STRALCI DI ROGITI BENEVENTANI. Fiere, Rendite, Sposalizi, Testamenti e Omicidi nel 1700

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CONTI, DUCHI E MARCHESI SEMPRE PIU’ POVERI

DA BENEVENTO ALLA MONTAGNA DI MONTEFUSCO

Molti nobili dei paesi della Montagna di Montefusco si erano trasferiti quasi tutti a Napoli per vivere la vita della capitale nominando i fidati agenti per la riscossione dei censi, solitamente da pagarsi entro la Vigilia di Natale e, in altri casi, specie per affitti di masserie o frutteti, o terziaria sul raccolto, durante il mese di luglio. Una pressione fiscale che aumentava sempre di più e, laddove i feudi rendevano poco, i titolari lievitavano indiscriminatamente il valore del bene, come accade oggi agli speculatori in borsa, per effettuarne infinite compravendite.
E’ quello che accadde a Chianche dopo la vendita indiscriminata del feudo passato da Giovanbattista Manso (1593) a Beatrice de Guevara (1607), moglie di Enrico de Loffredo, Marchese di Sant’Agata. Il feudo dell’antica Planca, unito a Bagnara nella prima metà del 1700, appartenne al Duca della Castellina Giovanni Battista Zunica, l’ultimo della famiglia a possederlo.
Ritroviamo proprietario del feudo di Chianca nel 1627, Ottavio Zunica. Con questa famiglia Chianca, sebbene tartassata dalle tasse, ebbe un assestamento restando agli Zunica il feudo per oltre un secolo, passando in successione a Carlo (1634), a Francesco (1644), ad un altro Carlo (1690), a Giovanna nel 1714, ad Orazio nel 1724, a Giovanni Battista Zunica nel 1765.
Planca era un feudo che veniva comprato e venduto con tutti i suoi vassalli da tempo immemore. Zunica vendette il feudo per 40.000 ducati a Domenico Perrelli, conosciuto col nome di Duca di Montis Storacis.
La vendita a Perrelli avvenne il 4 maggio del 1778 per gli atti di Notar Aniello Rajola di Napoli, tenendo presente anche i censui annui da riscuotere dai vassalli. Per la precisione, il Duca Perrelli di Montis Storacis comprò dal duca della Castellina don Giovanni Battista Zunica il feudo di Pianca per ducati 39.480, e grana 6, e fra i corpi nell’acquisto descritti, vi furono compresi dei censi che vennero indicati nel modo seguente:
Li censi che si pagano dai vassalli sopra i fondi di detto feudo, secondo vengono descritti nella relazione d’apprezzo.
Tra Bagnara e Planca, insomma, i contadini, secondo gli antichi strumenti, dovevano pagare o la quarta o la quinta parte, quale censo annuo per il feudatario.
I terreni erano stati affidati sicuramente ai cittadini di Pianca e Bagnara a censo enfiteutico, esigendone, già il Duca della Castellina, gli annui canoni, la quartinia, o la quinquagesima, a seconda dei casi in cui, gli stessi enfiteutici, alienavano i fondi censiti.74
Un tiro mancino di Zunica a Perrelli, il quale, da nuovo proprietario dei feudi della zona, neppure immaginava la difficoltà della riscossione.
Planca fu ufficialmente ceduta il 3 ottobre del 1780, con atto pubblico per mano dello stesso notaio Aniello Rajola di Napoli, nonostante le proteste di tutti gli enfiteuti dei feudi, cioè di Pianca, Bagnara, Pianchetella, Petruro, Toccanisi, e Monterocchetto, che avanzarono la nullità dello strumento del 2 febbraio del 1778, stipulato dal venditore Zunica, col quale aveva confermato le “concessioni enfiteutiche dei stabili formanti la maggior parte di quel territorio, e rilevate d’antica platea come che fatte contro la costituzione del Regno”.
Da qui il pubblico parlamento del 6 dicembre del 1780 contro l’azione del Duca da parte dei cittadini delle università comunali di Pianca e Bagnara che professarono la legittimità del possesso, che ab immemorabili avea goduto, sono parole dei cittadini di Pianca, e Bagnara, di quei piacevoli tenuissimi poderi, che ad essi trovavansi dai loro maggiori tramandati con giustissimo titolo, ed acquisto solenne, e canonico, e per concessione dei predecessori possessori di quel picciolo feudo autentico, e di ogni solennità munita….

Description

IMMERSI NELLA STORIA VERA DEI DOCUMENTI

Come in una sequenza filmica si snodano i diversi atti notarili con le loro singolari figure, come nei patti nuziali, nei testamenti. Singolari documenti segnalano dunque modi di essere, costumi, usanze, tradizioni di specifici luoghi.
I panni colorati lavorati sono pregio, distinzione. Significativi a tal proposito sono in testamenti, come le ultime volontà dettate dall’uomo “seduto sulla sedia di paglia”. Dettagli questi non da trascurare. L’occhio notarile è anche attento così al contesto, al vissuto. I testamenti rivelano l’atteggiamento dell’essere umano di fronte alla morte, insieme ai culti del territorio. Nel testamento di Orazio Principe della Terra di Apice leggiamo: Raccomando l’anima mia alla ss.Trinità essendo quella fiato della Maestà… Chiamando pure ad assistermi s.Liborio, s.Matteo, s.Antonio, s.Pascale, s.Filippo Neri, miei principali avvocati, s.Vito, s.Modestino, s.Domenico, s.Andrea di Avellino”. Inoltre ordina che si celebrino “per l’anima di esso testatore due messe l’anno: una il giorno di s.Maria dell’angeli a s.Francesco… e che il suo corpo sia sepolto nella collegiale chiesa senza pompe funebri, atteso esso testatore essendo stata la più vile creatura, fosse stata nel mondo, non merita cortesia niuna, ma come mandria vile di pecorella infetta di tutti i vizi, qual confessa esservi stato commesso”.
Significativo anche il testamento del 1757 dell’analfabeta Vito di Torrioni che dona “le robbe” e dichiara che esse “sono miei propri sudorii”. Questi chiede di consegnare dei ducati all’oratorio del ss.Rosario e nel medesimo luogo essere seppellito.
Scorrendo gli atti notarili, di notevole importanza, si rivelano i patti iniziali per la cultura materiale e per l’immaginario che essa suscita.
Nel 1706 il notaio Onofrio Pappone della Terra di Apice, nel registrare il matrimonio della Magnifica Teodosia Sirena, riporta tutte “le cose” consegnate come le “lenzola di seta di Bari”, i “salvietti di Fiandra”, la “veste di scottino a colore del Carminio”.
I capitoli matrimoniali così dei notai del Principato ci restituiscono una società i costumi, i modi di essere, le singolari tradizioni locali, insieme alla dote e al “notamento dei panni”. Certamente una funzione significativa, che segnala la differenza e il valore dell’oggetto, viene affidata alla varietà cromatica e alla sapiente lavorazione del manufatto. Nell’elenco delle “robbe” c’è un “vestito con struscio giallo nuovo, altro vestito sottanetto di damasco rosso di color amaranto nuovo, un busto di pioppo ricamato novigno”. Ancora in dote compaiono “camicie accannatora di tela e pizzilli, la gonnella di saia imperiale con maniche anche di saja, guarnite solamente le maniche, e il busto di trene d’argento”.
A tal proposito, efficace è lo studio comparativo di Arturo Bascetta fra i costumi dei singoli paesi come il confrontare l’usanza di Apice, nella Valle del Calore, con quella di Mercogliano e Altavilla, nella Valle di Benevento, e di altri centri del Principato. Inoltre, in un’altra documentazione di fine Settecento, possiamo leggere note di gioielli, di medaglie, di orecchini, di anelli, insieme a “una piuma di diamanti brillanti”, una scatola “e un astuchio d’oro”, una “bottoniera grande d’oro granita”. Ma un atto notarile particolare è quello redatto dal notaio napoletano Pasquale Leo fu Donato di Torrioni del 1821 che riguarda la signora donna Vincenza Bonito, figlia del fu don Domenico di S.Giorgio del Sannio domiciliata nel monastero salesiano, che “prima della nominazione deve avere la dote, la quale, secondo lo statuto di questo pio luogo è di ducati 800”. Da quanto scritto si evince che chi non possedeva le doti, pur possendendo la dote umana, non poteva accedere alla professione dei voti religiosi.
A questo punto occorre precisare che lo studio dell’autore è abbastanza ampio e passa alla descrizione degli edifici sacri e, in modo particolare, di Apice, dove c’è la chiesa di s.Bartolomeo, “coverta di embrici”, intonacata, imbiancata, con il cimitero benedetto nel 1690 dal cardinale Orsini. E dietro “suddetta chiesa vi resta un orticello con albero di celzo rosso”. Sempre nella medesima Terra si registra il beneficio di s.Marco Evangelista eretto nella chiesa del palazzo ducale. Altro edificio sacro importante dello stesso centro è la badia di s.Lorenzo di patronato del collegio di s.Bartolomeo di Benevento, unita successivamente all’Annunziata di Pietradefusi.
Inoltre, l’autore, non trascura l’archeologia pre industriale e pertanto segnala il molino sul fiume Sabato del Duca di Monestarace, frutto di una convenzione “con li capomastri fabbricatori”, impegnati nel costruire la “parata” e nel collocare le macine. A tal proposito, l’ingegnere, deve tener conto “del masso sotto l’acque”, delle “pareti da battitura”. Previsti anche “forti urti delle acque”, tutti così all’opera per dar vita a questo edificio che vede impegnati mastri scalpellini, capimastri e per fare ciò, sono messe in opera “tre-quattro calcare di calgie”. Altra documentazione della cultura materiale è quella relativa all’esistenza di una cartiera insieme al monte del cardinale Perrelli.
Ma su tutto spicca Eliseo Danza di Montefusco (1584-1660) giureconsulto, scrittore, avvocato dei poveri, sindaco del suo paese natio, membro di accademie, come quella degli Offuscati di Montefusco. Questi scrisse varie opere che rispecchiano i costumi e la società del tempo. Giustamente l’autore, in questo studio diviso in più parti, auspica la traduzione e la diffusione delle opere giuridiche di una personalità straordinaria del periodo, come era quella di Bartolomeo Chioccarelli di Montefalcione, storico e giurista insigne.

Fausto Baldassarre
Filosofo storico

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Editorial Review

Terre a 29 anni: enfiteusi nell’Inventario di Pappone

 

L’ex provincia delle Terre Beneventane, assorbita dalla provincia di Principato Ultra con sede a Montefusco dal 1541, assisterà gradualmente alla nascita dei mestieri nei comodi rioni parrocchiali nati intorno alle quattro nuove chiese di Apice, dopo lo sfaldamento dell’antica Abbazia locale e i danni provocati dai terribili terremoti.
Da una parte v’è la presenza di Montevergine con il patrimonio fondiario fra i feudi di Albino e Marcopio, dall’altra la Chiesa Beneventana che ha ricostruito il patrimonio fondiario intorno alla Chiesa Rettorale, sia quelle di San Nicolò che quelle della Chiesa sotto il titolo di San Bartolomeo, che diventano un sol corpo, amministrate dalla Chiesa Madre Collegiata, retta da un arciprete, che, a sua volta, continua a possedere principalmente l’ex feudo di Calvano, le cui terre sono concesse in enfiteusi a 29 anni. Il 23 maggio 1746 il Reverendo Epifanio Bartoli, Arciprete della Collegiata di Apice sotto il titolo di Santa Maria Assunta, ricordava a Nicola Merola come la mensa Arcipretale aveva dato un territorio in quel di Calvano ad Agostino Merola per 29 anni.1
La suddivisione fondiaria fu quindi un fatto che in origine riguardò tre chiese e, in seguito solo due, ma nella sostanza la sola mensa arcipretale che divenne amministratice di tutto, su ordine dell’arcivescovo di Benevento, vedendosi riassegnato anche il titolo badiale di S.Maria.
Una lettera del 28 agosto 1751, conservata fra gli atti notarili del notaio Pappone, è indirizzata al Signor Vicario Foraneo “perchè riferisca sui beni, che debbono sottoporsi il censo, siano franchi, e liberi, capienti in forte, e frutto, alias de proprio e a copis dovuto in Benevento dalli Arciepiscopo”.