile incorrere in sviste ed episodi di omonimia…..

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20. EBOLI NEL 1755

20. EBOLI NEL 1755

L’UNICO LIBRO CON TUTTI I NOMI DEGLI ABITANTI, I MESTIERI, LE STRADE E LE CHIESE

Introduzione

Locum Eboli, Civitate Eboli e Castello Evoli: cenni sulle origini (869 d.C.)

Senza mescolare troppo fra loro i vari toponimi di luoghi diversi chiamati ‘Eboli’, onde evitare confusioni, volendo però tracciare un minimo di percorso storico come prologo alla descrizione dei luoghi citati ufficialmente nel 1700, abbiamo voluto riportare qualche riferimento relativo alle pergamente dell’Archivio di Cava e dell’Archivio di Montevergine, vere o false che siano. Pertanto, già nell’anno 869 dopo Cristo, si ha notizia negli atti della originaria Badia di Cava, quella sita in Loco Mitiliano, di un primo toponimo riferito ad Eboli, cioé de Locum qui Eboli nuncupatur (CDC, I, doc. LXVII, pag.88). Andato distrutto questo primario luogo abitato a causa delle continue guerriglie longo-normanne, sempre prendendo per veritiera la pergamena, i suoi abitanti si ritrovano trasferiti in un Castello, quindi in un luogo diverso. E’ la fortezza che nell’aprile del 1047 viene citata parlandosi di un ristretto ecclesiastico dipendente da Cava, plures rebus staviles foris Castello Evoli (CDC, VII, doc.MLXXV, pag.30) che comparirà anche come feudo, nel Catalogo dei Baroni, che, diversamente da altre interpretazioni, andrebbe datato 1092.
Passati i suoi signori feudali al seguito di Federico II di Svevia, nel 1219, Eboli fu accolto nel Demanio Regio. Quando giunsero sul posto i monaci di Montevergine, nell’anno 1221, lo fecero per costruire un proprio ospedale, obedientiam et hospitale Ebuli, dipendente dai verginiani per volere regio (AMV, perg. n.1457); potere che si rafforzerà anche per la nascita dell’ecclesias Sancti Martini et Sancti Blasii et hospitale pauperum cum domibus molendinis redditibus et possessionibus suis (AMV, perg. n.2131), tolti e poi reintegrati al monastero da Carlo I d’Angiò con Ecclesiam Sancti Georgi, l’orto presso Sancte Catherine (AMV, busta n.30, f.36), da cui la tassazione delle decime pontificie (Rationes Decimarum, Campania, n.5988, pag.404), quando si ritrovò nella nuova ripartizione territoriale del papa seguita al terremoto del 1348.
Ma la prima chiesa antica del Castello di cui si ha notizia nei documenti verginiani è sicuramente quella di San Lorenzo seguita da San Bartolomeo.
Tralasciando la storia antica, ci piace sottolineare come località ebolitane oggi apparentemente ininfluenti dal punto di vista geopolitico siano state nel passato considerate beni di scambio fra i primi possessori ai tempi dei re normanni. Luoghi come Gorgo e Gratalia sono infatti citati in una pergamena del luglio 1168 scritta proprio ad Eboli e poi, per diverse vicissitudini, finita nell’Archivio Storico del Monastero di Montevergine (AMV, pergamene diverse). Prima di allora, ad essere citata, quale prima chiesa nata presso i preesistenti possedimenti cavensi, è San Lorenzo. S.Lorenzo compare come per la prima volta in una cartula venditionis del giugno 1135 quando Alberada vende una casa sita intus muro de Castello Ebuli in Vico Sancti Laurentii (AC, arca XIII, n.97) che, nel 1163, sempre da fonte cavense, possiede sicuramente il titolo di Parrocchia, in parochia Sancti Laurentii (AC, arca XXXI, n.19) meglio precisato in una pergamena verginiana del 1168, mantenendolo fino al 1836 quando venne trasferito alla chiesa di San Francesco dei soppressi Padri Minori conventuali (Crisci-Campagna, Salerno sacra, pg.237). Quello del 1168 è un documento originale, il n.485, in scrittura beneventana. La pergamena fu scritta pro defensione monasterii di Montevergine riferita ad una domus, cioè una casa della Parrocchia di San Lorenzo.
Era, all’epoca, il primo anno di regno di Re Gugliemo, Domino di Sicilia e Italia, come annota il notaio Urso[ne] alla presenza del giudice Amfredo, redattore di altri sette documenti conservati presso l’Archivio Diocesano di Campagna trascritti nel regesto della Taviani (Les archivies, nn.25, 27, 29, 30, 34, 35, 47, pagg.38-46).
In essa si accenna ai fratelli Matteo e Nicola Fabbro che si dividono l’eredità paterna del fu Nicola de Perfecta. Matteo, che fece le due sorti, cioè due porzioni di vigneto a Loco Gratalia, cede al fratello la sorte dalla parte occidentale, così come divide la casa di fabbrica que est intus muro de Castello Evoli et in Parrochia Sancti Laurentiis. Da essa Matteo ne ricavò due porzioni cedendone una a Nicola.
Nicola a sua volta divise il vigneto, que est Loco ubi proprie Gurgum dicitur, cedendone una porzione a Matteo, così come fece dividendo in due porzioni la terra, que est Loco ubi proprie Gratalia dicitur, ed una casa in muratura que est foras muro de Castello Ebuli in Loco Francaville et in parrochia Sancthi Bartolomei, lasciando al fratello la libertà di scelta rilasciando al fratello garanzia per il possesso dell’eredità.
La Parrocchia di San Bartolomeo compare per la prima volta in questo documento verginiano, ma anche in quelli cavensi per possedimenti di case sempre fuori dal Castello, oltre l’antico muro di cinta, ma intus Civitatem Ebuli del 1179 (AC, arca XXXVI, n.81); città evidentemente esistente fuori dal perimetro del fortilizio. San Bartolomeo, che resisterà fino ai bombardamenti del 1943, venne ricostruita altrove, presso la stazione nel 1957, e quindi non può essere presa in considerazione circa il fulcro dell’antica Civitatem Ebuli.
C’è da dire che in passato, nella Terra di Eboli, sono stati sempre i religiosi, fra potere politico ed ecclesiastico, a possedere il vero scettro del comando. Del resto, i parroci, sono coloro che registravano tutto dei cittadini, fra libri di nati, morti, matrimoni, etc.
Questo assoggettamento è andato avanti per secoli, fino alla stessa redazione del Catasto Onciario quando, stavolta in collaborazione con i civili, ogni residente fu obbligato a dichiarare i beni posseduti, come si legge negli atti preliminari catastali, dov’è allegato il singolo atto di fede di ogni cittadino, cioè l’impegno scritto, a cui spesso si rimanda, giusta la fede, quella degli atti preliminari. Ed è partendo da queste dichiarazioni, cioè dalle rivele effettuate dai cittadini ai religiosi (quasi sempre spontanee), che le commissioni poterono redigere i Catasti in tempi brevi per l’epoca, benchè in alcuni casi furono terminati dopo molti anni.

La Redazione
Negli Onciari si possono scovare curiosità che accomunano perfino i centri abitati più lontani. Per esempio nel Catasto di Alessandria del Carretto del 1742, denominato Catasto Onciario di Alessandria di Calabria Citra, vi scopriamo il magnifico Pasquale Chidichimo che faceva il bandieraro, cioè l’alfiere del Battaglione a piedi della Città di Avellino.28
Eboli è nelle mani di pochi ricchi non sempre professionisti, mentre si affermano i primi mestieri divenuti man mano comuni in tutti i paesi del Regno, dai braccianti ai vaticali, oltre alle nuove case del possessore che vive del suo sui singoli appezzamenti di terreno, nascono anche altre dimore fra i luoghi dei paesi che vanno ad integrarsi o a sostituirsi alle Case dei precedenti vassalli, intese più come antiche domus, cioè ai Casali di intere famiglie divenuti veri e propri luoghi del paese. Così, mentre le zone abitate dalle famiglie dei precedenti vassalli continuano a raggrupparle e ad essere indicate con il nome di Case, le case dei nuovi ricchi vengono fabbricate sempre più vicine alla piazza e serviranno solo al singolo proprietario che si distingue con il nome di Magnifico che vive solo con la sua famiglia e servitù nella nuova Casa Palazziata (a volte citata come palazzo, per la grandezza della stessa casa divenuta complesso di “case” intese come singole stanze, membri o camere appartenenti ad un solo proprietario). Il raggruppamento delle nuove case popolari, cioè l’insieme delle camere dove abita il popolo, viene generalmente chiamato edificio oppure ospizio se viene dato un posto per dormire, per mangiare o per fare bottega, fino a formare i nuovi quartieri, i distretti parrocchiali, intorno a questa o a quella parrocchia: il ristretto della Parrocchia di S.Eustachio, il ristretto della Parrocchia di S.Nicola, etc.
Nel Catasto è quindi possibile riscontrare i nomi di tutti i cittadini dell’epoca, delle vedove e delle vergini in capillis (fanciulle da matrimonio), degli ecclesiastici, dei forestieri abitanti e non, e di tutte le altre presenze, oltre l’effettivo contributo in denaro pagato allo stato per il possesso dei beni e per i servizi (macellazioni, vendite al dettaglio, etc).29
Il Catasto di Eboli, come pochi altri del Principato Citra, è stato riprodotto su nastro fotografico e si conserva in maniera egregia presso l’Archivio di Stato di Salerno, mentre l’originale cartaceo è conservato all’Archivio di Stato di Napoli, benchè copia di esso doveva esistere anche presso il Comune. Gli originali delle Università finirono a Napoli perchè erano nel possesso della Regia Camera della Sommaria (da dove pervennero), ufficio del Regno incaricato a partire dal 1741 alla riscossione diretta delle tasse e quindi dei libri contabili.
Altre informazioni si ricavano sui componenti dei nuclei familiari, indicandosi il numero, la loro età, l’attività svolta ed il rapporto di parentela con il capofamiglia. Curiosità che aiutano a capire la vita condotta a Lapio mentre veniva redatto questo grande inventario (che resterà in vita fino ad essere sostituito da quello napoleonico imposto con la dominazione francese dopo il 1806) consegnato 12 anni dopo l’entrata in vigore della legge. Per i grandi nuclei del Regno ci fu necessità di dividerli in quartieri in quanto le schede occupavano diversi volumi: il Catasto Generale della Città di Caserta diviso in sei Quartieri fu stilato in sette tomi e consegnato nel 1749, quello di Santa Maria C.V. nel 1754 risulta un migliaio di pagine. I nostri comuni sono invece ben più piccoli, a cominciare dalla stessa Avellino e per finire col Catasto di Torrioni che fu fatto in soli pochi mesi dall’emanazione della legge nel 1741. Quello di Eboli fu inglobato in un solo grande tomo e sarà consegnato solo nel 1755, come si legge sul frontespizio originale: [Principato Citeriore ] / Evoli / Onciario del 1755. Quello di una città, in genere, è enorme, perciò viene classificato a volumi divisi in sezioni uguali dal nome simile.
Le prime quattro sezioni riguardano i cittadini residenti, gli abitanti laici non residenti, le vedove di cittadini residenti, i residenti ecclesiastici: – Fuochi Residenti (stato di famiglia con beni del capofamiglia, moglie, figli e relativa età, beni, crediti, debiti, casa di proprietà o in affitto, animali, terre e relative rendite, etc.); Forestieri Benitenenti Abitanti Laici (nomi dei possessori di un altro paese meglio specificato); Vedove e zitelle (monache bizzoche e/o vergini in capillis), Ecclesiastici, Luoghi Pii, e Monasteri e Benefici Cittadini Residenti (beni di chiesa, nomi dei religiosi, cappelle, congregazioni e benefici di privati cittadini).
Le due sezioni successive riguardano i forastieri laici e i forestieri ecclesiastici abitanti ma non residenti: Forastieri Benitenenti non abitanti (in genere il feudatario ed altri), Forastieri Bonatenenti Ecclesiastici e Luoghi (ecclesiastici e chiese di altri paesi, cioè uomini di chiesa ed istituti religiosi forestieri che avevano beni in loco). Per Eboli bastò dividere i tomi in sezioni, sempre con lo stesso sistema, dagli Ecclesiastici ai Forestieri, a cura delle commissioni scelte dagli eletti dell’Università, cioè dei deputati alla trascrizione delle rivele fatte dai cittadini, dopo aver accertato la veridicità del dichiarato, in genere chiamati deputati et estimatori,30 così come accaduto in verità anche per città grandi come Caserta, dove i deputati erano otto, fra ricchi, possessori di pecore, braccianti, e massari benestanti, che danno il buon esempio stilando per primi le proprie dichiarazioni…

Continua
20. EBOLI NEL 1755

20. EBOLI NEL 1755

L’UNICO LIBRO CON TUTTI I NOMI DEGLI ABITANTI, I MESTIERI, LE STRADE E LE CHIESE

Introduzione

Locum Eboli, Civitate Eboli e Castello Evoli: cenni sulle origini (869 d.C.)

Senza mescolare troppo fra loro i vari toponimi di luoghi diversi chiamati ‘Eboli’, onde evitare confusioni, volendo però tracciare un minimo di percorso storico come prologo alla descrizione dei luoghi citati ufficialmente nel 1700, abbiamo voluto riportare qualche riferimento relativo alle pergamente dell’Archivio di Cava e dell’Archivio di Montevergine, vere o false che siano. Pertanto, già nell’anno 869 dopo Cristo, si ha notizia negli atti della originaria Badia di Cava, quella sita in Loco Mitiliano, di un primo toponimo riferito ad Eboli, cioé de Locum qui Eboli nuncupatur (CDC, I, doc. LXVII, pag.88). Andato distrutto questo primario luogo abitato a causa delle continue guerriglie longo-normanne, sempre prendendo per veritiera la pergamena, i suoi abitanti si ritrovano trasferiti in un Castello, quindi in un luogo diverso. E’ la fortezza che nell’aprile del 1047 viene citata parlandosi di un ristretto ecclesiastico dipendente da Cava, plures rebus staviles foris Castello Evoli (CDC, VII, doc.MLXXV, pag.30) che comparirà anche come feudo, nel Catalogo dei Baroni, che, diversamente da altre interpretazioni, andrebbe datato 1092.
Passati i suoi signori feudali al seguito di Federico II di Svevia, nel 1219, Eboli fu accolto nel Demanio Regio. Quando giunsero sul posto i monaci di Montevergine, nell’anno 1221, lo fecero per costruire un proprio ospedale, obedientiam et hospitale Ebuli, dipendente dai verginiani per volere regio (AMV, perg. n.1457); potere che si rafforzerà anche per la nascita dell’ecclesias Sancti Martini et Sancti Blasii et hospitale pauperum cum domibus molendinis redditibus et possessionibus suis (AMV, perg. n.2131), tolti e poi reintegrati al monastero da Carlo I d’Angiò con Ecclesiam Sancti Georgi, l’orto presso Sancte Catherine (AMV, busta n.30, f.36), da cui la tassazione delle decime pontificie (Rationes Decimarum, Campania, n.5988, pag.404), quando si ritrovò nella nuova ripartizione territoriale del papa seguita al terremoto del 1348.
Ma la prima chiesa antica del Castello di cui si ha notizia nei documenti verginiani è sicuramente quella di San Lorenzo seguita da San Bartolomeo.
Tralasciando la storia antica, ci piace sottolineare come località ebolitane oggi apparentemente ininfluenti dal punto di vista geopolitico siano state nel passato considerate beni di scambio fra i primi possessori ai tempi dei re normanni. Luoghi come Gorgo e Gratalia sono infatti citati in una pergamena del luglio 1168 scritta proprio ad Eboli e poi, per diverse vicissitudini, finita nell’Archivio Storico del Monastero di Montevergine (AMV, pergamene diverse). Prima di allora, ad essere citata, quale prima chiesa nata presso i preesistenti possedimenti cavensi, è San Lorenzo. S.Lorenzo compare come per la prima volta in una cartula venditionis del giugno 1135 quando Alberada vende una casa sita intus muro de Castello Ebuli in Vico Sancti Laurentii (AC, arca XIII, n.97) che, nel 1163, sempre da fonte cavense, possiede sicuramente il titolo di Parrocchia, in parochia Sancti Laurentii (AC, arca XXXI, n.19) meglio precisato in una pergamena verginiana del 1168, mantenendolo fino al 1836 quando venne trasferito alla chiesa di San Francesco dei soppressi Padri Minori conventuali (Crisci-Campagna, Salerno sacra, pg.237). Quello del 1168 è un documento originale, il n.485, in scrittura beneventana. La pergamena fu scritta pro defensione monasterii di Montevergine riferita ad una domus, cioè una casa della Parrocchia di San Lorenzo.
Era, all’epoca, il primo anno di regno di Re Gugliemo, Domino di Sicilia e Italia, come annota il notaio Urso[ne] alla presenza del giudice Amfredo, redattore di altri sette documenti conservati presso l’Archivio Diocesano di Campagna trascritti nel regesto della Taviani (Les archivies, nn.25, 27, 29, 30, 34, 35, 47, pagg.38-46).
In essa si accenna ai fratelli Matteo e Nicola Fabbro che si dividono l’eredità paterna del fu Nicola de Perfecta. Matteo, che fece le due sorti, cioè due porzioni di vigneto a Loco Gratalia, cede al fratello la sorte dalla parte occidentale, così come divide la casa di fabbrica que est intus muro de Castello Evoli et in Parrochia Sancti Laurentiis. Da essa Matteo ne ricavò due porzioni cedendone una a Nicola.
Nicola a sua volta divise il vigneto, que est Loco ubi proprie Gurgum dicitur, cedendone una porzione a Matteo, così come fece dividendo in due porzioni la terra, que est Loco ubi proprie Gratalia dicitur, ed una casa in muratura que est foras muro de Castello Ebuli in Loco Francaville et in parrochia Sancthi Bartolomei, lasciando al fratello la libertà di scelta rilasciando al fratello garanzia per il possesso dell’eredità.
La Parrocchia di San Bartolomeo compare per la prima volta in questo documento verginiano, ma anche in quelli cavensi per possedimenti di case sempre fuori dal Castello, oltre l’antico muro di cinta, ma intus Civitatem Ebuli del 1179 (AC, arca XXXVI, n.81); città evidentemente esistente fuori dal perimetro del fortilizio. San Bartolomeo, che resisterà fino ai bombardamenti del 1943, venne ricostruita altrove, presso la stazione nel 1957, e quindi non può essere presa in considerazione circa il fulcro dell’antica Civitatem Ebuli.
C’è da dire che in passato, nella Terra di Eboli, sono stati sempre i religiosi, fra potere politico ed ecclesiastico, a possedere il vero scettro del comando. Del resto, i parroci, sono coloro che registravano tutto dei cittadini, fra libri di nati, morti, matrimoni, etc.
Questo assoggettamento è andato avanti per secoli, fino alla stessa redazione del Catasto Onciario quando, stavolta in collaborazione con i civili, ogni residente fu obbligato a dichiarare i beni posseduti, come si legge negli atti preliminari catastali, dov’è allegato il singolo atto di fede di ogni cittadino, cioè l’impegno scritto, a cui spesso si rimanda, giusta la fede, quella degli atti preliminari. Ed è partendo da queste dichiarazioni, cioè dalle rivele effettuate dai cittadini ai religiosi (quasi sempre spontanee), che le commissioni poterono redigere i Catasti in tempi brevi per l’epoca, benchè in alcuni casi furono terminati dopo molti anni.

La Redazione
Negli Onciari si possono scovare curiosità che accomunano perfino i centri abitati più lontani. Per esempio nel Catasto di Alessandria del Carretto del 1742, denominato Catasto Onciario di Alessandria di Calabria Citra, vi scopriamo il magnifico Pasquale Chidichimo che faceva il bandieraro, cioè l’alfiere del Battaglione a piedi della Città di Avellino.28
Eboli è nelle mani di pochi ricchi non sempre professionisti, mentre si affermano i primi mestieri divenuti man mano comuni in tutti i paesi del Regno, dai braccianti ai vaticali, oltre alle nuove case del possessore che vive del suo sui singoli appezzamenti di terreno, nascono anche altre dimore fra i luoghi dei paesi che vanno ad integrarsi o a sostituirsi alle Case dei precedenti vassalli, intese più come antiche domus, cioè ai Casali di intere famiglie divenuti veri e propri luoghi del paese. Così, mentre le zone abitate dalle famiglie dei precedenti vassalli continuano a raggrupparle e ad essere indicate con il nome di Case, le case dei nuovi ricchi vengono fabbricate sempre più vicine alla piazza e serviranno solo al singolo proprietario che si distingue con il nome di Magnifico che vive solo con la sua famiglia e servitù nella nuova Casa Palazziata (a volte citata come palazzo, per la grandezza della stessa casa divenuta complesso di “case” intese come singole stanze, membri o camere appartenenti ad un solo proprietario). Il raggruppamento delle nuove case popolari, cioè l’insieme delle camere dove abita il popolo, viene generalmente chiamato edificio oppure ospizio se viene dato un posto per dormire, per mangiare o per fare bottega, fino a formare i nuovi quartieri, i distretti parrocchiali, intorno a questa o a quella parrocchia: il ristretto della Parrocchia di S.Eustachio, il ristretto della Parrocchia di S.Nicola, etc.
Nel Catasto è quindi possibile riscontrare i nomi di tutti i cittadini dell’epoca, delle vedove e delle vergini in capillis (fanciulle da matrimonio), degli ecclesiastici, dei forestieri abitanti e non, e di tutte le altre presenze, oltre l’effettivo contributo in denaro pagato allo stato per il possesso dei beni e per i servizi (macellazioni, vendite al dettaglio, etc).29
Il Catasto di Eboli, come pochi altri del Principato Citra, è stato riprodotto su nastro fotografico e si conserva in maniera egregia presso l’Archivio di Stato di Salerno, mentre l’originale cartaceo è conservato all’Archivio di Stato di Napoli, benchè copia di esso doveva esistere anche presso il Comune. Gli originali delle Università finirono a Napoli perchè erano nel possesso della Regia Camera della Sommaria (da dove pervennero), ufficio del Regno incaricato a partire dal 1741 alla riscossione diretta delle tasse e quindi dei libri contabili.
Altre informazioni si ricavano sui componenti dei nuclei familiari, indicandosi il numero, la loro età, l’attività svolta ed il rapporto di parentela con il capofamiglia. Curiosità che aiutano a capire la vita condotta a Lapio mentre veniva redatto questo grande inventario (che resterà in vita fino ad essere sostituito da quello napoleonico imposto con la dominazione francese dopo il 1806) consegnato 12 anni dopo l’entrata in vigore della legge. Per i grandi nuclei del Regno ci fu necessità di dividerli in quartieri in quanto le schede occupavano diversi volumi: il Catasto Generale della Città di Caserta diviso in sei Quartieri fu stilato in sette tomi e consegnato nel 1749, quello di Santa Maria C.V. nel 1754 risulta un migliaio di pagine. I nostri comuni sono invece ben più piccoli, a cominciare dalla stessa Avellino e per finire col Catasto di Torrioni che fu fatto in soli pochi mesi dall’emanazione della legge nel 1741. Quello di Eboli fu inglobato in un solo grande tomo e sarà consegnato solo nel 1755, come si legge sul frontespizio originale: [Principato Citeriore ] / Evoli / Onciario del 1755. Quello di una città, in genere, è enorme, perciò viene classificato a volumi divisi in sezioni uguali dal nome simile.
Le prime quattro sezioni riguardano i cittadini residenti, gli abitanti laici non residenti, le vedove di cittadini residenti, i residenti ecclesiastici: – Fuochi Residenti (stato di famiglia con beni del capofamiglia, moglie, figli e relativa età, beni, crediti, debiti, casa di proprietà o in affitto, animali, terre e relative rendite, etc.); Forestieri Benitenenti Abitanti Laici (nomi dei possessori di un altro paese meglio specificato); Vedove e zitelle (monache bizzoche e/o vergini in capillis), Ecclesiastici, Luoghi Pii, e Monasteri e Benefici Cittadini Residenti (beni di chiesa, nomi dei religiosi, cappelle, congregazioni e benefici di privati cittadini).
Le due sezioni successive riguardano i forastieri laici e i forestieri ecclesiastici abitanti ma non residenti: Forastieri Benitenenti non abitanti (in genere il feudatario ed altri), Forastieri Bonatenenti Ecclesiastici e Luoghi (ecclesiastici e chiese di altri paesi, cioè uomini di chiesa ed istituti religiosi forestieri che avevano beni in loco). Per Eboli bastò dividere i tomi in sezioni, sempre con lo stesso sistema, dagli Ecclesiastici ai Forestieri, a cura delle commissioni scelte dagli eletti dell’Università, cioè dei deputati alla trascrizione delle rivele fatte dai cittadini, dopo aver accertato la veridicità del dichiarato, in genere chiamati deputati et estimatori,30 così come accaduto in verità anche per città grandi come Caserta, dove i deputati erano otto, fra ricchi, possessori di pecore, braccianti, e massari benestanti, che danno il buon esempio stilando per primi le proprie dichiarazioni…

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