Editorial Review
Dott. Prof. Francesco Bove
RECENSIONE
Con la pubblicazione di questo volumetto Rito Martignetti sceglie la formula delle spigolature erudite da lui felicemente utilizzata con il testo dato alle stampe nel 2006, “Arie da Baule”. La denominazione potrebbe, in verità, disorientare. Lascerebbe pensare a malinconiche atmosfere gozzaniane, alle storie minime e intimistiche che le foto scolorite dell’album di famiglia riportano alla memoria, ai sentori di naftalina e di carta imbrunita dal tempo, ma è un’impressione che si rivela subito del tutto sbagliata. La narrazione procede con tutt’altro tono e problematicità di inquadramento, dimostrandosi di indubbia attualità, essendo diretta a ricordare ciò che non avremmo dovuto dimenticare o trascurare del passato delle nostre comunità.
Pur richiamando il genere di saggistica per frammenti introdotta in Benevento da Alfredo Zazo e da Giovanni Giordano, il libro se ne distacca perché mantiene nello sviluppo degli argomenti una sua specificità analitica, una precisa strategia comunicativa, oltre ad un filo conduttore critico-interpretativo che gli conferisce unitarietà e che, in alcuni dei temi affrontati, assume quasi la forma delle glosse di origine alessandrina con cui si commentavano i classici della letteratura e le raccolte di leggi. Un esempio di questo tipo di notazioni è dato dai paragrafi particolarmente interessanti dedicati al “Cavaliere Trace di Pago Veiano (VIII), allo “Zodiaco del portale di S. Maria Rotonda” (XX) e alle “Incisioni di Teresa del Po” (XXXII). Densi di riferimenti bibliografici e di appropriate osservazioni, essi consentono all’autore innanzitutto di approfondire la questione che propone, esaminando un discreto repertorio di documenti insieme alle tesi ricavabili dalle fonti letterarie edite, per poi trarre riflessioni di ordine generale che stigmatizzano le inerzie o le ingiustificabili amnesie degli amministratori dei nostri Comuni. Ciò, peraltro, risulta vero nella maggior parte dei casi esposti. Partendo da oggetti e fatti poco conosciuti o noti in prevalenza agli specialisti della materia, Martignetti riesce, attraverso una meticolosa rilettura dei loro significati, a dimostrarne la rilevanza nell’ottica di un’organica e più attenta consapevolezza delle risorse che il nostro patrimonio culturale riserva. L’obiettivo che persegue diventa palese col progredire della narrazione. Egli intende contribuire non solo alla divulgazione della più aggiornata conoscenza di alcuni aspetti delle vicende del passato e delle opere artistiche che lo connotano, purtroppo carente nella maggioranza della popolazione, ma, essenzialmente, richiamare i Beneventani e i loro rappresentanti all’interno delle istituzioni alle loro responsabilità per tutelare con maggiore efficacia e completezza le testimonianze storiche che sono alla base dell’identità dei centri abitati sanniti e, in particolar modo del capoluogo. In questa direzione è mosso da un’autentica passione civile. Cosicché il lavoro accurato di ricerca e di selezione degli argomenti che compongono il libro non si presenta come un semplice mosaico di bozzetti, bensì come un utile e stimolante apporto al dibattito sulle politiche di valorizzazione del nostro patrimonio culturale. In tal senso l’autore non ha remore nell’esplorare anche terreni piuttosto sdrucciolevoli come quello del mito di fondazione della città e della caratterizzazione etnica del suo originario stanziamento abitativo. Su questo problema si sono misurati storici, archeologi, letterati e uomini politici, questi ultimi con complicate ragioni di legittimazione del proprio potere o con improbabili progetti configurativi di nuove regioni. Martignetti, indipendentemente dalle implicazioni ideologiche della questione, non propende per le radici greche, anche se le indagini archeologiche non sembrano fornire certezze in merito, e, in fondo, il suo orientamento ha una sua forza e può avere implicazioni che non sono da sottovalutare. Può incidere positivamente sull’immagine di Benevento, darle quella particolarità che, nel contesto appenninico della Campania, ancora non riesce ad esprimere efficacemente e liberarla, finalmente, da quell’asfittica, esclusiva, quanto fuorviante patina di enclave pontificia.
La parte più consistente del libro è composta da brevi profili biografici, una sorta di medaglioni essenziali nei risalti, ma esenti da enfasi campanilistica. Sono ben dodici, dedicati a importanti personaggi di età antica, medievale e moderna che o vantano origini beneventane o hanno avuto significativi rapporti con la città. Costituiscono il contributo più vivace e ricco di curiosità storiche dell’intero testo e rappresentano un modo forse più divertente di raccontare i grandi avvenimenti del passato lasciandoli intravedere sullo sfondo delle vicende della vita dei protagonisti e attraverso i giudizi che di loro i biografi ci hanno lasciato. Si segnalano sia per efficacia di rappresentazione, sia per la varietà e singolarità delle notizie riportate, i ritratti di Silvia Pisacane (XXXIII), di Angelo Catone (XXII), della famiglia Capobianco (XXIV) e di Salvatore Albino (XXVII) che hanno non solo il merito di ricordare figure meno note, ma anche di tratteggiare scenari di più ampia valenza e di aprire spiragli su realtà poco frequentate dalla storiografia.
Di non secondario interesse appaiono, poi, i due temi di storia longobarda che consentono all’autore di soffermarsi sul culto di S. Mercurio ( XIII) e sugli exultet, rotoli di pergamena decorati con miniature che attraverso raffigurazioni mostrate in sequenza comunicavano ai fedeli, illetterati o meno, le diverse fasi della liturgia della Chiesa beneventana. Motivo della scelta sta nell’intenzione di rimarcare la carenza nella nostra città di allestimenti museali riguardanti proprio alcuni aspetti peculiari dell’Alto Medioevo beneventano. Se si eccettuano le iniziative del Museo Diocesano e della Biblioteca Capitolare, non si trova alcuna sala del Museo del Sannio o del palazzo Paolo V nella quale sia possibile ammirare, pur non in originale, testimonianze dalla produzione culturale della Longobardia meridionale.
Infine vale la pena di sottolineare tre narrazioni che si situano tra la storia e la dimensione romanzesca e che meriterebbero di essere ulteriormente approfondite per le potenziali deduzioni di natura etica e sociologica da esse estraibili. Sono quelle dedicate alla comunità ebraica rimasta in Benevento fin quasi alla fine del XVI secolo (XXV), al processo subito dalla monaca Giulia de Marco (XXIII) e ai promessi sposi beneventani (XXIX). Per quanto riguarda gli ebrei va ricordato che fino all’emissione della bolla di papa Paolo IV “Cum nimis absurdum” del 1555, da cui derivò l’istituzione dei ghetti e l’obbligo per loro di abbandonare i luoghi in cui fino a quel momento erano liberamente vissuti, essi si erano ben integrati nella vita sociale, economica e culturale delle popolazioni cristiane. Anche se la convivenza con le comunità stanziali non fu mai facile, né priva di drammatici fasi conflittuali, gli ebrei dettero contributi rilevanti allo sviluppo delle città e non solo in termini di vantaggi materiali. In Benevento, come altrove, abitavano in gruppi sparsi e, probabilmente, il quartiere dove maggiormente si concentrarono fu quello attraversato dall’attuale via Erik Mutarelli dove i due pontili aveva in sommità merlature di difesa (del resto nel Medioevo esistevano dappertutto case con torri), dove si trovava anche la sinagoga e dove fu poi costruita la chiesa di S. Stefano de Neophitis. L’espulsione degli ebrei fu un atto umanamente vergognoso e ingiustificato, che finì, inoltre, per impoverire le città, Roma compresa. Martignetti fa bene a ricordare la supplica al papa del 1617 con cui i consoli tentarono di far ritornare in città gli ebrei che erano riusciti a non lasciarla ben oltre il 1569. Sull’argomento il compianto medievista Carmelo Lepore aveva preparato una più esauriente monografia rimasta purtroppo inedita.
Per quanto riguarda la vicenda di Giulia de Marco, che sembrerebbe anticipare certe pratiche terapeutiche novecentesche introdotte da Wilhelm Reich, sarebbe interessante riuscire a verificare quanto ci sia di vero nelle dichiarazioni rese dalla monaca sotto tortura, per valutare l’autentica portata rivoluzionaria dei suoi metodi in fatto di rapporto tra carità e sessualità. Bisogna, infatti, tener conto che la storia delle donne nella nostra civiltà occidentale è caratterizzata costantemente dalla violenza repressiva degli uomini nei loro confronti. E’ una violenza che è consistita e consiste tuttora innanzitutto nell’alterare e degradare la verità sulle loro idee e sui loro comportamenti, per poi trasformarsi in limitazione, coercizione e sopruso ogni volta che esse hanno provato a far valere la loro visione libertaria dell’esistenza.
In conclusione quest’ultimo lavoro di indagine storica di Rito Martignetti mi sembra che meriti di esser letto ed è una lettura accessibile ad un vasto pubblico, piacevole e fruttuosa.
Francesco Bove
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