Scartoffie Beneventane 9. L’ex provincia dei palazzi prefettizi del Vaticano

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UN LIBRO BASATO SU DOCUMENTI D’ARCHIVIO INEDITI TRASCRITTI A MANO: SOLO OLIO DI GOMITO

1. L’esercito dei Mendoza spadroneggia in provincia: 31 esecuzioni. Nel 1577, la famiglia Orsino di Solofra, fu ben lieta di alloggiare non solo i 130 soldati della Compagnia di Berardino Mendoza diretta a Serino, “ma anco sexanta de più con haver fatto molti excessi la sera medesma ch’arrivorno”. I Signori di Solofra non solo “non voleano provedere contra detti soldati comettenti tanti excessi e delitti contra suoi vassalli, non far pigliar informatione et farli castigare al meno dal detto Signor Berardino al quale almeno deveano haver recorso m’anco essi li mandavano molti prisenti”. Ferdinando Galasso di Serino, un testimone del processo che si aprirà l’anno seguente contro gli Orsini, sostenne che la gente arrivò a vendere “per non posserno sopportare tanti allogiamenti de soldati, homini de cavalli, bigie et che la detta Illustrissima Domina li teneva franchi di detti allogiamenti che se non li fosse stato fatto dette promissioni fu de franchitia di detti allogiamenti che loro non se fariano venduti”. Confermando che “la Compagnia dello Signor de Mendoza dislogiò da Solofra se vende ad allogiare in Serino dove ge stette da due giorni allogiati et esso testimonio allogiò uno preite de detta compagnia insieme con un altro soldato spagnuolo et decevano ad esso testimonio et ad altre persone de Serino come la Compagnia de detta Belardino la haveria fatta venire in Serino lo Signore de Solofra per quello loro di interesse”. Da: www.solofrastorica.it, L’Universitas di Solofra contro Beatrice Ferrella Orsini, 1578-1583, I Capitoli di accusa presentati dalla Universitas, Articuli super quibus examinandi sunt testes ad instantia Universitatis terra Solofre in causa quam habet in Regia Camera Summaria et quoram Eccellente Domino Anibale Moles cun Illustrissima Beatrice Ferrella utili domina ditta terra super petitione Regii demani preditta terra et alias ut in actis est.
Nè si potevano rimostranze contro Mendoza, il quale, godeva di molti feudi nel Regno. Basti pensare che questa famiglia di militari fu la prima a giungere ne Regno e ad essere premiata con Berardino Mendozza, il quale ebbe a ricoprire la carica di Vicerè di Napoli fra il 1555 e il 1556, guadagnandosi i suoi successori i titoli di Principe di Melito e di Marchese della Valle Siciliana e restando castellani in Napoli, avendo nelle mani Castel S. Elmo e Castel Nuovo, le due principali fortezze del Regno dopo Capua e Gaeta. Nessuno simpatizzava per loro, specie per il discendente Duca d’Ossuna, il quale, nel 1620, aspirerà addirittura all’insano disegno di utilizzare le soldatesche mercenarie, a lui devotissime, per detronizzare Re Filippo e sedersi sul trono di Napoli. V. Giambattista Masciotta, Gambatesa: Il Molise dalle origini ai nostri giorni, Vol.II, Il Circondario di Campobasso, Napoli, Stabilimento Tipografico Luigi Pierro e figlio, 1915. Così scrive: La famiglia Mendozza era venuta nel Regno con Berardino Mendozza (stato Vicerè di Napoli nel biennio 1555-1556), avente per arma: un’insegna angolare con nei quarti superiore ed inferiore una banda rossa in mezzo a due bande verdi divise fra loro da una piccola lista d’oro; e nei quarti laterali, a campo d’oro, in quello di sinistra la parola AVE e in quello di destra GRATIA PLENA. I Mendozza godevano molti feudi nel Regno, e due rami della stirpe portavano rispettivamente i titoli di Principe di Melito e di Marchese della Valle Siciliana. Il Conte di Gambatesa Antonio Mendozza e suo fratello Alvaro erano nel 1620 Castellani in Napoli; il primo di Castel S. Elmo, il secondo di Castel Nuovo. Il Vicerè d’Ossuna, pei costumi libertini e pel pessimo governo, erasi alienate non solo la nobiltà e la borghesia della capitale, ma anche il popolo minuto. Nessuno simpatizzava per lui: tutti l’odiavano: e ciò malgrado egli aspirava alla corona di Napoli fondando l’insano disegno precipuamente sulle soldatesche mercenarie che gli erano devotissime. Re Filippo di Spagna, edotto del progetto, provvide a richiamarlo; e perché la cosa andasse nel più rapido modo, invece di nominare uno spagnuolo a succedergli, elesse di sottomano a Vicerè il cardinale Gaspare Borgia residente a Roma. Il duca d’Ossuna ebbe un lontano sentore della disgrazia, e cominciò a preparare misure di resistenza per fare il colpo vagheggiato; ma il cardinale Borgia non gliene diè il tempo. Sbarcato misteriosamente a Pozzuoli, entrò di sotterfugio in Castel Nuovo, e proclamatosi Vicerè vi ricevè senza indugio l’omaggio della nobiltà e della popolazione. D. Alvaro di Mendozza e il Conte di Gambatesa, fedeli al Sovrano, si prestarono ciecamente alla manovra del Cardinale, risparmiando a Napoli chi sa quali scene selvagge di sangue e di terrore, essendo noto che l’Ossuna aveva promesso il sacco della città alle soldatesche non appena conseguito l’intento!
Francesco Zazzera è autore poco noto di una particolareggiata narrazione dell’avvenimento. Donna Francesca Lombardo nel 1631 vendè Gambatesa a Vespasiano Nardo, per 36.000 ducati. In prosieguo di tempo il Nardo vendeva, a sua volta, il feudo a Giulio Cesare de Regina duca di Pesche, della cui famiglia diamo i ragguagli nella mon. di Macchia di Valfortore. Dopo la morte di Maria Vincenza de Regina, unica erede del medesimo, Gambatesa esposta all’asta venne acquistata in pubblico incanto da Giuseppe Ceva Grimaldi marchese di Pietracatella. La famiglia Ceva Grimaldi rimase feudale di Gambatesa forse sino all’eversione della feudalità. Di essa, e dei suoi titolari, diamo ampi ragguagli nella mon. di Pietracatella.
Un’altra scelta, in verità poco felice, fu quella che ricadde su Don Pedro a Vicerè. La gente non mancò di ribellarsi (1585) neppure al Duca d’Ossuna, il quale mandava in Spagna tutto il grano del Regno, togliendo anche il minimo indispensabile delle provviste. La conseguenza fu una anomala carestia che fece scarseggiare la farina e lievitare il prezzo del pane. Sceso per le strade il popolo decise la rivolta per il 9 gennaio 1585 dandosi appuntamento a S.Maria la Nova. L’accusa partì a danno del magistrato eletto del popolo, Giovanni Vincenzo Starace, complice di non aver evitato l’aumento dei prezzi. L’ignoranza era tale che alla vista della furia della plebe Starace ancora minacciava quei miserabili popolani dicendo: “Andate via! O vi farò mangiare pane di terra”. La frase, narrata da un suo seguace, fu la scintilla scatenante che accese il popolo e creò il tumulto. Starace fu bastonato, denudato e ferito a morte. Il suo corpo, trascinato per le strade, venne fatto a pezzi e privato della testa davanti al Palazzo del governo. Si racconta che i brandelli di carne vennero in parte mangiati, in parte inforcati e portati in giro sulle picce mentre l’abitazione del magistrato veniva ripulita dai tumultuanti e i bottegari serravano i locali. Altri funzionari subirono la stessa sorte finchè il Vicerè non pubblicasse un bando con cui annunciava l’ordine ai fornai di vendere il pane al prezzo di sempre. Nelle ore successive, in massima segretezza, furono a loro volta giustiziati i caporioni. Ossuna prese ad esempio la morte di Starace, per vendicarsi con 500 arresti e 31 esecuzioni capitali. Non contento, fece mozzare le mani ai cadaveri delle vittime, appendendoli, insieme alle teste, in un gabbione di ferro allestito per l’occasione davanti alla casa di Storace. Ossuna venne sostituito nel 1586 dal conte di Miranda Juan de Zunica, un abile e onesto diplomatico, fra i più temperati e longevi vicerè dell’epoca.
2. Girolamo Ruscelli Proemio ai Secreti nuovi di maravigliosa virtu, Vinegia 1567. La trascrizione è di Massimo Marra. Il testo di Girolamo Ruscelli (1500-1566) esce postumo a Venezia nel 1567, dopo la morte dell’autore, celatosi dietro l’identità del misterioso Don Alessio Piemontese in decine di edizioni tradotte in italiano, latino, tedesco, inglese e francese di un prototipo di fotunati “libri di secreti”, una raccolta di ricette e di Secreti, fra cui il Proemio ai Secreti nuovi di maravigliosa virtù, di importante valore storico e documentario, che testimonia l’esistenza di una Accademia alchemica nel Regno di Napoli, quando, intorno al 1541, il Ruscelli si trasferisce dalla corte romana del Cardinale Grimani a quella del Marchese Alfonso D’Avalos. Eamon collega il Ruscelli all’ambiente intellettuale e scientifico raccolto intorno alla corte del Principe di Salerno Ferrante Sanseverino, alleato dei D’Avalos contro il viceré spagnolo Pedro da Toledo, che si accosta all’Accademia Dei Segreti fondata e diretta a Napoli, intorno al 1560, da Giovan Battista Della Porta. Cfr. W. Eamon, La scienza e i segreti della natura. ECIG, Genova 1998. N. Badaloni, Fermenti di vita intellettuale a Napoli dal 1500 alla metà del ‘600 in Storia di Napoli, vol V tomo 1 pp.641\689, Napoli. M. Marra, Il Pulicinella Filosofo Chimico – uomini e idee dell’alchimia a Napoli nel periodo del viceregno, Mimesis, Milano 2000. G.Ruscelli, Secreti nuovi di maravigliosa virtù. Vinegia 1567.
Sulle notizie riportate V. Appendice all’edizione del 1599 del Della trasmutazione metallica sogni tre, di Giovanni Battista Nazari bresciano, Brescia, tra il XVI ed il XVII secolo. Le parti trascritte da Massimo Marra occupano da pag. 211 a pag. 231 dell’edizione citata, e sono il “Libro Chiamato Novo Lume”, il “Libro chiamato Magisterio et Allegrezza” e la “Epistola dell’autore al Re di Napoli”.
3. I Vicerè sotto Filippo II.
1. Bernardino Mendoza (1555-1556)
2. Ferdinando Alvarez di Toledo, Duca d’Alba (1556-1558)
3. Giovanni Manriquez di Lara (1558)
4. Cardinale Bartolomeo della Cuera (1558-1559)
5. Don Pedro Afan de Rivera, Duca d’Alcalà (1559-1571)
6. Antonio Perento, Cardinale di Granvela (1571-1575)
7. D.Imigo Lopez de Mendoza, Marchese di Mondejar (1575-1579)
8. Don Juan de Zuniga (1579-1582)
9. Don Pedro Tèllez Giròn, Duca d’Ossuna (1582-1586)
10. Don Giovanni de Zuniga, Conte di Mirando (1586-1595)
11. Don Enrico di Guzman, Conte di Olivares (1595-1599).
4. Manso fu grande amico di Torquato Tasso. A lui dedicò l’ultimo dei dialoghi, intitolato Il Manso o vero De L’Amicizia, nel 1592. Tasso quando scrisse questo dialogo inviò una breve lettera al Manso, poi riportata da Cesare Guasti, nella stessa prefazione ai Dialoghi come Lettera di Torquato Tasso a Gio Battista Manso. Ecco il testo: Le manderò dunque il dialogo de L’Amicizia ec, e il consacrerò a la memoria immortare di Vostra Signoria; quasi un tempio, nel quale possa ricoverarmi ne l’avversa fortuna (BPA, Fondo Del Balzo, I Dialoghi, Prefazione di Cesare Guasti, 4 settembre 1592. A dire dello stesso Guasti il Manso ne scrisse eziandio la vita; la quale, sebbene tenuta in poco conto dal Serassi per le non poche inesattezze, è ricca di aneddoti che solo il Manso poteva sapere e narrare per la molta e lunga familiarità che ebbe con Torquato (BPA, Fondo Del Balzo, I Dialoghi, Prefazione di Cesare Guasti, 4 settembre 1592). Nella prefazione che fa Tasso al dialogo specifico dedicato a Manso, da egli stesso detto Giovanbattista Manso marchese della Villa, ne fa un elogio per la cortesia e l’ospitalità. Questa la prefazione al dialogo Il Manso di Torquato Tasso a Giovan Battista Manso: Il signor Giovan Battista Manso con la nobiltà del sangue, con la gloria dei suoi antecessori, con lo splendore de la fortuna, ha congiunta per lunga consuetudine tanta cortesia e tanta affabilità ne la conversazione, ch’a ciascuno è più agevole interrompere i suoi studi, che a lui medesimo quelli de’ suoi domestici e famigliari: e quantunque egli sia desideroso d’imparare ed intendere sempre cose nuove, è nondimeno ne le belle lettere e buone lettere ammaestrato, ed avvezzo ne la lezione de gli ottimi libri, e di sì alto intendimento, che ne’ luoghi più oscuri e ne’ passi più difficili de la filosofia e de l’istorie è simile a coloro i quali caminano per via conosciuta; laonde non hanno bisogno fi guida, ma possono fare la scorta a gli altri. (BPA, Fondo Del Dalzo, Dialogo di T.Tasso, Il Manso, Prefazione di Torquato Tasso, 1592). Il reciproco rispetto spinse il Manso a scrivere un libro sulla vita e sulle opere del Tasso, Vita di Torquato Tasso scritta da Gio: Battista Manso napolitano Sig. della città di Bisaccio e di Pianca, edito a Venezia nel 1621. In questa opera sono riportate due lettere del Tasso al Manso nelle quali viene espressa a chiare lettere la stima del poeta per il marchese di Chianche. Questa la lettera di Torquato Tasso inviata da Roma a Gio Battista Manso: Verrò, nè senza speranza di riaver la salute in quello patrio cielo, ove hebbi il principio della vita, ò pure nell’aria natia di Surrento, ma molto più nel veder voi mio Illustrissimo Padrone, e singolarissimo amico, per non dimenticarmi nè il debito della mia servitù, nè il dono che mi havete fatto della vostra amicizia (BPB, Manso, Vita del Tasso. Venezia, 1621). Questa, invece, la lettera di Torquato Tasso a Gio Battista Manso: In me possono più i comandamenti di VS che i prieghi di qualunque altro, e più le sue persuasioni, che l’altrui ragioni, quantunque accertate e credute da me, ma niuna cosa credo più certamente di quella che VS sia tanto prudente per se stessa quanto amorevole verso di me, che io non posso errare nell’ubbidirla. Verrò dunque quanto prima (BPB, Manso, Vita del Tasso. Venezia, 1621). Dal passo che riproduciamo si parla del viaggio di Tasso e Manso nella città di Bisaccia, della cui aria salubre il poeta aveva gran bisogno per rimettersi dalla sua cattiva salute: Torquato prese opportunità d’irsene con Giò Battista Manso, nella sua città di Bisaccio, ove egli andava per non molti giorni per rassertare alcune gravi discordie nate fra quei suoi vassalli, come il Manso medesimo scrisse al Còte, nella lettera da noi sopraddotta quando favellammo dello spirito, che a Torquato pareva di vedere. Qui egli se ne stiè lietamente tra diporti delle caccie, e delle danze (come nella stessa lettera si racconta) e molto più dell’improvviso poetare di quegli, che colò chiamano Opponitori, e altrove Improvvisatori si dicono; i quali sopra qualunque materia, che lor sia data, al suono di lira, o d’altro stormento pianamente cantando compongono repente i versi loro; e le più volte fra essi a gara con premi stabiliti a sentenza del Giudice, acciò eletto a chi più attamente di lor verseggia. Di questi Improvvisatori produce gran dovitia la Puglia, onde molti ne concorsero dal Manso, assai amato in quella Provincia, e di essi Torquato prende un mirabil piacere invidiando loro quella prontezza nel versificare di cui diceva egli essergli stata così avara la Natura. Ma essendosene egli nella fine dell’Autunno ritornato col Manso in Napoli. Una suggestiva tradizione locale, riporta Gianpiero Galasso ne I Comuni dell’Irpinia parlando di Bisaccia, vuole che nel 1588 nel castello fu ospitato dal marchese Giambattista Manso il poeta Torquato Tasso, in quel tempo già infermo di mente. Sappiamo anche di una conversazione che in una nevosa serata d’inverno fu tenuta dalla contessa di Aversa, Maria di Padiglia, il vescovo di Bisaccia Antonello Folgore, il Tasso e il Manso: presenti quattro damigelle che accompagnavano la contessa. Alcuni storici hanno però negato la presenza del Tasso a Bisaccia, in quanto da atti notarili di età rinascimentale si ricava che fin dal 1571 il feudo non era più del Manso e nel 1588 apparteneva a Ferrante Ii Conzaga (G.Galasso, I Comuni, WM Edizioni). Sicuramente, invece, come risulta dagli stralci del libro del Manso che abbiamo riportato, Tasso e Manso furono insieme, a questo punto prima del 1588, proprio a Bisaccia, quando Manso era signore di Bisaccia e di Pianca.
5. Secondo alcuni Basile nacque in Giugliano nel febbraio del 1566. Secondo altri era di Avellino, dove sarebbe nato nel 1575. Dopo il servizio militare a Venezia, Basile fu infatti governatore di diversi feudi del Viceregno, ma soprattutto di Avellino per conto dei Caracciolo. In onore del Principe Marino Caracciolo di Avellino, da poeta, avrebbe composto in lingua solo l’idillio L’Aretusa (1618), e, dedicandola a Domenico Caracciolo Marchese di Bella, buttato giù una struggente storia d’amore e di morte Il guerriero amante (1619).
Versatile e brillante, fece parte dell’Accademia degli Stravaganti e dell’Accademia degli Oziosi. Anche la sorella Adriana divenne una nota cantante di corte.
Lo Cunto de li Cunti, altrimenti detto Pentamerone, è la sua opera più conosciuta, attingendo dalle tradizioni dall’entroterra napoletano a quello casertano e salernitano, ma soprattutto avellinese e lucano.
Secondo Benedetto Croce, deluso dalla pochezza della classi dei nobili, diede voce al popolo: quello della cucina napoletana della Taverna del Cerriglio, come alle fiabe di Creta, ma gli piacque soprattutto l’aria dei cortigiani, fra cui trascinò anche il fratello, specie presso la corte del Principe Luigi Carafa, dov’era anche la sorella e al quale dedicò Le avventurose disavventure (1611), una favola erotico-mitologica in cui arricchita con gli ambienti dei pescatori. Così come fu alla corte del Duca Vincenzo Gonzaga a Mantova, fino a quando non sposò Flora Santora di Giugliano.
Nel 1621diede alle stampe “Immagini delle più belle dame napoletane ritratte da’ loro propri nomi in tante anagrammi”, scritto durante i viaggi fra Irpinia e Lucania, in cui non mancano la sciarada e il rebus.
Alla corte del Viceré Don Alvares di Toledo insieme alla sorella, gli dedicò cinquanta Ode per la riconoscenza del ricevuto incarico di Governatore di Aversa. Passò poi alla Corte di Galeazzo Pinelli Duca d’Acerenza, il quale lo nominò Governatore feudale di Giugliano, dove morì nel 1632.
Basile viene studiato perchè molti racconti, come Cenerentola, La Bella addormentata nel bosco e Il Gatto con gli stivali, sono dei veri adattamenti originati dai suoi racconti tradotti in tedesco appena un secolo dopo, come il “Cunto”, che influenzò favolisti del calibro di Perrault, Gozzi, Wieland.
6. Pietro Giannone (Ischitella di Puglia 1676 – Torino 1748) fu giurista e uomo politico. Nel 1694, dopo i primi religiosi, si trasferì a Napoli alla scuola di Domenico Aulisio, ottenendo il dottorato e dedicandosi all’avvocatura. Pubblicò l’Istoria civile del Regno di Napoli, sulle origini di leggi e costituzioni, sottolieando gli abusi del potere ecclesiastico verso i sovrani, e le violazioni della Curia romana in materia di exequatur, diritto di asilo, immunità e privilegi, attaccando l’accumulazione dei patrimoni da parte della Chiesa e la iniqua istituzione del Tribunale dell’Inquisizione. Scappò all’estero per la scomunica e rientro in Italia nel 1737, quando Carlo Emanuele III lo fece prigioniero e morì in carcere. V. anche Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli, Cap.1, XIV.
7. Eliseo Danza nacque a Montefusco il 20 maggio 1584 e fu battezzato nella parrocchia di S.Pietro dei Ferraris, ora scomparsa, come si legge nel libro dei Battezzati: Anno Domini 1584 die martis quae fuit 22 mensis mai ego Philippus Nardone Parochus Ecclesiae Sancti Petri de Ferrariis Terrae Montis Fuscoli Baptizavi Eliseum – Filium – Legitimum et Naturalem – Magnifici – Notarii – Donati – Danza et Magnificae – Camillae Tora – Dictae Terrae; Natus die Dominica quae fuit 20 eius dem mensis; Meneca Pennino eum de Sacro Fonte Levavit (morì nel 1660 ca).
Eliseo Danza fu giureconsulto e scrittore di vasta notorietà al suo tempo, ricoprendo la carica di avvocato dei poveri nelle regie Udienze di Basilicata e di Principato Ultra e nella Gran Corte della Vicaria di Napoli. Fu anche sindaco di Montefusco, paese nativo, e autorevole membro di molte Accademie tra le quali quella Degli Offuscati nella stessa Montefusco, quando le accademie erano cenacoli di varia cultura e mezzo principale di diffusione del sapere. Danza scrisse svariate opere, tutte di argomento giuridico, che si possono trovare nella Biblioteca Nazionale di Napoli e in quella Provinciale di Avellino. I suoi lavori di maggiore impegno e mole sono il De Privilegis Baronum e il De Pugna Doctorum. De Privilegis Baronum, come vademecum e punto di riferimento grazie alla sua rapida consultazione legale. La prima edizione napoletana (1651) fu seguita dal De Pugna Doctorum, opera in tre grossi volumi dei quali i primi due furono editati a Montefusco (1636) da un tipografo ambulante e il terzo a Napoli (1648).
8. Leggiamo insieme il libello su Danza: Ho detto sopra che in virtù della Prammatica emessa dal Vicerè Duca d’Ossuna l’11 aprile 1584, per aversi una banda armata ( armatio per campaneam ) si richiede che sia composta almeno da quattro persone. Fu infatti ritenuto che quattro uomini armati e in comitiva costituiscono un pericolo per i viandanti anche se viaggiano anch’essi in comitiva. La pena stabilita dalla Prammatica per i componenti le bande armate è la pena capitale. Ora si presenta una bellissima questiona: se in questo numero di quattro fosse compresa una donna, si potrebbe applicare la pena stabilita dalla Prammatica? Questo caso si verificò. Venne infatti catturato da questo regio Tribunale certo Vincenzo Sobriella della città di Benevento. Egli, sottoposto a tortura, confessò che per alquanto tempo aveva battuto la campagna con Ottavio Mottola e Vincenzo Cenzullo di Monterocchetta, e che ad essi si era poi aggregata una donna, certa Grazia di Benevento. La donna aveva mutato i suoi vestimenti femminei in abiti maschili, si era fatta tagliare i capelli così che sembrava un uomo anzichè una donna, Ecco le parole della confessione del Sobriella = et in detto pagliaro stemmo a dormire la detta notte e lo mercoldì mattina ce ne ritirammo dietro di uno macchio, poco distante da detto pagliaro, e là stemmo io, detto Cenzullo, Grazia e Ottavio Mottola, quale andò poi a Benevento per robba da mangiare e poco dopo tornò e portò pane, vino e casocavallo et in detto macchio stemmo tutto il giorno dove detta Grazia se guastò lo sottaniello giallo che portava e se ne fè essa stessa un paro de calzoni e detto Ottavio le fè la zazzerina accortandole li capelli della testa, di modo che pareva huomo naturale… Aggiunse il Danza sulle donne: Nè si dica che il guerreggiare e il rapinare siano uffici virili che non competono alle donne. Ciò è vero infatti, ma solo generaliter et non semper. Vi sono certe donne che per coraggio, astuzia e malvagità superano spesso gli uomini. Il Bouadilla riferisce che alcune donne usano questo stratagemma per liberare i loro mariti rinchiusi nei carceri; col pretesto di visitare i mariti carcerati si introducono, fingendo mestizia e dolore, nel carcere indi fanno indossare ai mariti le loro vesti femminili ed esse si vestono degli indumenti loro e così, mentre i mariti se ne escono inosservati, esse rimangono nel carcere, come fece la contessa Donna Sancia moglie di D. Alfonso e il Re non solo non la punì ma la rimandò libera. Ora, per tornare alla donna della quale stiamo parlando, questa Grazia fu così disonesta, sfrenata, libidinosa, senza nessun timore di Dio, che non esitò ad aggregarsi in campagna ai banditi e perchè? Non certo per una innocente battuta di caccia, ma per commettere delitti. Perchè mutò il suo aspetto, il suo stato, la sua condizione e volle diventare uomo? per poter meglio delinquere. Io dico allora che questo caso si deve includere nella Prammatica e in virtù di essa si deve imporre a tutti e quattro la pena di morte (Ivi, II, 155).
9. Leggiamo insieme sempre il Danza per un fatto accaduto nel mese di novembre del 1633, quando Molinaro Fu visto da molti nel mercato, ma non fece ritorno a casa sua nè di lui si seppero più notizie. Ma si sparse la voce che era stato ucciso mentre da Atripalda ritornava a Summonte. Pertanto Pietro Antonio Molinaro, suo fratello, e Clementina Melillo, sua moglie, vennero in questo regio tribunale e sporsero querela per detto omicidio e indicarono come sospetto tale Angelo Pacillo della Terra di Capriglia. Il loro sospetto si fondava su due motivi, primo perchè il detto Pacillo aveva chiesto in moglie Angelina Melillo, cognata dell’ucciso, ma questi si era adoperato per mandare a monte il matrimonio per disparità di condizione, secondo perchè il Pacillo era stato estromesso dall’affitto di una masseria per la quale Gian Domenico Molinaro aveva fatto una offerta più vantaggiosa al proprietario. Per tali motivi i due erano divenuti nemici. Fu nominato un commissario della causa il quale nell’istruttoria raccolse le prove della partenza da casa del Molinaro, del suo non avvenuto ritorno ad essa, della sua inimicizia col Melillo nonchè di alcune minacce contro di lui dal Melillo in più di una occasione pronunziate. Si presentarono inoltre alcuni testimoni i quali asserirono d’aver sentito dire da alcuni viaticali di Lauro di aver visto detto Gian Domenico Molinaro morto, disteso per terra in un bosco presso Atripalda. Ma poichè il cadavere non fu trovato in quel posto, i testimoni insinuarono che era stato asportato dall’omicida aiutato da un suo fratello. Ma il cadavere non fu trovato in nessun posto. Questo delitto sembrò a tutti troppo spietato e degno di rigorosa pena. Per tanto il Melillo fu arrestato e incarcerato, e il Fiscale a gran voce andava dicendo: sia impiccato, sia impiccato!
Io che ero stato scelto come avvocato difensore dell’imputato mi opposi fortemente al Fiscale dicendo che senza trovare il corpo del reato, cioè senza il cadavere dell’ucciso, non si poteva nemmeno indire la celebrazione del processo. Nei delitti di omicidio infatti non bastano le congetture e gl’indizi e nemmeno la stessa confessione dell’imputato, bisogna trovare il cadavere dell’ucciso.
Il Fiscale però, respinte le mie ragioni, richiedeva l’immediata celebrazione del processo e l’esemplare punizione dello imputato, dicendosi pago degli indizi accertati. Mi sembrò che i Giudici non fossero alieni dalle tesi sostenute dal Fiscale. Già vedevo il mio cliente pendere dalla forca. Allora, per prendere tempo, sollevai un incidente procedurale chiedendo che la causa fosse rimessa alla Curia del Barone di Capriglia, patria dell’imputato. Si cominciòn allora a discutere sulla mia richiesta ma mentre noi nella Curia furiosamente discutevamo, Gian Domenico Molinaro, il presunto morto, ricomparve nel suo paese vivo, libero, illeso e sano. Disse che in quel giorno, quando andò ad atripalda, aveva trovato nel mercato un suo antico padrone della città di Venosa col quale se n’era andato in Puglia dov’era rimasto per tutto il tempo della sua assenza dal paese. Mi sia lecito dare un consiglio ai Giudici: nei delitti di omicidio guardatevi, come dal fuoco, dal prestar fede ai testimoni e dal dare troppo peso agli indizi, per prima cosa trovate il cadavere (Ivi, II, 350).
Le “tre facce dell’avvocato” sono nel De Pugna Doctorum (II, 573). Il brano è tratto da un libello sul Danza. Scrive l’autore: Come nel deserto di tanto in tanto si incontrano delle oasi, così come nelle oasi del Nostro: queste oasi, che ravvivano l’arido deserto giuridico del Danza, sono alle volte delle rapide annotazioni di costume che ci permettono di conoscere idee e modi di vita del suo tempo. Il piu delle volte sono invece episodi legati a processi ai quali l’autore aveva preso parte o come avvocato difensore o come Pubblico Ministero ( o Fiscale come si diceva allora ), sono squarci di arringhe, raccontati, in un delizioso latino, con tanta immediatezza, con tanto amore del particolare, con uno stile così vivace che non possono non piacere a quanti amano soprattutto la descrizione delle minute manifestazioni della vita di ogni giorno. E per questo genere di annotazioni non c’è un miglior punto di osservazione dell’aula di un tribunale. Altre volte il Danza affronta certe grandi questioni morali e sociali ( aborto, adulterio ecc…) e lo fa con tanto equilibrio e con tale abbondanza di osservazioni, che ci permette di conoscere le idee correnti e gli orientamenti giuridici del secolo XVII su problemi che sono di tutti i tempi e di tutte le società. Crediamo pertanto di fare cosa grata ai lettori della “Rassegna” offrendo loro in lettura qualche pagina di questo simpatico scrittore del Seicento che ci è sembrata particolarmente interessante. Danza scrisse anche che gli avvocati avevano tre facce: I litiganti prima e durante la causa promettono mari e monti al proprio avvocato. Lo supplicano di assisterli con tutte le sue forze, lo esortano ad andare fino in fondo, perchè essi non badano a spese. Ma, finito il processo, non solo non mantengono le promesse, le negano anzi, ma fuggono dalla faccia dell’avvocato come da una peste. Donde è sorto quell’adagio, esser cioè tre le facce dell’avvocato: di Uomo, prima della causa, di Angelo Protettore, durante la causa, di Demonio da fuggiren assolutamente, dopo della causa. Siano pertanto cauti i colleghi avvocati e si servano di quella massima di Broccardo: farsi pagare prima o durante la causa, perchè una volta uscita la sentenza non c’è chi paga.
10. Ivi.
11. Ciò fu chiesto “nel celebre Tribunale di Apollo da D. Vittoria Colonna la quale a nome di tutto il femineo sesso si lamentò della facoltà data dalla legge al marito di poter uccidere, nelle sopradette circostanze, la moglie, mentre tale facoltà non è concessa alla moglie contro il marito adultero”. Ecco Boccalini: L’eccellentissima Signora Donna Vittoria Colonna, Principessa di esemplar castità, tre giorni or sono comparve nell’Udienza di Sua Maesta e a nome di tutto il sesso femminile disse che le donne tutte, tanto amavano l’eccellenza della pudicizia, la quale per particolarissima virtù erab stata data loro, che punto non invidiavano la fortezza, virtù attribuita al sesso virile, perchè benissimo conoscevano che una signora senza l’anima della castità, che la rende odorifera al mondo, è un fetente cadavere. Ma che solo pareva loro di potersi con molta ragione dolere della grandissima disuguaglianza che tra il marito e la moglie si vedeva nel particolare della pena dell’adulterio; non potendo le donne quietarsi che gli uomini maritati talmente se ne stimassero liberi che nè meno la pena della vergogna, che agli uomini honorati suol essere di tanto spavento, potesse raffrenarli dal commettere verso le mogli loro i bruttissimi mancamenti di scelleratissime libidini, nei quali disordini, disse, che eglino tant’oltre erano passati che molti mariti, non solo non si vergognavano di pubblicamente tener la concubina in casa, ma che alcune volte avevano ardito d’ammetterla con la medesima moglie nel sacrosanto letto coniugale. Tutti eccessi che si commettevano perchè dalle leggi con quelle stesse severe pene non si era provveduto all’impudicizia dei mariti le quali erano state fulminate e si vedevano praticate contro la moglie adultera, et che in questo particolare di modo le leggi si erano mostrate favorevoli agli uomini che a loro che trovavano le mogli loro in adulterio fino s’erano contentate che con le mani loro si fossero vendicati di quell’ingiuria. Per li quali molto notorii aggravi il sesso femminile era stato violentato ricorrere al chiarissimo fonte della retta Giustizia al fine che nella parità del medesimo delitto, pubblicandosi pene uguali, competente rimedio si desse all’oppressione loro. Et che se ciò a Sua Maestà non piaceva, che rimanesse almeno servito di concedere nello adulterio la stessa licenza al sesso femminile che pretendevano godere gli uomini. E che simile licenza chiedeva non già perchè havessero le donne animo di servirsene, ma per poter con lo spavento di tener a freno i libidinosi mariti loro. Alla domanda della signora Vittoria Colonna rispose il Tribunale di Apollo che la legge della fedeltà tra il marito e la moglie doveva essere uguale: a questa risposta di honorato rossore si tinsero le bellissime gote della Signora Donna Vittoria la quale con romana ingenuità a Sua Maestà confessò la semplicità della sua domanda e disse che al sesso femminile scorno troppo grande sarebbe stato se nel pregiato dono della castità si fosse lasciato vincere dagli animali bruti. Boccalini in Eliseo Danza, De Pugna Doctorum, I, 525. Aggiunse il Tribunale che il difetto di chi la violava non meno meritava d’esser punito nell’uno che nell’altra, ma che nelle mogli si desiderava più perfetta pudicizia per il rispetto grande di quella certezza dei figliuoli per la quale al sesso femminile fu data la prestante virtù della pudicizia mercè che nella procreazione del genere umano, così ai mariti era necessaria la certezza della prole, che senza la virtù della castità delle madri, i figliuli loro non meno perdevano l’eredità che l’affezione dei padri loro, cosa cotanto vera che la stessa sapientissima natura a tutti gli animali della terra, dove il maschio concorre alla fatica di covar l’uova o di nutricare i loro piccoli figliuoli, haveva data la moglie pudica, tutto al fine che li stenti dei padri, impiegati per la salute dei figliuoli loro, fossero dolci dispendi, consolazioni et guadagni grandi.
A questa risposta di honorato rossore si tinsero le bellissime gote della Signora Donna Vittoria la quale con romana ingenuità a Sua Maestà confessò la semplicità della sua domanda e disse che al sesso femminile scorno troppo grande sarebbe stato se nel pregiato dono della castità si fosse lasciato vincere dagli animali bruti i quali ancor chè niun’altra cosa propensatamente seguono che il diletto, per non togliere nondimeno con le libidini loro il prezioso padre ai loro figliuoli, religgiosissimamente osservavano la castità e che per la potenza della cagione perchè i mariti desideravano le mogli loro pudiche, la legge dell’adulterio verso le maritate lascive troppo era stata piacevole, perchè la ferita dell’impudicizia dei mariti alle mogli solo forava la pelle, ma che le maritate con l’adulterio loro col pugnale d’una eterna infamia uccidevano i mariti et vituperavano i propri figliuoli.
12. Questo il testo di Danza: Ho trattato sopra della moglie che diventa odiosa al marito e da ciò prendendo l’occasione voglio trattare di una disputa che presso di noi è assai grande, se cioè sia lecito alla moglie di un Uditore tener cuscino in chiese, durante le pubbliche funzioni, o se invece tale privilegio spetta solo alla moglie del Preside. Coloro che propendono per la sentenza affermativa dicono che è lecito perchè ogni moglie viene come irradiata dai raggi del marito e quindi deve godere di tutte le prerogative e le dignità di quello e ciò deve valere sia per la moglie dell’Uditore sia per la moglie del Preside perchè non si deve ammettere un diverso trattamento quando unica è la fonte del diritto.
Ma tu, o lettore, sappi che tale privilegio spetta solo alla moglie del Preside, e non a quella dell’Uditore, perchè così fu espressamente disposto con lettere spedite per il caso che si verificò nella R. Udienza di Montefusco.
( A tergo )- Al Dott. Antonio Albertino Regio Uditore nella Udienza di Montefusco. ( Intus )- Ho inteso le differenze che sono state rappresentate per il coscino della signora sua moglie quando assiste la signora Donna Bice Caracciolo, moglie del Preside, e comunicatele con persone di qualità et esperienza che amano la quiete, sono state di parere che non possa tener coscino nessuna persona in concorrenza di detta signora moglie del Preside et in questa conformità si servirà V.S. far osservare che per servirla non si domanda la decisione di S.E. Alla Signoria Vostra priego da Nostro Signore il colmo di ogni felicità et grado maggiore. Napoli 28 agosto1643. Il Duca di Caivano servitore osservantissimo di V.S. Arrivata questa lettera, l’Uditore Albertino e la moglie non ritennero di farne conto per molti motivi e specialmente perchè non proveniva dal Signor Vicerè che ha il potere di decidere e di comandare, infatti nella lettera non figurava la formula solita ad apporsi “d’ordine di Sua Eccellenza”.
13. Vittoria Colonna, figlia di Fabrizio Colonna, nacque nel 1490 nel Castello di Marino. Nel Castello d’Ischia, invece, nel 1509, sposò Ferrante Francesco d’Avalos, Marchese di Pescara, il quale, nel 1521, diverrà Capitano generale delle truppe imperiali, lasciando questo mondo nel 1525, quando Vittoria frequentò conventi e cenacoli intellettuali per innalzare lo spirito. Raffaele Castagna, Un cenacolo letterario del Cinquecento sul Castello d’Ischia, pag. 2. Castagna ricorda che “Ischia con il suo Castello nel primo ‘500 fu un vero e proprio centro culturale che aveva spesso in Vittoria Colonna l’ispiratrice e l’oggetto della produzione lirica. Ma non bisogna trascurare il ruolo di altre donne, quasi tutte principesse, già regine o comunque dotate di comando e di peso politico, che per vari anni dimorarono sul Castello: Costanza d’Avalos, la quale “colta e affascinante, a quarant’anni era ancora cantata dai poeti”; Isabella d’Aragona; Isabella del Balzo; Giovanna d’Aragona, che ebbe “intorno a sé, a Ischia e a Castel dell’Ovo, poeti da lei protetti, che adornavano le sue sale e l’aiutavano a passar il tempo piacevolmente”; Maria d’Aragona e Beatrice d’Aragona. E poi: Stando a Rodolfo Renier che studiò il Carteggio di Vittoria Colonna: «Dei convegni d’Ischia e dei rapporti che legavano i minori di quei poeti con Vittoria poche notizie si hanno, ed il Reumont ne parla appena e malamente. Vi accenna il Morpurgo, ma non sa darne nuove e particolari notizie. Forse chi avesse agio di esplorare a fondo le biblioteche di Napoli, in cui v’è da pescare ancor tanto, aggiungerebbe dell’altro». E ancora: Suzanne Thérault, in Un Cénacle humaniste de la Renaissance autour de Vittoria Colonna châtelaine d’Ischia, pubblicato nel 1968 dalle Edizioni Sansoni Antiquariato di Firenze e dalla Librairie M. Didier di Parigi: «Il gruppo d’Ischia ci è parso suscettibile di due considerazioni: la prima, di una corte spirituale, fatta di relazioni, di dedica di lavori poetici, di alcune frequenti presenze e di visite, tanto più verosimili se si evidenziano la facilità con cui ci si spostava allora e lo spirito migratore delle genti di lettere e d’armi; la seconda, di una corte reale, formatasi dietro la spinta di circostanze esteriori avverse, di cui spiriti nobili attesero la fine, prestando ad esse un’attenta osservazione e dedicandosi ai giochi dello spirito. Ed è ciò che abbiamo soprattutto riportato all’evento centrale della battaglia di Capo d’Orso, la quale, in generale, ha molto impressionato gli storici».
14. Raffaele Castagna, Un cenacolo letterario del Cinquecento sul Castello d’Ischia, pag. 27. Castagna scrive che “Angelo Di Costanzo (Napoli 1507 – 1591) fu educato nell’ambito culturale della Napoli del primo Cinquecento. Iacopo Sannazaro lo esortò a scrivere una Storia del Regno di Napoli che uscì nel 1582 e gli valse molti elogi. Ebbe duri contrasti col viceré don Pietro di Toledo, sicché fu costretto a passare alcuni periodi di esilio (nel 1540 e nel 1547) nel suo feudo di Cantalupo. Secondo alcune ipotesi avrebbe amato Vittoria Colonna, entrando appunto in rivalità col viceré nell’ambire all’affetto per la poetessa. Angelo Di Costanzo, appartenente ad una delle famiglie più nobili e signorili di Napoli, nacque verso il 1507. In età di 20 anni, essendosi trasferito a Somma, per fuggire la peste che crudelmente infieriva nel Regno, insieme con Iacopo Sannazaro e Francesco Poderico, fu confortato da loro a por mano a scrivere le Storie di Napoli. Dopo averne pubblicato un saggio nel 1572, completò nel 1582 l’opera che vide la luce col titolo di Istorie del regno di Napoli. Se in questa parte degli studi, Di Costanzo ebbe come primi direttori il Sannazaro e il Poderico, fu il celebre Berardino Rota che gli diede poi stimolo e gli fu guida nella poesia latina e italiana, in cui così eccellente ei divenne (da Le Rime di Angelo Di Costanzo – Venezia, 1759).
15. Danza, op. cit., ivi. In realtà tale privilegio spettava solo alla moglie del Preside, perchè così fu disposto dalla Regia Udienza di Montefusco. Ma l’Uditore Albertino non prese in considerazione l’invito che gli verrà dal Duca di Caivano (1643), nonostante la minaccia di ricorso regio, “specialmente perchè non proveniva dal Signor Vicerè che ha il potere di decidere e di comandare, infatti nella lettera non figurava la formula solita ad apporsi d’ordine di Sua Eccellenza”. Per cui il litigio delle due dame continuò per il nuovo appello della signora Caracciolo.
16. Fu il Cardinale Antonio di Granvelle Perrenot, consigliere di Carlo V e prossimo a Vicerè, a consegnare a Don Giovanni d’Austria, figlio illegittimo del Re, lo stendardo e il bastone di comando che il pontefice gli aveva inviato quale comandante supremo della flotta allestita contro i Turchi.I rapporti tra lo Stato della Chiesa ed il vicereame sembrarono rilsaldarsi sotto il pontificato di Pio IV (1559-1565), a cui seguì quello di Pio V (1565-1572), il quale, dopo aver scomunicato Elisabetta d’Inghilterra, fece nascere la lega Cattolica che il 7 ottobre del 1571 batterà i Turchi a Lepanto con una flotta mai vista: 114 galee di Venezia al comando di Sebastiano Venier ed Agostino Barbarigo, 81 galee spagnole comandate da Giovanni Andrea Doria di Genova, 12 galee pontifice al comando di Marcantonio Colonna, 3 sabaude comandate da Andrea Provana e 3 Cavalieri di Malta. Navi con 20.000 uomini, fra cui migliaia di napoletani. La memorabile spedizione al comando di don Giovanni d’Austria, battè 208 galee e 70 legni leggeri turchi, facendo partire la venerazione all’effige della Vergine della Vittoria, conservata a Napoli nella chiesa di Sant’Orsola a Chiaja (lo stendardo è a Gaeta). La tensione fra Roma e Napoli restò però alta, specie quando fece visita alla capitale il vescovo di Stromboli Tommaso Orsini, il quale, mancò di andare a trovare il Vicerè, provocando aria da scomuniche, ritirate per intervento diretto di Filippo II.
17. James Fitzmaurice-Kelly, Vita, letture e sorte di Miguel De Cervantes, il ‘padre’ inquieto di Don Chisciotte (1605). Cervantes prese parte a diverse battaglie davanti, fra cui quelle di Navarino (1572), Tunisi (1573) e la Goulette (1573).
Don Giovanni era una potenza. Un suo cenno poteva distruggere o aiutare le persone. Furono lui e il Vicerè Duca di Sessa, nel settembre 1575, a scrivere le lettere di raccomandazione per lo scrittore Cervantes, imbarcatosi da Napoli e diretto in Spagna, sebbene l’autore di Don Chisciotte non vi arrivò in quanto, il 26 settembre, la nave Sol, fu attaccata dai pirati barbareschi di Algeri, i quali, fecero tutti schiavi per cinque anni. Cervantes non era nuovo alle avventure. Si era già imbarcato al seguito di Marc’Antonio Colonna, quando serviva Miguel de Moncada comandante del Reggimento di Fanteria di cui era capitano di compagnia Diego de Urbina (1570) combattendo a Lepando (1571), ove si prese due pallottole nel petto e subì la mutilazione della mano sinistra “per la massima gloria della destra”, già noto per aver dedicato La Galatea al futuro Cardinale Ascanio Colonna, figlio di Marc’Antonio.
Don Giovanni d’Austria fu quindi anche più potente dei Colonna. E lui decise che il nuovo Vicerè dovesse essere il secondogenito del Conte di Miranda, Juan de Zuniga, ricordato per aver spedito qualche galea nella guerra fra Spagna e Portogallo, prima della sostituzione con Don Pedro Tellès Giròn Duca di Ossuna che meritò nel 1582.
18. Quando ne uscì si ritirò in convento a S.Sabina fino a giungere (1597) a Napoli e a tornare a Stilo. Nella città natale, alla vista dei soprusi dei nobili e della povertà della plebe, fu preso dal desiderio di democrazia, con l’intento di liberare tutta la Calabria dallo straniero per nominare un regime repubblicano. Nobili, ecclesiastici, plebe e carcerati gli furono d’aiuto trovando in maurizio de Rinaldis di Guardavalle un giusto fautore per la rivolta. Non gli fu difficile accativarsi le simpatie del popolo curando ammalati e sostenendo poveri approfittando della furia degli elementi naturali in forma divinatoria. L’intento era quello di uccidere il governatore della provincia di Catanzaro proclamando libertà e repubblica. Non mancavano che pochi giorni alla presa della città che due traditori, Fabio di Lauo e l’ebreo Giambattista Bibbia, facessero la spia facendo giungere da Napoli, il 24 gosto il capitano Carlo Spinelli per stroncare la rivolta. Al Campanella non restò che fuggire nel convento francescano di Stigano, indi a Roccella, dove fu tradito da un bracciante. Presi tutti i congiurati rivelarono che il capo fosse Campanella, il quale, li avesse raggirati dicendo che la rivolta era ordita dal Pontefice d’accordo con Veneziani, Turchi ed altri sovrani. Le accuse, da egli stesso riconosciute, furono di ribellione (politica) e di eresia (religiosa) per aver voluto fondare la repubblica servendosi di profezie. A cui si aggiunse vilmente quella di per aver preparato la rivolta di settembre con l’appoggio di Turchi e fuoriusciti, cospirando contro gli Spagnoli. La tortura avvenne il 7 febbraio del 1600 e il 10 maggio iniziò il processo per eresia (durato fino all’8 gennaio 1603) con la condanna (1602) al carcere in Castelnuovo per 27 anni, appena terminata la causa per ribellione.
Il Vicerè fu però clemente e lo trasferì alla dimora in perpetuo nel convento di S.Domenico, riuscendosi a liberare solo dopo aver scritto un libro sui rimedi contro l’influsso degli astri, sebbene la nuova accusa fu quella che le stelle preannunciassero la morte del pontefice. Trasferito a Roma sotto la sorveglianza di Urbano VIII, nel 1633 scappò in Francia, dove pubblicò le opere scritte in carcere.
Perseguitato dal Vicerè e tradito da due domenicani si rifugiò presso l’ambasciata francese dal Conte di Noailles, riparando in Francia fino alla morte (1639).
19. Cfr. Lorenzo Crasso, Elogii de gli huomini letterati, Venezia, 1666. Francesco Fontana morì nel luglio del 1656 di peste insieme a tutta la famiglia. Cfr. E. Maignan, Perspectiva horaria, Lib. 4, Prop. 69. Cfr. C.G. Carlo Gentili, Elogio; Enciclopedia Treccani, alla voce Microscopio , Vol. XXIII, p.222: “in Italia il microscopio fece progressi considerevoli per opera di ottici insigni quali G. Fontana, E. Divini, F. Campani e G. Bonanni… si conservano ancora esemplari interessantissimi di apparecchi costruiti da questi autori”. Cfr. F.Fontana, Novae coelestium, terrestriumque rerum observationes, Tipografia Gaffaro, Napoli 1646. Cfr. www.na.astro.it, Istituto Nazionale di Astrofisica, Osservatorio Astronomico di Capodimonte. V. Il carteggio linceo della vecchia accademia di F. Cesi; inoltre, nel 1634, Athanasio Kircher citava il Fontana, nella sua Ars Magna Lucis et Umbrae (Roma, 1646; Amsterdam, 1671) come eccellente costruttore di telescopi (dal Carteggio kircheriano). In una lettera del 6 febbraio del 1644, scritta da Evangelista Torricelli a Raffaele Margiotti, una lente per telescopi costruita dal Fontana veniva definita “…il meglio che sia stato fatto tra mille vetri nello spazio di 30 anni” (da Le opere dei discepoli di Galileo Galilei. Carteggio 1642-48).
Napoli contribuì non solo allo studio delle stelle, ma anche all’invenzione delle lenti e degli strumenti ad esse connessi. In particolare del microscopio di Eustacchio Divini, attraverso gli studi dello scienziato Fontana.
Emanuele Maignan, teologo e matematico, a proposito dei microscopi del Divini dichiarò che l’arte del costruire tali strumenti era “nata in Belgio, nutrita a Firenze da Galileo e a Napoli da Fontana, di nuovo coltivata a Firenze da Torricelli, ora con maggior successo e perfezionati a Roma dalla mano, se lecito dirlo, divina di Eustachio Divini”.
Sulla questa scia, un’altra cima di famiglia, Francesco, dottore in legge, abbandonò la professione per dedicarsi completamente alle scienze matematiche. Pertanto divenne noto costruttore di lenti per telescopi, anzi, a quanto pare, sostenne di esserne addirittura l’inventore.
Il testo è una miniera preziosa per la ricostruzione delle esperienze scientifiche a Napoli, polemizzando nei confronti dello stesso Galileo Galilei, in merito al primato relativo alla costruzione del telescopio. Fontana ne rivendicò la costruzione già nel frontespizio: “specillis a se inventis”. A suo dire inventò il telescopio seguendo le teorie dellaportiane, nel 1608, cercando in tutti i modi di venire in possesso dei “fragmenti de gli ordigni lasciati dopo la morte di Giovan Battista della Porta” (1615), come prova valida.
In ogni caso fu maestro nell’arte delle lenti. Il 30 novembre 1629, Fabio Colonna, scrivendo a Federico Cesi, lo indica costruttore del cannocchiale a lenti convesse: “Il Signor Francesco Fontana…ha fatto un cannone di otto palmi, con il quale se ben allo rovescio fa vedere la luna et stelle”. Nè fu indicato come “eccellente costruttore di telescopi”, grazie alle sue lenti che il Torricelli definiva “il meglio che sia stato fatto tra mille vetri nello spazio di 30 anni”.
Fu il Fontana ad inventare il telescopio? O le sue lenti furono la vera invenzione? Egli “riportava in apertura della sua opera una dichiarazione del gesuita Gerolamo Sirsale che, intorno al 1625, avrebbe visto, assieme a Giovan Battista Zupi, il microscopio e il telescopio in casa sua; giustificava anche la pubblicazione del suo testo, adducendone a motivo le pressioni degli amici, tra le quali è presumibile fossero particolarmente insistenti, almeno durante gli ultimi anni della sua vita, quelle di Fabio Colonna (studioso del mondo vegetale e di quello animale, spesso autore non solo dei testi, ma anche dalle illustrazioni da cui questi ultimi erano compendiati), legato all’autore da una lunga comunanza di studi e di ricerche. Ma, in realtà, Fontana desiderava soprattutto evitare i plagi, non di rado originati dai ritardi nelle pubblicazioni”. A Galilei, dal canto suo, mancavano appena pochi anni prima di essere accusato di eresia.
20. ASNA, Archivio dei Tocco, Scritture diverse, Vol.14, Busta 37, Carte di Tocco di Montemiletto, Diversorum f.10, Universitatis Boneti contro Universitate Apicii del 4 maggio 1564.
21. ASNA, Capitoli dell’Università della Terra di Apice / 1546, Archivio privato “di Tocco”, Busta n. 32, ff.277-304, ex registro del Conte di Montaperto Leonardo di Tocco, entrato nel possesso del feudo di Apice dal 1639. Cfr.: Michèle Benaiteau, I Capitoli della Terra di Apice nel 1546, in: Samnium, Anno 1980, pagg.186-215. Secondo altri, in questo periodo Bonito fu anche degli Orsini, ma di certo lo tennero i Pisanelli fino al 1674, seguendo la dinastia di Claudio (1560), Giovannangelo II (1598), di Geronimo I (1605) marchese nel 1625), Giovannangelo III (1641) e Geronimo II (1648) che lo tenne fino al 1674. Su Pisanelli e Bonito V. Repertorio dei quinternioni della provincia di Principato Ultra, Vol.I, foglio 206; Cedolario della Provincia di Principato Ultra, foglio 70).
22. Roberto Fuda, I Carafa in Calabria: dai primi feudi al principato, Corab, Capitolo “I Carafa, dinastia di feudatari per Castelvetere”.Cfr. www.caulonia2000.it. “quando nel 1510 gli spagnoli tentarono d’introdurre nel Regno la famigerata Inquisizione, Vincenzo Carafa (insieme al principe di Bisignano e al conte di Policastro) si pose in testa alla classe baronale per scongiurare il gravissimo pericolo, affrontato e sventato dallo schieramento compatto di tutte le componenti della società meridionale.
Il 16 settembre 1526 si aprì la successione in favore del figlio Giovanbattista, del quale è nota la fedeltà, all’imperatore Carlo V, subito dimostrata durante l’invasione del Lautrec, quando il Carafa mise a disposizione di Camillo Pignatelli, conte di Borrello, seicento fanti e duecento cavalieri, i quali, guidati da Lorenzo Siscar, diedero un contributo determinante per il recupero delle terre di Castel Minardo e Montesoro, presso Monteleone, occupate dalle truppe francesi. Sempre al seguito del conte di Borrello, il Carafa si recò in Puglia spendendo 13.000 ducati per il mantenimento di tremila fanti e cinquanta cavalli. In compenso della sua fedeltà, Carlo V, con privilegio del 5 giugno 1530, concesse al Carafa il titolo di marchese di Castelvetere. Questi non mancò di prestare un nuovo contributo in occasione dell’impresa di Tunisi (1535), per la quale fece costruire due galere che inviò al comando di Marco Marchese, figlio del barone di Scaletta.
Deve considerarsi inattendibile la fonte alla quale attinse l’Aldimari, secondo la quale le navi sarebbero sparite in una tempesta presso La Goletta. Le due galere, infatti, costate ben 18.000 ducati, conclusasi l’impresa, furono donate all’imperatore dal Carafa. L’anno successivo partecipò personalmente all’invasione della Provenza con un grosso contingente armato a proprie spese e poco dopo l’imperatore gli conferì il titolo, di Commendatore di Santiago, uno dei tredici della Monarchia, e la grandezza di Spagna, attribuita ad altri nobili del Regno fra i quali ricordiamo il principe di Squillace e il duca di Castrovillari.
Anche da papa Clemente VII Giovanbattista ottenne numerosi privilegi, dispense e iuspatronati; donò un bosco feudale, detto Ninfo, alla certosa di S. Stefano del Bosco; ebbe conferma del privilegio della “estrazione” del ferro e dell’acciaio dai porti di Reggio (1531) e di Roccella (1533); acquistò quasi milleduecento ducati sopra i fiscali di Grotteria, Castelvetere e Roccella; ampliò lo stato acquistando dal conte di Maddaloni, con patto di retrovendita dopo cinque anni, la terra di Casaldone (1533) e comprando (1549) la terra di S. Giorgio e altri feudi (Brusciano, Scisciano, Ottaiano e Mariglianella). Non si dimentichi, infine, che il matrimonio con Lucrezia Borgia d’Aragona, figlia di Goffredo, principe di Squillace, gli aveva portato, oltre che un incremento di prestigio, una dote di diecimila ducati. La sua casa, dunque, si poteva considerare una fra le più ragguardevoli della Calabria Ulteriore, anche se lo stato carafesco non aveva ancora raggiunto le proporzioni assunte nel secolo XVII. Il primo marchese di Castelvetere potrebbe anche essere stato sensibile alle esigenze dei propri vassalli, dal momento che, nel 1529, a fronte delle continue e micidali incursioni “turchesche”, ottenne di murare il casale di Siderno. Nello stesso anno poté inoltre istituire una fiera annuale in Motta Gioiosa per otto giorni a partire dal primo di agosto, ed è noto quanta importanza rivestissero le fiere, anche per il territorio gravitante intorno al centro fieristico, ai fini delle transazioni commerciali operate su prodotti agricoli, manufatti e bestiame d’allevamento.
Tutti i meriti militari e civili del marchese, tutti i titoli ed i privilegi da lui guadagnati, non furono però sufficienti ad evitargli, nel 1548, l’arresto e il trasferimento nelle carceri della Vicaria in seguito a una denunzia per gravissimi abusi sui vassalli. Nell’istruttoria, promossa dal viceré, la confessione fu estorta sotto tortura e la condotta del marchese, così come attestata dai verbali, appare giustificabile soltanto con una volontà suicida, considerato il rigore che caratterizzò il governo del viceré Toledo. Come osserva il Caracciolo, la condotta del Carafa si può dunque spiegare «se si considera che i crimini in massima parte furono da lui commessi prima e per poco tempo dopo l’avvento del Toledo» e che furono perseguiti con lo scopo di rendere manifesta l’intenzione di combattere fermamente l’arbitrio feudale. Non sorprende dunque la condanna a morte inflitta al Carafa, benché questi avesse speso ben trentamila ducati per corrompere centinaia di persone, funzionari statali e anche taluni dei ricorrenti, tranne il coriaceo Vincenzo De Mauro, che non rimise mai la querela pur subendo un internamento di sette mesi nelle carceri di Castelvetere. Infine, nel 1552, «Al marquis de Castillo Vetere a XVII de diziembre a seys horas de noche le fue cortada la cabega dentro de la Vicaria» e l’esecuzione suscitò grande scalpore in tutto il Regno, conseguendo, in fondo, lo scopo a cui mirava il potere centrale, che aveva voluto l’esecuzione quale monito ed esempio diretti soprattutto alla nobiltà.
La vicenda personale di Giovanbattista Carafa proiettò dei sinistri riflessi sulla compagine del suo stato feudale. Prima dell’arresto il marchese era indebitato per 20.000 ducati, saliti a 60.000 nel 1552. La grave crisi economica non fu evitata dallo smembramento della contea di Grotteria avviato nel 1540 con la vendita dei casali di Mammola e Agnana a Giovanni Galliego e proseguito nel 1549 con l’alienazione di Siderno a Pirro de Loffredo e nel 1550 con la cessione di Martone e S. Giovanni a Ferrante Capano.
La drammatica fine di Giovanbattista, al quale fu rifiutata la grazia, non costituì un ostacolo per la successione del suo primogenito Girolamo, destinatario di una difficile eredità, Intanto, già nel 1553, dovette sostenere, nella terra di Roccella, l’assedio di Dragut, che, con un’imponente flotta, rientrava a Costantinopoli da Procida. Ma, respinti con successo gli ottomani, il Carafa si ritrovò con i problemi patrimoniali insorti dalla triste vicenda paterna, che trovarono una soluzione estrema, sollecitata dai creditori e principalmente da Marcantonio de Loffredo (che vantava un credito di 24.000 ducati), con la vendita all’incanto nel S.R.C. della terra di Grotteria, con i feudi di Romano e S. Maria della Grazia, acquistata nel 1559 dallo stesso de Loffredo per quarantaduemila ducati, col diritto di rivendica dei casali di Mammola e Agnana dal Galliego, e di Martone e S. Giovanni dagli eredi di Ferrante Capano, ai quali, come si è detto, erano stati alienati rispettivamente nel 1540 e nel 1550. Ancor prima della vendita di Grotteria, gran parte delle rendite di Motta Gioiosa erano state cedute a Marcantonio de Loffredo e Giovan Vincenzo Crispano, i quali ottennero dal S.R.C. che il Carafa rinunciasse al patto di ricompra e che Motta Gioiosa fosse venduta all’asta, dove fu aggiudicata a Gennaro Caracciolo”.
23. ASNA, Inventario n.16, Regia Camera della Sommaria, Spoglio delle Significatorie ei Relevi (Apice), Pag.403, tergo, libro I, Principato Ultra, Apice.
24.Ivi.
25. Alfredo Zazo, Benevento e la sua Provincia, da: “Studio per la valorizzazione agricola, lo sviluppo industriale e turistico della provincia di Benevento” a cura del Comune, Provincia, Camera Commercio e Ente per il Turismo di Benevento – Istituto di Rilevazioni Statistiche e di ricerca economica del Prof. Fausto Pitignani – Roma. ABETE – Roma, 1968. Capitolo Benevento Pontificia.
26. A.Tranfaglia, II beato Giulio. Avellino, Tipografia Pergola, 1922. Pag.8.
27. Ivi.
28. La statuetta che raffigura la Madonna Incoronata viene attribuita allo scultore Giovanni da Nola, detto il Merliano (1478-1558).
29. L.Ispano: Romualdina seu eremitica Montis Coronae Camaldulensis Ordinis historia, in quinque libros partita. In Eremo Ruhensis, in agro Patavino, 1587. F.171 e segg.
30. A.Matrullo: Chronologia virorum illustrium et rerum exmiarum Congregationis Montis Virginis Ordinis Sancti Benedicti. Napoli, 1656.
31. Annali Camaldolesi, in Tranfaglia, cit., pag.10.
32. A.Tranfaglia: II beato Giulio. Avelline, tip. Pergola, 1922. Pag.11. Cfr.Mongelli, pagg. 70-71. V. Abbazia di Loreto, Registri dei capitoli generali di Montevergine, I, 201. Cfr. G.Mongelli, II beato Giulio da Nardò. 1981., pag. 64. V. Atto capitolare del 10 luglio 1593, in Lugano, nota 2, pagg. 276 e segg. Cfr. Mittarelli – Costadoni, Tomo VIII. Cfr.G.Zigarelli, Viaggio storico artistico al Reale Santuario di Montevergine, Napoli 1860, pag. 338.
33. ASNA, Fondo Benevento-Corporazioni religiose soppresse, Apice-Chiesa Maggiore, Vol.1, Inventarium Bonorius maioris Ecclesie Oppidi Apicij de anno 1547, pag.36 e segg.
34.ASNA, Fondo Benevento-Corporazioni religiose soppresse, Apice-Chiesa Maggiore, Vol.1, Inventarius Bonorium Stabilius Altar Maioris Parrocchialis et Collegiata in divis Ecclesie Sancte Marie Terre Apicii, pag.57,.
35. Ibidem, pag.36 e segg.
36. Lo scrive Domenico D’Andrea parlando del Convento di San Pietro a Cesarano di Mugnano in Terra di Lavoro (oggi del Cardinale). Così Domenico D’Andrea nel suo libello su San Pietro a Cesarano: Le due principali fonti storiche che parlano del Trabucco sono la Vita che gli dedicò nel 1697, il Padre Paolo D’Ippolito, che apparteneva per l’appunto alla congregazione dei Preti Missionari di San Pietro a Cesarano, e Gianstefano Remondini, nel vol. III (pp.426-429) della sua opera Della nolana ecclesiastica storia (Napoli, 1757)… Padre Michele Trabucco era nato a Napoli il 18 ottobre 1603… La regola dettata dal Trabucco prevedeva, tra l’altro, l’assistenza morale e religiosa alle popolazioni locali,le quali erano state ridotte ad uno stato di povertà e di quasi abbrutimento, in quel triste periodo che per l’Italia Meridionale fu il Vicereame spagnolo. Ma a questa assistenza si univa poi la carità verso gli infermi e soprattutto agli appestati. Per questi ultimi l’assistenza andava “fino all’ultimo respiro” e nella epidemia del 1656, due discepoli del Trabucco, il padre Antonio Canonico e il diacono Giambattista Bianco, furono vittime del morbo. L’abito di questi Padri era quasi l’esatta replica di quello dei Pii Operai di Napoli: una veste talare, dalla quale usciva, intorno al collo, un colletto aperto di raso bianco, colletto che rassomigliava a quello di una comune camicia. Padre Michele Trabucco morì a Mugnano il 15 gennaio 1677. Solenni onoranze funebri gli furono tributate nella chiesetta di San Pietro a Cesarano. Poi le sue spoglie mortali furono composte nella sepoltura del convento.
37. Così Orsini nelle Visite: il parroco procuri di scrivere huomini e donne alla Confraternità di Altavilla, canonicamenente eretta, acciò che possano godere dell’Indulgenze Massime che si recita qui il Santo Rosario quasi cotidianamente. Il giorno 11 Settembre del 1702, scrive Paolo di Caterina nel libro sulla Cappella di Torrioni, durante una santa Visita, l’arcivescovo di Benevento, cardinale Vincenzo Maria Orsini, ispezionando la parrocchia di S. Michele Arcangelo, rileva che a Torriuni non esiste una Confraternità dedita alle orazioni del SS. Rosario, ed emana un decreto a favore della sua costituzione; nelle more, impone che, comunque, il parroco procuri di scrivere huomini e donne alla Confraternità di Altavilla, canonicamenente eretta, acciò che possano godere dell’Indulgenze Massime che si recita qui il Santo Rosario quasi cotidianamente. I torrionesi non lasciano cadere l’invito dell’arcivescovo, anzi, solo pochi anni più tardi, nel 1706, ventisei aspiranti confratelli del SS. Rosario, radunatisi in “Cappella”, sotto la guida spirituale del parroco, già muniti di abiti (sacchi cappucci e cordoni), rappresentano al cardinale Orsini, durante la sua santa Visita a Torrioni, del 24 Luglio, il loro desiderio di vedere istituita, nel paese, una propria Confraternita. Purtroppo, per la vicinanza à Petruro, non potendosi ottenere dal Priore Reverendissimo Eccellente la communicazione delle indulgenze, il Cardinale non ritiene ancora convenevole di eriggere in Confraternità questa Cappella: onde il reverendo Parroco farà i detti fratelli, e le sorelle scrivere al libro della medesima Confraternità in Petruro, acciocché tutti guadagnino le sagre Indulgenze recitando il Santissimo Rosario e frequentando i santissimi esercizij.
E ancora: Nel 1736 quest’Oratorio è ancora in costruzione: i lavori, per la difficoltà nel reperire i fondi tra la popolazione, piuttosto povera, procedevano assai lentamente; infatti, l’allora arcivescovo, cardinale Serafino Cinci, durante la santa Visita al “novo Oratorio ssmi Rosarij”, del Maggio di quell’anno, se loda “ il zelo” del Rettore, “che colla sua direzzione hà fatto ridurre in buon termine quest’oratorio”, al contempo, lo esorta “a non desistere da una si bell’opera, affinché presto si p(er)fezioni”. E così fu; due anni più tardi, nel 1738, il nuovo Oratorio del SS. Rosario è ultimato ed è lo stesso cardinale Cinci ad inaugurarlo e a consacrarne l’altare maggiore, con queste parole: “Lodi al Signore poiché si è degnato (…) di far ridurre a perfez.ne quest’oratorio (…) preghiamo il medesimo per lo mantenim(en)to di esso”. Il nome del Mastro che progettò e diresse i lavori dell’Oratorio non ci è pervenuto dai documenti, ma da un esame dell’impianto plano-altimetrico, che appare tipologicamente semplice ma si rivela poi formalmente complesso, ché fondato sulla geometria del quadrato e delle sue partizioni auree (cfr. disegni), si può avvertire la presen

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I PALAZZI SEGRETI DEL VATICANO TRASFORMATI IN CORTI DI POETI FEUDALI

I Mendoza avevano inaugurato la lista degli Spagnoli di stanza a Napoli, nel 1555, con Bernardino, il quale, nel sostare a Serino, aveva dato inizio alla luogotenenza del Viceregno (1555-1556) ormai nelle mani di un Filippo II (1527-1598), dopo il ritiro del padre Carlo V (1556) e il dietrofront di Papa Paolo IV (1558), sancito dalla pace di Cateau-Cambresis.1
Re Filippo aveva ereditato un impero immenso, che ancora doveva scoprire le Filippine (1556), nuove isole a lui dedicate. Napoli sembrava davvero destinata a restare un viceregno. Sedati i malcontenti, il Mezzogiorno fu completamente degli Spagnoli, nonostante i Vicerè salternassero una volta l’anno: Ferdinando Alvarez di Toledo, Duca d’Alba (1556-1558), Giovanni Manriquez di Lara (1558), Cardinale Bartolomeo della Cuera (1558-1559). In origine Re Filippo ebbe solo due reggenti per le province italiane, uno nell’ex Regno e l’altro nello Stato di Milano, quali rappresentanti del Consiglio di Spagna.
Il Generale napoletano Ferrante Sanseverino (1507-1568 o 1572) era il più dispiaciuto di tutti. Il Re non gli aveva confiscato i feudi per un pelo, almeno all’inizio. Fin da quando ancora non aveva ereditato il titolo di Principe di Salerno, si era sempre battuto al suo fianco, insieme al padre, Pier Antonio, a sua volta figlio di Bernardino. Carlo V era stato la sua unica speranza. Ferdinando il primo ad essere presente a Bologna, alla incoronazione dell’Imperatore (1530), armando a proprie spese le galee scese fino in Africa per liberare Tunisi (1535) e combattendo duramente, durante la quarta guerra contro Francesco I, nella speranza che Carlo invadesse Napoli. Ma la flotta turca non riuscì a raggiungerli e il tentativo di destabilizzazione fallì. Lo gratificava però che Carlo V avesse accettato di fargli visita nei sui feudi, in Calabria come a Napoli, seguendolo nuovamente in Germania come in Francia.
Sarà sempre un Sanseverino, il IV Principe di Salerno e XIII Conte di Marsico, Don Ferdinando detto Ferrante, barone di S.Severino, Cilento e S.Gabriele, sposo di Isabella Villamarina figlia di Bernardo Conte di Capaccio, destituito per tradimento con la confisca dei suoi feudi a cui seguì l’esilio in Francia. Ed è in Francia che il Principe, uno degli uomini più potenti del Regno, riprovò a salvare Napoli, mentre Carlo V ora pensava solo alla pace. Voleva e doveva dividere il Regno, concedendo Napoli e la Spagna a Filippo II e l’Impero a Ferdinando. Quando le cose precipitarono, a Ferrante, non restò che accettare l’accordo di pace fra i regnanti d’Europa e continuare a vivere in viaggio, fra una guerra e un esilio, allontanandosi dal Palazzo di famiglia. A Napoli però era riuscito ad organizzare una società accademica segreta per studiare le scienze e le arti utili in caso di guerra e di pace. Ma anche per essere sempre pronto a sfidare quel Re Spagnolo che proprio non gli andava giù. In un’epoca in cui le scienze guardavano alle stelle e il popolo aveva fame anche di sapere, quella scelta, francamente, gli sembrò solo un passo indietro.

Sanseverino fu anche uomo di cultura. Amante del teatro, se ne fece costruire uno nel Palazzo di Napoli, ma diede soprattutto vita ad un movimento filosofico segreto per incontro di culture diverse avendo come obiettivo lo studiò dell’alchimia. Nel Proemio dei suoi Secreti, Girolami, scrive che abitava nel Regno di Napoli, “in una illustre città di quella provincia, trovandomi nella compagnia di XXIIII persone particolari & con esse il Principe e Signor della terra, si diede principio ad una onorata Accademia Filosofica la quale, per molti degni rispetti volsero che fusse e si chiamasse secreta, la quale andò tuttavia procedendo felicemente di bene in meglio con gli ordini e con l’operationi che qui compendiosamente si narreranno”. Quale sia la città di provincia non è dato sapere.
Da quando i napoletani avevano riaperto le porte ai nobili spagnoli, i burocrati si moltiplicarono, acquisendo ed acquistando incarichi importanti. Restavano feudatari, ma si davano arie da intellettuali. Poco importava se il feudo che aveva generato le loro ricchezze fosse grande o piccolo.
Giambattista Manso (1560-1665), Marchese di Chianca e di Bisaccia, si dichiarerà poeta nato.
Più volte ospitale con l’aristocrazia napoletana, Manso prese a frequentare Torquato Tasso (1544-1595), il quale, negli ultimi anni di vita, ebbe a fare gli onori di casa ad una nutrita schiera di intellettuali, seguiti al secolo di Vittoria Colonna (1492-1547), a cominciare da Bernardino Telesio (1509-1588). Oltre ad essere considerati oziosi, i nobili, si dicevano anche ignoranti. Due “virtù” di cui spesso ne menavano vanto. Furono indifferenti alle correnti culturali di Giordano Bruno (1548-1600) e Tommaso Campanella (1568-1639), totalmente ignorati, come del resto Mansi e Francesco Capecelatro (1595-1670). Ai Signori piacevano i racconti solo per vezzo. I Principi Caracciolo scoprirono Gianbattista Basile (1575-1632), autore de Lo Cunto de li Cunti sugli usi e costumi irpini, quando lo nominarono Governatore di Avellino.
I feudatari saranno così inetti da lasciare crescere il potere dei propri agenti e della Chiesa senza neppure accorgersene per oltre un secolo. Bisognerà attendere Pietro Giannone (1676-1748) per far capire ai politici che il Clero era corrotto da una vita. Ma quando si rivolgerà agli intellettuali per scardinare le correnti filosofiche del tempo e per sostenere che la politica era collusa, verrà accusato di eresia. Fra tanta miseria, grazie “all’umano intelletto”, stavano per risorgere lettere e scienze e non per cura dei governi, oziosi e avversi, ma per l’ingegno “accidentale” degli uomini. Sono gli anni in cui sono ancora in fasce Domenico Aulisio (?-1713), Gaetano Argento (1661-1730), Giovan Vincenzo Gravina (1664-1718), Niccolò Capasso (1671-1745), Niccolò Cirillo. Non sanno cosa riserverà loro il mondo quando Giovan Battista Vico sarà da tutti ammirato, ma “da nessuno pienamente inteso”.

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Editorial Review

Abbozzo dell'indice del testo

 

INDICE

I.
la fine del viceregno spagnolo
— Si estinguono i De Guevara di Ariano
— La filosofia “segreta” nel Palazzo di Chianche
— Nobili poeti fra le liti delle dame di Montefusco
— Stop all’Inquisizione fra le prime scoperte
— I Pisanelli su Bonito annettono Tinchiano
— Apice a Giulia Carafa fu Covella de Guevara

II.
abbazie rifondate sotto papa orsini
— S.Maria si ritrova nel Viceregno spagnolo
— Soppressa l’antica Abbazia dell’Oppido apicese
— La donna di Ginestra degli «Sclavini» e l’abate di S.Eligio
— La diffusione delle confraternite di Napoli
— Le galline dell’erario da versare al ai Capobianco

iII.
tasse feudali e rivolte beneventane
— Troppa povertà solleva il popolo
— Nasce la baronia dei Tocco, S.Marco al vescovo
— I Caracciolo passano con gli Austriaci

IV.
nuove parrocchie post terremoto
— Rinascono le chiese cadute col terremoto
— La tassazione della Parrocchia di Apice
— La lapide di Chianche sulle rivolte popolari

Note Bibliografiche