Editorial Review
BASCETTA COME MARC BLOCH, CI PRESENTA QUEL SANT'UOMO DI RE FRANCESCO
(ac) I moti del 1848 sono stati definiti “l’inizio delle rivoluzioni”, perché misero in questione le strutture monarchiche in tutta l’Europa. Per quanto riguarda l’Italia il fenomeno più rilevante è dato dall’inizio concreto del Risorgimento. In particolare delle idee repubblicane di Giuseppe Mazzini, delle imprese dell’eroe dei due Mondi, Giuseppe Garibaldi e dalla concretezza di Camillo Benso Conte di Cavour.
In questo splendido saggio storico, non si trova nessuna maledizione nei confronti di Garibaldi come farebbe pensare il titolo, Mannaggia a Garibaldi!, ma vi è al contrario una visione critica, severa, senza sconti sulle origini del Risorgimento nazionale e sul processo, non sempre lineare, improntato a giustizia e privo di esecrandi fatti di sangue, che portò all’unificazione politica e statale dell’Italia. Arturo Bascetta, con la sua consolidata capacità di ricerca di documenti, diari, testimonianze le più svariate, racconti popolari, sentenze di tribunali, decisioni amministrative, confessioni e quant’altro, ci dà un quadro storico chiaro, preciso, circostanziato della fase risorgimentale della provincia di Avellino, da cui si distaccò buona parte della nascente provincia di Benevento, dal 1848 al 1863-64, e dei rapporti stretti di queste con la Napoli di Franceschiello prima e, dopo, con l’autorità di Garibaldi e della Casa Sabauda.
Dinanzi ai nostri occhi passano piccoli e grandi fatti della stragrande maggioranza dei Comuni dell’ex Principato Ultra, documentati e accurati dalla certosina ricerca da topo di biblioteca che è la più grande virtù dell’Autore. Testimonianze storiche, in verità, spesso trascurate dalla Storia con la “S” maiuscola, le quali hanno un valore inestimabile per tutti coloro a cui sta a cuore conoscere i fatti delle proprie contrade, dei propri villaggi e paesi, dei propri eroi, dei propri briganti, delle imprese dei propri compaesani e delle loro azioni, eroiche o meschine che fossero, che hanno contribuito all’unità d’Italia.
Non è una storia minore, come certi astratti e pseudo-storici vanno farfugliando, ma è di fatti storici della provincia di Avellino che si parla, congiunti ai grandi avvenimenti dell’unità d’Italia, pensieri e correnti che sono alla base dell’Europa moderna.
Il punto di vista del Nostro, via via che approfondisce i problemi storici, politici, sociali e culturali dell’Ottocento, il loro peso e significato, dimostra l’erroneità delle valutazioni e dei giudizi correnti che sul Risorgimento e sulle sue origini oscillano di solito tra la tesi dell’unità d’Italia come risultato della politica delle grandi potenze europee e l’altra dell’Italia “che fa da sé”, che porta a compimento la sua unificazione politica e statale attraverso un processo autonomo, spesso in contrasto con le finalità di tali grandi potenze in opposizione alla stessa unità della Penisola. Certo la dottrina mazziniana e il “primato” italiano giobertiano sono idee che si determinano entro la comune coscienza europea che mai fu così vivace ed alacre come nel periodo compreso tra il 1814 ed il 1848. Dopo le guerre napoleoniche, infatti, le vie nazionali si sentono ravvicinate proprio dal momento in cui Napoleone aveva costretto tutti a guardare all’Europa. Certo l’orientamento europeo non esclude affatto i sentimenti nazionali. Anzi tali sentimenti sono possibili in quanto il senso della nazionalità è diventato ormai una forza irriducibile. In questa visione della storia ogni patria rappresenta un ideale universale, un momento eterno dell’umanità. Bascetta, in verità, pone alla base dell’unità d’Italia un forte dubbio critico.
Il Mezzogiorno era intriso di contraddizioni. Una parte del popolo era fortemente fedele ai Borbone, la più avanzata e progressista della quale sperava nella permanenza della dinastia, se avesse concesso la Costituzione. Vi era poi un’altra parte che era favorevole alla sua permanenza perché formata da forze reazionarie e brigantesche. Una situazione complessa, in cui sono presenti forze conservatrici, se non proprio reazionarie, liberali e democratiche. Convivono accanto, a stretto contatto di gomito, motivi di impronta medioevale legati alla vecchia e ormai anacronistica feudalità e idee nate dalla Rivoluzione francese. Un quadro dunque ambiguo, in cui si ha uno scambio frequente di idee che alimentano la polemica tra gli ultras e i liberali. La particolare posizione dell’Italia, in lotta per la libertà e l’indipendenza, impone una linea culturale e politica capace di mediare tra gli estremi, di comporre opposizioni e contrasti ereditati da un passato di divisioni in Stati e statini. Era giustamente il tempo del “primato” giobertiano, secondo cui “conservazione e progresso sono due motivi inseparabili”. Ebbene in questo filone storico si inserisce il cambiamento straordinario apportato nella storia del Risorgimento di Arturo Bascetta che eleva a soggetti storici concreti una provincia, il Principato Ultra, due città, Avellino e Benevento, nello sfondo di un Mezzogiorno contadino, dove invidie, agonismi, egoismi, “inciuci”, false testimonianze, trame, insurrezioni, tradimenti, angherie, soprusi, stupri sono le armi preferite sia dai seguaci dei Borbone che dai liberali antiborbonici. Bascetta in questo suo saggio storico mostra una visione ampia della realtà che si svolge dinanzi ai nostri occhi come trionfo del pragmatismo, in fatti ed in processi rappresentati in modo nudo e crudo, senza orpelli o giustificazione di sorta. Mette in evidenza il cavallo di Troia all’interno del mondo liberale, che spesso lo spinge verso direzioni non progressiste ma retrive. Vi sono episodi travolgenti e splendidi nella loro ferocia come quello della brigantessa Donna Matilde Rossi, che io ritengo, parafrasando Guido Gozzano, “un fiore sbocciato nel deserto”. Il tutto, in sintesi, dimostra la ferma convinzione dell’Autore secondo cui il lavoro dello storico agisce sul suo stesso oggetto, l’agire degli uomini. Egli nella storiografia vede, come affermava Benedetto Croce, “la liberazione della storia” dal peso degli eventi che sembrano incombere sulle coscienze degli uomini e dei popoli che aspirano ad una catarsi, ad una nuova alba dopo la buia notte.
Diverse le storie esaminate, molti i fatti ricordati. Arturo Bascetta, in particolare in quest’opera storica più che nelle sue tante altre, vive fino in fondo, come pochi altri, taluni dei problemi più ardui della storia, prima fra tutti il rapporto tra storia locale e storia nazionale, tra storia particolare e storia generale, rifuggendo con onestà intellettuale e spirito libero dalla generalizzazione di fatti storici particolari che sono unici e irripetibili, come i tanti fatti, eventi ed episodi descritti con acume e perizia in questo suo Mannaggia a Garibaldi! a cui auguro una grande diffusione tra i giovani che, non per loro colpa, sanno pochissimo, se non proprio nulla, dei paesi dove sono nati e vivono. Lacuna che sarà certamente eliminata da questo lavoro che rappresenta un nuovo rapporto tra fatti, eventi, istituzioni, in cui però la nostalgia del passato non comporta il disperdersi della realtà, delle tradizioni molteplici nel tempo; non si fa promotrice di una nuova azione e di nuovi ideali possibili. A questo si associa la disciplina storica, che di quegli ideali e di quei principi si rende garante, senza cedimenti di sorta alle metamorfosi di revisionismo che accompagnano le forme deviate e devianti, spurie, del pensiero storico che a me piace chiamare pensiero critico. E tale è anche per Bascetta che con Omodeo è del parere che “la vera grandezza umana si afferma in discrimine rerum, nella possibilità di perdere e di trionfare, di fallire e di riuscire”. E’ il motivo alla base di queste pagine. Al centro dell’attenzione del Nostro, come detto innanzi, resta Avellino, a cui Bascetta è molto legato e di cui a me sembra addirittura innamorato per il suo scovare documenti, diari, racconti autobiografici e nomi che riguardano questa blasonata e antica città dei Due Principati, della quale molti cittadini sono stati autori di cose nobili e non, di fatti eroici e di intraprese in una con intrighi, false testimonianze, tutte cose che, nel complesso, le fanno onore.
L’Autore in questa sua opera, come in tante altre ricostruzioni storiche, sa bene che il “processo compiuto”, tetelèsmonon, sfugge per principio alla diretta conoscenza del soggetto umano per il quale è possibile solo una “conoscenza congetturale”, dòkos. Del resto il primo frammento di Ecateo, il famoso storico di Mileto, recita: “Scrivo quanto segue conformamente alla mia ricostruzione congetturale della verità”. E Bascetta, come il primo celebre storico antico, può dire che non pretende di aver conosciuto direttamente la “verità”, ma semplicemente di averla ricostruita, a partire dai dati da lui pazientemente e sagacemente raccolti.
E’, questo, un ulteriore merito dell’Autore di un succoso libro, il quale, con la sua fecondità e creatività, rifiuta la storia semplicistica che si ferma alla superficie degli avvenimenti, una storia che fa dipendere tutto da un solo fattore, che si basa su analisi troppo eclettiche e che si smarrisce nella molteplicità delle circostanze: la narrazione sistematica che non distingue tra motivi e cause. Il Nostro ha una concezione profonda e diversa della storia, che spezza la crosta dell’interpretazione critica povera e sclerotica, quella che è stata giustamente definita pseudo-storia.
Bascetta, seguendo Marc Bloch, “di fronte all’immensa e confusa realtà”, fa la propria scelta basandosi non sull’arbitrio, bensì nell’analisi scientifica del documento che gli consente la ricostruzione e la spiegazione del passato. Esamina, analizza, scruta fatti ed eventi, ciascun individuo, noto o ignoto, che svolge la sua parte nella vicenda storica, anche con ipotesi e congetture, ma soprattutto con un lavoro delicato e appassionato, che, in sintesi, è il suo pregio maggiore.
note 1863
1. Alfonso Santagata, Il sole del brigante.
2. Ivi.
3. ASA, Prefettura, Brigantaggio, Busta 1, foglio 122, datato in Avellino 16 aprile 1863. Così comincia: “Il sottoscritto adempie al dovere di rassegnare al Signor Ministro dell’Interno Torino i fatti di brigantaggio ed altri avvenimenti verificatisi nel corso della prima quindicina del mese in corso”.
4. Luisa Sangiuolo, Il Brigantaggio nella Provincia di Benevento 1860-1880, De Martino, Benevento 1975.
5. Il 5 settembre 1863, Antonio Tini di Emmanuele da Paduli, “venne dal comandante di quella Guardia Nazionale, incaricato di portare un plico ad un maggiore dei bersaglieri, che trovavasi in San Marco dei Cavoti. Nel ritorno, il Tinni, s’imbattè in contrada Calisi con Caruso, il quale avendo saputo che il Tinni era stato latore di un plico, nel quale si diceva che i briganti si trovavano in un dato luogo fu, il malcapitato, fatto inginocchiare, e, con un colpo di fucile, fu dal Caruso ucciso. Da: www.brigantaggio.net di Fioravante Bosco.
6. Luisa Sangiuolo, op. cit.
7. Ivi. Scrive la Sangiuolo che Caruso aveva ammesso che, “passando la comitiva il 13 settembre per Pietrelcina, catturò Giuseppe Fucci e lo uccise, per quanto il nipote gli avesse dato sessanta ducati e due giumente. Gli domandano i Giudici: “Non arrecò altri danni alla famiglia di Fucci Giuseppe?” “Ah, sì, dimenticavo. Scannai di mia mano diversi buoi Sulla via di Foggia il bottino non si deve spartire, tutti debbono andare da Ninco-Nanco per questo; il colonnello dice che occorre provvedersi di viveri ed indumenti. Si è al 13 di settembre e strada ce n’è da fare. Tre briganti irrompono ad Apice in contrada Calvano, alla masseria dei Belmonte. La figlia nubile Anna, quando ne comprende 1’appartenenza, terrorizzata dalla possibilità di incontrare Caruso di cui è ormai risaputa la violenza che fa alle donne, (quante ne ha rapite ed uccise solo perché stavano per divenire madri!), corre a nascondersi nella casa di Saverio Carbone. Con un urlo di raccapriccio, si imbatte in Caruso che la violenta alla presenza della moglie del Carbone. Di poi il colonnello istiga tre dei suoi a fare altrettanto ad una fanciulla della vicina fattoria S. Auditorio. Dove va la comitiva? Da Ninco-Nanco in Basilicata come ha detto Nicola Tocci? Chissà. Ne ritroviamo le tracce ancora ad Apice il 30 settembre. Un sequestro va a monte e Caruso nell’impossibilità di trattare direttamente con i proprietari o loro parenti fuggiti, prima del suo arrivo, ammazza una mandria di vacche dei benestanti Matteo La Medica e Angelo Santoro in segno di sfregio, quindi brucia le messi di Giuseppe Catassa e di Lorenzo Nardone. Via via le provviste si assottigliano fino a finire del tutto; gli ultimi giorni gli uomini hanno fatto la fame; Giuseppe Pellegrino accusa violenti crampi allo stomaco e si abbandona allo scoraggiamento, bestemmiando il giorno in cui si è fatto brigante. Gli altri fanno seguito con imprecazioni; pare siano vicini ad una esplosione di rabbia collettiva. Prima che questo si verifichi, Caruso uccide con una coltellata il brigante affamato e ne butta il cadavere in un burrone. L’ordine è ristabilito e tuttavia il cibo si deve trovare ad ogni costo. Nei pressi di Morcone in contrada Cuffiano, il colonnello bussa alla masseria di Pasquale De Maria. I Fuschi non possono più aiutarlo; sono in galera per avergli dato ricovero e provviste. Chiede foraggio per le bestie e cibo per tutti. Berardino Polzella venuto ad aprirgli la porta dice che il padrone Pasquale non c’è e nulla nella sua assenza è autorizzato a dare. “Come - dice Caruso - le Autorità non vogliono che voi ci diate da mangiare? Mettetevi tutti in fila!” Obbediscono Luigia Pietrangelo, Berardino Polzella con la moglie Marta Zeoli, i figli Giuseppe, Mariantonia, Luigi, Domenico e Michele. Tutti fucilati, indi fatti a pezzi e sfigurati con colpi di pugnale; tutti anche Luigi di nove anni, Domenico di sette e il piccolino Michele di appena quattro anni. Il medico legale attesterà che la più giovane era stata violentata sino alla morte da quasi tutta la banda”.
8. Abele de Blasio, Il Brigante Michele Caruso Ricerche di Abele De Blasio, Stabilimento Tipografico, Napoli 1910. Il 4 ottobre del 1863 i briganti si allontanarono da Apice in direzione di Sepino.
9. ASA, Busta 2, foglio 148, Regno d’Italia, Sotto Prefettura di Ariano, Ufficio Pubblica Sicurezza, Num.1638, Brigantaggio, Lettera del sindaco di Bonito Nicola Miletti giunta in data 1 ottobre 1863, ore 5 ½ p.m., al Prefetto di Avellino De Luca, il quale annota “Gabinetto di Telegrafi - Se ne facci relazione di lodi la Guardia Nazionale, il Maggiore e la Truppa”. Così l’inizio della missiva: “Dal municipio di Bonito, lì 30 7bre 1863”. Il giorno dopo giunge alla prefettura di Avellino la lettera n.1076, avente per oggetto sempre il brigantaggio, scritta dal sindaco Nicola Miletti, il quale, si rivolge al prefetto De Luca “per sua norma ed intelligenza della S.V. Ill.ma le trascrivo quanto appresso, facendo seguito al foglio di pari data n°1074 riferisco a V.S. Ill.ma...”.
10. Ibidem.
11. ASA, Busta 2, foglio 155, Regno d’Italia, Sotto Prefettura di Ariano, Ufficio Pubblica Sicurezza, con numero di protocollo 1660, per oggetto il Brigantaggio, Lettera n.1087 del sindaco di Bonito Nicola Miletti giunta in data 4 ottobre 1863 al Sottoprefetto.
12. Ivi, Lettera n.376 del sindaco di Montemale Giuseppe Panaruso che risponde alla lettera n.1589.
13. ASA, Busta 2, fogli segg. al f.148, cit. Il Prefetto di Avellino annota che “dal rapporto di V.S. del 1° andante mese n°1638, il sottoscritto ha rilevato...” e così via.
14. Fiorangelo Morrone, Storia di Beselice e dell’alta Valfortore, Arte Tipografica, Napoli 1993. A proposito della banda Caruso e dei fatti del 1863 egli scrive: “Il 6 settembre uccise presso Torrecuso 4 soldati e 10 guardie nazionali. IL giorno 7 compì una vera carneficina presso Castelvetere Valfortore: ben 27 persone inermi, vecchi, donne e bambini, furono trucidate. All’eccidio era presente con la sua banda anche Antonio Secola, il quale però in seguito sostenne di non aver sparato neppure un colpo. Il giorno 9 carneficina ancora maggiore ebbe a verificarsi a S. Bartolomeo in Galdo, sempre ad opera del Caruso. Furono assassinate da 30 a 40 persone. Altri, come Mattia Cifelli e Michele Cenicolo, morirono in seguito alle ferite riportate. Anche a questa carneficina era presente il Secola, il quale però, successivamente, nel corso degli interrogatori che ebbero luogo alla sua consegna, affermò ancora una volta di non aver sparato neppure un colpo. Successivamente il Caruso uccise 7 possidenti lungo la via Sannitica, 14 contadini presso Colle, 7 in territorio di Morcone, 6 presso il Cubante, 16 alla masseria Monachella, presso Torremaggiore. Costretto da simili audacie e da tale efferatezza, il generale Emilio Pallavicini, che alla metà di settembre aveva assunto il comando della zona militare speciale del Beneventano e del Molise, decise di far di tutto per liberare il territorio da un simile mostro”. Cfr. F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano 1964.
15. Ivi.
16. ASA, Busta 2, foglio 192, Lettera datata in Apice del 28 ottobre 1863 indirizzata al Signor Nicola Panza, Luogotenente della Guardia Nazionale Mobile.
17. ASA, Fondo Prefettura, Buste Brigantaggio, Legge 7 febbraio 1864.
18. Alfonso Scirocco, introduzione a: Brigantaggio Lealismo Repressione, Macchairoli Editore, 1984.
19. Alfonso Santagata, Il sole del brigante. Dirà Giuseppe Caruso agli inquirenti: “finalmente sono riuscito a distruggere la banda di Crocco; il Generale Pallavicini mi ha voluto premiare, mi ha fatto brigadiere delle guardie forestali a cavallo”.
20. Giuseppe Caruso nacque in Atella (1820-1892), sempre in provincia di Potenza, e morì a 72 anni. Scrive De Blasio: “Chi dà uno sguardo alla fotografia di lui si avvede subito trovarsi innanzi ad un individuo anormale. Infatti la sua enorme mandibola, la sporgenza degli zigomi in avanti, l’asimmetria della faccia, la sporgenza delle arcate sopracciliari, l’infossamento degli occhi, l’ampia bocca ecc. sono tutte cose che ci fanno pensare che l’uomo di cui ci occupiamo non doveva, al certo, essere un innocuo agnello. Giuseppe Caruso, che esordì come agricoltore e finì brigadiere delle guardie forestali a cavallo nella tenuta di Monticchio, nel 1861 fu accusalo davere ucciso in Atella, durante una dimostrazione politica, un milite del plotone lucano ed allora per non esporre la sua schiena alla fucilazione pensò darsi alla campagna arruolandosi nella banda Crocco, che, nell’epoca in discorso, seminava strage e terrore per Monticchio e Lagopesole. Giuseppe Caruso, per le sue buone qualità brigantesche, ben presto si attirò la simpatia del suo capo Carmine Donatelli Crocco, che lo elevò al grado di sottocapo; ma un bel giorno Zi-Beppe così era chiamato il Caruso, in luogo di eseguire gli ordini di Crocco, si staccò dalla comitiva e andò a costituirsi al generale Fontana, che trovavasi in Rionero. Per i suoi precedenti la giustizia di Potenza regalava al Caruso sette anni di lavori forzati. Mentre si trovava in carcere, per ottenere la libertà, si offerse di voler fare la spia alla banda di Crocco”.
21. Michele Caruso (1837-1863) Famosissimo Brigante nacque a Torremaggiore, in provincia di Potenza, nel 1837. Nel paese natale lo ricordano per l’assassinio di 16 contadini alla masseria Monachella. Dopo 35 scontri con la cavalleria del Generale Pallavicini nell’ottobre del 1863, il 10 dicembre fu catturato a Molinara e condotto a Benevento dove venne fucilato il giorno seguente. Da: www.torremaggiore.com. Michele Caruso, senza dubbi, va distinto da Giuseppe Caruso che era di Atella. Così Antonio Pagano, Due Sicilie, cit.: “Il primo dicembre Crocco sostiene vittoriosamente uno scontro con reparti piemontesi alla masseria S. Vittore. Il giorno 5 il Ministro guardasigilli piemontese inviò una circolare a tutti i vescovi delle Due Sicilie, invitandoli a “convincere i briganti” a desistere dalle loro azioni. Il 6 dicembre i patrioti di Caruso vengono attaccati dai bersaglieri presso la masseria Bianco, dove muoiono 7 uomini, ma Caruso riuscí a fuggire. Il 10 dicembre, però, a causa di una delazione Caruso è catturato in una cascina a Molinara. Il 12 dicembre, dopo un processo farsa, Michele Caruso, viene fucilato fuori porta Rufino a Benevento”.
22. Luisa Sangiuolo, op. cit.
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1. ASAV, deposizione Francesco de Figlio. Seguiamo il racconto di Francesco de Figlio, di ritorno dall’occupazione di Isernia, avvenuta pochi giorni prima, il 5 ottobre 1860, ad opera di una colonna di borbonici e centinaia di contadini con armi in pugno. Questi, appena giunge all’abitazione di San Giorgio, incontra l’ex sottocapo urbano della guardia municipale Remigio Fucci, a sua volta reduce dall’assalto alla Guardia Nazionale del paese avvenuto il 21 luglio 1860. Cfr. A. SALADINO, Il tramonto di una capitale: Napoli e la Campania nella crisi finale della monarchia borbonica, in Archivio storico per le province napoletane, Napoli 1961. In: E.SPAGNUOLO, Cospirazioni antisabaude e soldati sbandati nel circondario di Montefusco, Avellino 2001. Cfr. M D’AGOSTINO, La reazione borbonica in provincia di Benevento, Napoli 1987. Così dice: - “Ritornai in Ginestra la Montagna mia patria reduce dall’attacco d’Isernia al quale presi parte come soldato borbonico. Dopo qualche giorno fui avvicinato dal paesano D.Remigio Fucci il quale mi premurò ad unirmi seco lui per far gente, e disarmare i diversi vicini Posti di Guardia Nazionale, e quindi divenirsi al sacco, e fuoco per favorire Francesco Secondo il quale se non tornava oggi, tornava dimane, mentre circa quaranta persone di Ginestra atte alle armi erano già pronte per l’oggetto tra le quali spiegò Francesco e Giuseppe Boniello, Emmanuele Boniello, Ferdinando Fucci, Michelangelo Fucci, Tommaso Chiavelli, Domenico Fonzo diAntonio, Domenico e Gaetano Taranto, ed Antonio Festa alias Pizzolone di Ginestra”.
2. ASAV, Gran Corte Criminale, Busta 96, f.449, il 3 luglio 1863. Il 27 febbraio 1862 il pubblico ministero incalzava nelle accuse, sostenendo che Gaetano Petrillo di Venticano, nel febbraio 1861, nell’incontrare una donna la udì riferirsi alla Guardia Nazionale con le parole: tra pochi giorni faremo i conti con questa coppolella. All’episodio si aggiunse la dichiarazione di de Figlio di Ginestra La Montagna del 15 aprile 1861. E’ usanza dire: Chi mi battezza (mi dà qualcosa), mi scelgo per compare.
3. ASAV, Gran Corte Criminale, deposizione Francesco de Figlio. Cfr.E.Spagnuolo, Cospirazioni, cit. Cfr. M.D’agostino, La reazione borbonica, cit. Così: “Nel mattino del Giovedì in Albis ultimo (quattro corrente aprile) mi portai nel mulino del soprannominato Frecchillo poco lungi questo abitato per sframentar cereali, e nel ritorno scontrai verso colà il Capozzi, e D. Remigio Fucci in segreto colloquio i quali mi fermarono, e nei ritenermi loro dipendente per la reazione, il Fucci mi premurò ad avisare per l’oggetto Emmanuele Boniello di Ginestra, ciò che non ho fatto. Fucci disse a Camillo Capozzi - ca a la Ginestra sono una quarantina che sanno maneggià l’arma, pensa tu pure loco mò -. Capozzi disse - pe quà me la vedo io -, e rivoltosi a me replicò - fatica, e statti pronto, e non t’allontanà a luongo, perché appena che mette pede Francisco ci riunimo -. Parlando poi essi Capozzie Fucci dicevano che la riunione della gente dovea farsi nel vallone tra S. Giacomo, e S. Martino A.G.P. compartendosi la gente metà a S. Giorgio, e metà a S.Martino disarmando prima i posti di guardia di tali paesi, e poi andare in Sannazzaro pel sacco nelle case di D. Domenico Soricelli, ed Arciprete Conte uccidendoli. Che ciò dovea aver luogo a’ venticinque di questo mese, mentre nella sera degli otto si dovea fare il conteggio della gente al detto luogo, ciò che poi non è avvenuto, e ne ignoro il perché. Dicevano pure che nel giorno ventisette Aprile tutto dovea esser terminato, venendo la truppa da Manfredonia, e che tale particolarità si sarebbe saputa dai trainanti che provvenivano di là passando per la strada nuova di Dentecane. Altro non dissero, ed io mi allontanai, restituendomi in casa”.
4. ASAV, Gran Corte Criminale, Busta 79, Processo Criminale n.27, f.364.
5. ASAV, Gran Corte Criminale, Busta 79, Processo Criminale n.27, f.364.
6. ASAV, Gran Corte Criminale, Busta 79, Processo Criminale n.27, f.364.
7. ASAV, Gran Corte Criminale, B.86, f.420, ai principi di Luglio 1861 Alfonso Luongo figlio di Nicola Luongo di Prata, stando alle lettere datate 7 ottobre 1861 in Montefusco.
8. Premessa di G.Galasso e introduzione di A.Scirocco, in: Aa.Vv., Brigantaggio Lealismo Repressione, Macchiaroli Editore, 1984. Cfr. F.Molfese, Storia del brigantaggio politico. Cfr. T.Pedio, Vita politica in Italia meridionale. L’Incoronata era stata già meta preferita di Fra’ Diavolo, che ivi era stato snidato nel 1806, subendo la distruzione ad opera della truppa francese di Avellino guidata da Sigismondo Hugo, padre di Victor.
9. Abele de Blasio, op. cit.
10. Almeno così confesserà al Misasi nel 1881.In realtà il Colonnello Giordano si schierò principalmente contro l’amministrazione di Cerreto. Posizione dalla quale non volle recedere neppure Giordano quando ricevette, insieme all’accolito Pilucchiello, una lettera dall’avvocato Michele Ungaro di Cerreto che li invitava a costituirsi non avendo commesso alcun delitto di peso. La risposta fu una richiesta di 6.000 ducati con passaporto di non ritorno in cambio della resa di tutti i briganti pronti a presentarsi spontaneamente in cambio della libertà. Missiva che l’avvocato sottopose al sottoprefetto di Cerreto offrendo al massivo 15.000 lire, offerta che provocò la rottura delle trattative. Un suo accolito, Demetrio Peritano di Morcone, venne anche arrestato e, a propria discolpa, sostenne che già prima del luglio 1861, Giordano aveva aggregato a sè uomini del calibro di Francescantonio Basile, Errichiello Giordano, Vincenzo Ludovico alias Pilucchiello, Pasquale Mendillo, Liberantonio Ruzzo, Ferdinando Muccio, Giovanni Nigro, Saverio Finelli e Giuseppantonio Marazzi. V. Ab.de Blasio, op. cit.
11. Ivi. Giordano non mancò all’accusa di essere rimasto borbonico e, sebbene fu richiamato per ben due volte dal Comando militare di Caserta, tornò inspiegabilmente a casa, come asseriva il sindaco di Cerreto, il barone Vincenzo Magnati. La terza volta, non volendo sopportare ancora lo scherno delle truppe piemontesi, non si era presentato, contando sulla bellezza delle sorelle o della cognata, alle quali avrebbe fatto il filo un uomo potente. In ogni caso, a causa o meno di questo amore segreto, per lui e per il marito di una sorella, fu spiccato il mandato di cattura del 10 maggio 1861. Da qui il vero motivo della fuga. Per questo vagò per i monti per alcuni mesi, aggregando consensi antipiemontesi fra i braccianti che lo conoscevano e lo rispettavano, ricordandolo per il grado di Capitano acquisito sul Volturno.
12. Ivi. Nei primi mesi del 1861 aveva già aggregato gente di Morcone, Solopaca, Pietraroia e S.Lorenzo Maggiore, iniziando delle vere e proprie estorsioni, il cui danaro serviva a pagare le spese di fornitura viveri e di spionaggio. La banda ebbe anche un tenente, lo sbandato Cimirro (come egli stesso si firmava), il quale, non mancò di estorcere danaro alla badessa di Cerreto. Tentativo fallito per la povertà delle monache, come gli faceva notare la Badessa Pacelli, nella risposta per il tramite di Vincenza Mazzarella, loro inviata, figura primordiale di brigantessa.
13. Ivi.
14. Ivi.
15. Luisa Sangiuolo, Il Brigantaggio nella Provincia di Benevento 1860-1880, De Martino, Benevento 1975. Cfr. F.Molfese, Storia del Brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1964.
16. ASAV, deposizione Francesco de Figlio. Cfr. E.Spagnuolo, Cospirazioni antisabaude e soldati sbandati nel circondario di Montefusco, Avellino 2001.
17. ASAV, deposizione Francesco de Figlio. Cfr. E.Spagnuolo, Cospirazioni antisabaude e soldati sbandati nel circondario di Montefusco, Avellino 2001. Cfr. M D’AGOSTINO, La reazione borbonica in provincia di Benevento, Napoli 1987. Così dice de Figlio: - Erano al par di me soldati borbonici sbandati Aquilante Fonzo di Giovanni di qui, e Francesco Senno alias Malomo di Sannazaro, coi quali per insinuazione del detto D. Remigio Fucci verso la fine di ottobre predetto mi portai da D. Leopoldo Zampetti di Montefusco realista borbonico per aver da costui danaro e quindi raccoglierci nel bosco di Prata con altri soldati borbonici come diceva specialmente Aquilante Fonzo che erasi ivi portato.
18. ASAV, deposizione Francesco de Figlio. Seguiamo il racconto di Francesco de Figlio, cit.
19. ASAV, deposizione Francesco de Figlio. Cfr E.Spagnuolo, Cospirazioni antisabaude e soldati sbandati nel circondario di Montefusco, Avellino 2001. Cfr. M D’AGOSTINO, La reazione borbonica in provincia di Benevento, Napoli 1987. Racconta de Figlio: - Ritornavamo a Montefusco dal detto Zampetti al quale Fonzo cercò danaro per gli altri che nel bosco restavano, ma Zampetti null’altro volle dare, e solo diceva che quando si sarebbero uniti tutti, allora avrebbe cacciato il danaro, mentre Francesco Secondo si poteva mettere in Trono per la sola opera dei soldati sbandati. Intanto Zampetti ci premurò portarsi dal cognato D.Domenico Soricelli di Sannazzaro a chieder danaro nella somma di trenta in quaranta ducati pel nostro sostentamento e degli altri che restavano nel bosco, perché facilmente li avremmo avuti. Giunti in Sannazzaro, mi portai solo dal Soricelli che nulla mi diè, perlocché ne parlai a’ citati Fonzo, e Senno, e tutti e tre portammo la risposta negativa a Zampetti il quale scrisse che avrebbe lui scritto al Soricelli sull’oggetto”.
Zampetti spedì i briganti a casa del liberale D. Domenico Soricelli: “Nello scorso mese di settembre erasi da lui presentato un congedato, il quale aveva chiesto ad esso Soricelli a nome del detto Zampetti sei in settecento ducati, e gli diceva che tale somma era intendimento del Zampetti di spenderla affine di congregare borbonici, e così consumare una reazione”. Soricelli sospettava anche “che il canonico D. Fedele Recine di qui fosse stato d’accordo con Zampetti nel voler promuovere una reazione, ed esternava ancora simiglianti sospetti contra un individuo di San Nazzaro soprannominato Perillo”.
Giovanni Spagnuolo “stando dinanti la casa di abitazione di D. Domenico Soricelli, a suo dire, “vide provvenire dalla strada di Montefusco il nominato Francesco ...e richiesto dove andava, disse dover parlare al detto Soricelli ed in effetti entrò nel costui portone. Dopo brevissimo tempo ne uscì portandosi per una via vicinale che mena in Cucciano, e il testimone volendo vigilare le mosse del citato individuo come soldato borbonico, lo seguì in certa distanza”. A poca distanza da Cucciano Francesco “si fermò a discorrere con altri due soldati sbandati borbonici, cioè Francesco Senno” e il figlio di Giovanni Fonzo, il quale diceva: “Tu i danari te li devi far dare!” E lui: “Ci bisognano perché siamo assai gente”. Questi, quando vide Spagnuolo uscire da dietro una siepe, essendo considerato una spia, cominciò a darsi alla macchia, “facendosi rare volte vedere nello spazio di sette otto giorni, e quindi è scomparso totalmente”.
20. ASAV, deposizione Francesco de Figlio. In: E.SPAGNUOLO, Cospirazioni antisabaude e soldati sbandati nel circondario di Montefusco, Avellino 2001. Cfr. M D’AGOSTINO, La reazione borbonica in provincia di Benevento, Napoli 1987.
21. ASAV, Gran Corte Criminale, deposizione Francesco de Figlio.
22. ASAV, deposizione Francesco de Figlio, cit. Così de Figlio: - “In esito di tutto ciò, e poiché noi tre ci eravamo presentati a nome di D. Remigio Fucci, esso Zampetti disse che il Fucci medesimo dovea scrivere una supplica per dimandare la carta bianca a Francesco Secondo in Capua, e che noi dovevamo colà portarla, e che poi nel ritorno si sarebbe operato. In effetti palesatosi il tutto al ridetto Fucci, costui nel giorno trentuno del ripetuto ottobre nella propria casa, ed in presenza mia, e dei detti Fonzo, e Senno scrisse la supplica - carcata bona, e ben fàtta - colla quale si diceva a Francesco Borbone che questa popolazione era pronta per lui, che si voleva la carta bianca per la reazione, designandosi le famiglie dei Signori Bocchini, La Monica, di Paolo Cozza, Giovanni Lanzotti, e Riola di qui; quelle de’ Signori Rainone, e Cerza di S.Martino A.G.P. come liberali, e che si dovevano massacrare. Aggiungerà poi nella deposizione che Fucci avrebbe anche detto che occorrendo danaro si sarebbe sborsato da questo Vincenzo la Nunziante alias la Volpe, e Camillo Capozzi, e che costoro col ripetuto D. Leopoldo Zampetti, e Don Felice Brancario di S.Martino A.G.P., con lui ancora, erano i capi ella reazione, ed in effetti esso Fucci spesso si portava dallo Zampetti in Montefusco come io avea occasione di osservare, e lo stesso Fucci lo confessava. Perciò, arrestato Don Leopoldo, il dichiarante fece capo a Giuseppe Fonzo di Ginestra per la reazione a farsi, “ma costui si negò” e, stando a Fucci, ora dipendevano tutti da D. Felice Brancario di S.Martino, “sul conto del quale però nulla conosco, mentre la bandiera si formava di un lenzuolo fino bianco con l’impresa in mezzo che subito si sarebbe fatta”. Cfr. E.Spagnuolo, Cospirazioni antisabaude e soldati sbandati nel circondario di Montefusco, Avellino 2001. Cfr. M D’Agostino, La reazione borbonica in provincia di Benevento, Napoli 1987. Cfr. sito internet, www.brigantaggio.net
23. ASAV, Gran Corte Criminale, deposizione Francesco de Figlio. Cfr.E.Spagnuolo, Cospirazioni antisabaude e soldati sbandati nel circondario di Montefusco, Avellino 2001. Cfr. M.D’agostino, La reazione borbonica in provincia di Benevento, Napoli 1987. Così: “Nel mattino del Giovedì in Albis ultimo (quattro corrente aprile) mi portai nel mulino del soprannominato Frecchillo poco lungi questo abitato per sframentar cereali, e nel ritorno scontrai verso colà il Capozzi, e D. Remigio Fucci in segreto colloquio i quali mi fermarono, e nei ritenermi loro dipendente per la reazione, il Fucci mi premurò ad avisare per l’oggetto Emmanuele Boniello di Ginestra, ciò che non ho fatto. Fucci disse a Camillo Capozzi - ca a la Ginestra sono una quarantina che sanno maneggià l’arma, pensa tu pure loco mò -. Capozzi disse - pe quà me la vedo io -, e rivoltosi a me replicò - fatica, e statti pronto, e non t’allontanà a luongo, perché appena che mette pede Francisco ci riunimo -. Parlando poi essi Capozzie Fucci dicevano che la riunione della gente dovea farsi nel vallone tra S. Giacomo, e S. Martino A.G.P. compartendosi la gente metà a S. Giorgio, e metà a S.Martino disarmando prima i posti di guardia di tali paesi, e poi andare in Sannazzaro pel sacco nelle case di D. Domenico Soricelli, ed Arciprete Conte uccidendoli. Che ciò dovea aver luogo a’ venticinque di questo mese, mentre nella sera degli otto si dovea fare il conteggio della gente al detto luogo, ciò che poi non è avvenuto, e ne ignoro il perché. Dicevano pure che nel giorno ventisette Aprile tutto dovea esser terminato, venendo la truppa da Manfredonia, e che tale particolarità si sarebbe saputa dai trainanti che provvenivano di là passando per la strada nuova di Dentecane. Altro non dissero, ed io mi allontanai, restituendomi in casa”.
24. ASAV, Gran Corte Criminale, Busta 79, Processo Criminale n.27
25. Edoardo Spagnuolo, La Rivolta di Montefalcione, Edizioni Nazione Napoletana, Napoli 1997.
26. ASAV, Fondo Gran Corte Criminale, Visto dal giudice, l’atto del cancelliere Vincenzo Alfano è datato Montefusco, 16 settembre 1861, foglio 89 del cancelliere.I peronaggi coinvolti a Torrioni avevano dei precedenti. Chi erano davvero questi malandrini pronti alla rivolta lo scopriamo dai fogli manoscritti certificati dal cancelliere del futuro processo, al quale fu dato compito di sfogliate tutti i registri penali a caccia di precedenti imputazioni a carico degli imputati per vedere se avessero precedenti simili.
Alfonso Lepore. Su Alfonso Lepore il cancelliere scoprì che aveva commeso “un furto semplice di una canna di cosidetti tavoloncielli di legno castagno, ed altro compiustibile formante una pagliaia di campagna del valore di ducati 10, in danno di Berardino Donnarumma”. Aveva poi fatto un danno di due ducati e 36 grana per la rottura di tredici aspreni attaccati alle piante di viti latine sempre a danno di Donnarumma. Ad ottobre del 1852 fu dichiarato colpevole di danno volontario con sentenza a gennaio ma di poco conto per la rottura di 3 o 4 piccoli asproncelli, con la condanna di tre giorni di reclusione più le spese calcolate in poche grana. Più consistente il reato relativo alla ferita pericolosa di vita e di storpio per gli accidenti a colpo di pietra a danno di Gabriele Iommazzo di Torrioni il 30 gennaio 1857, alvandosi per l’abolizione dell’azione penale ad effetto dell’ildulo relativo alla sentenza reale del 2 marzo.
Domenico Troisi. Domenico Troisi fu Angelantonio di Torrioni non era uno stinco di santo per le offese lievi con arma impropria commesse in pena di Paolino Aufiero di San Paolo il 28 ottobre 1840. Ferite e percosse pericolose di vita furono invece l’accusa per aver usato strumento contundente a danno di Pellegrino e Giacomo Oliviero fu Giacomo di Torrioni la sera del 14 maggio 1846; con l’aggravante dell’ingiuria verbale a danno di Sabato Olivieri dieci anni dopo con la condanna di 12 carlini di ammenda, n alternativa a sei giorni di prigione, a cui si aggiungero le percosse lievi a danno di Benedetto Troisi nel 1855.
Marzio Donnarumma. A carico di Marzio Donnarumma fu Antonio c’erano le lievi accuse a danno di Rosaria di Pasqua con lanciamento di pietre da cui fece un mese si osilio correzionale, non mancando di produrre appello. Seguì furto qualificato per lo tempo e per lo mezzo in danno di Annamaria Meluccio di Prata nel 1859.
Pietro Donnarumma. Pietro Donnarumma se la prese invece con Biagio Ferraro con ingiurie verbali determinate a minacce fra misfatti e delitti a danno di Gabriele Ferraro ed Orsola d’Agostino sempre di Torrioni, beccandosi sette mesi di reclusione. A danno di Gabriele vi fu poi anche il lanciamento di pietre nel 1859, seguito dalla resistenza con violenza a danno dell’urbano don Giuseppe Leo, con ferite gravi e lievi avendogli prodotto storpio permanente, seguito allo sfregio permanente per Teresa Iommazzo nel 1859; nonché lo storpio permanente per donna Mariantonia Petrillo; come nel caso di Teresa Iommazzo di Torrioni.
Gioacchino Donnarumma. Giacchino Donnarumma di Antonio passò alle vie di fatto e minacce precedenti, fra misfatti e delitti a danno di Don Antonio Sarti, usciere del giudice regio di Montefusco in atto che agiva per esecuzione della pubblica autorità nel 1858; seguirono l’accusa di ferita di vita a danno di Raffaele Oliviero nel 1850 e quella di percosse lievi con arma impropria contro Serafino Pizzani di S.Paolina; pietre e ingiurie per Carlo de Vito; a carmine Olivieri invece impedì l’accesso e il proprio esercizio per l’usurpazione semplice di un terreno, beccadosi sei mesi perché recidivo. Uso privato di mezzi della pubblica autorità e minacce tra misfatti e delitti a danno di Raffaele Iannuzzi, Giovanni Cennerazzo, continuando con usurpazione di terreno di Ambrogio Lepore di Torrioni; le ferite a Giovanni Zoina del 1860, che gli regalarono sei mesi d’esilio correzionale; nonché la resistenza all’urbano Giuseppe di Leo con violenza con asportazione di arma vietata per cui fu giudicato a maggio del 1859.
Vitantonio Oliviero. Vitantonio Oliviero fu Matteo derubò di 27 grana Michele Orsino di Giuseppe di Montefusco in Torrioni nel maggio del 1844.
Savino Iomazzo. Savino Iommazzo di Nicola era stato accusato di percosse lievi con arma impropria a danno di Raffaele Oliviero beccandosi dieci giorni di mandate in casa; provocò in seguito storpio a Luigi Aufiero di Tufo nel 1855 per la complicità in ferite pericolose a lui inferte.
Isidoro Ferrara. Isidoro Ferrara di Camillo fu accusato di ferita lieve a colpi di pietra contro Pasquale Bruno di Torrioni nel 1846 e poi di Gabriele Ferrara e Orsola d’Agostino anche per l’utilizzo di arma impropria, se la cavò per l’abolizione penale del 1859. Ma all’asportazione di arma vietata, una baionetta, culminata con l’uccisione di una pecora in pregiudizio di Sebastiano Lepore, aggiunse la resistenza e l’imprudenza per la fuga il 27 gennaio 1861.
Vito Ibelli. Vito Ibelli fu Domenico era stato accusato di ferita pericolosa di vita a danno di Domenico Oliviero, beccandosi un mese di prigione.
Saverio Iommzzo. Saverio Iommazzo fu Emmanuele di Torrioni fu accusato di furto qualificato di una zappa ed altri diversi oggetti di Pellegrino Lepore, idem a danno di Giovanni Cennerazzo; percosse lievemente invece Raffaella Oliviero, essendosi trasformato il tutto in rissa, sebbene non si seppe mai l’autore. Furto anche ai danni di Pasquale Donnarumma nel 1853.
Berardino Donnarumma. Berardio Donnarumma di Antonio era il delinquente più conosciuto. Cominciò con le percosse a Giuseppa Oliviero nel 1853, proseguì contro Arcangelo Leo e Antonio Cirelli beccandosi sei mesi. Passò poi all’usurpazione di terreno a danno volontario di Pellegrino Lepore avendo rimosso i termini dell’appezzamento, quindi per “la rimozione di termini con turbativa di possesso e fu condannato ad un mese di prigione”; altro terreno lo occupò a Carmine Olivieri. Ad Andrea Centrella e Carmine Donnarumma rubò qualcosa, tornando all’attacco sul terreno di Antonio Oliviero. nel 1856, a cui seguirono le percosse ad Eufrasia Oliviero ed un furto a Nicola de Julio. Diventato esperto in crimine cominciò con le minacce al supllente giudiziario cancelliere di Torrioni, costringendolo a non fare un atto dipendente dal suo ministero il 29 gennaio 1857. Danni anche a Carmine Olivieri, culminato con la resistenza all’arresto che si stava operando dall’urbano Giuseppe Leo, ferito gravemente; come ferì pure Teresa Guerra di Santa Paolina.
Non risulteranno recidivi Antonio Cirelli, Serafino Centrella, Ruberto Spadera, Domenico Ferrara tutti di Torrioni; Pasquale Giovanniello, Michelangelo Giovanniello e Francesco Covino di Petruro.
27. ASAV, Corte d’Assise, Busta 1, fogli 11-12.
28. ASAV, Corte d’Assise, Busta 1, fogli 11-12.
29. ASAV, Sentenze della Gran Corte Criminale, Busta 206, Marzo 1861. Cfr. Edoardo Spagnuolo, La Rivolta di Montefalcione, Edizioni Nazione Napoletana, Napoli 1997.
30. ASAV, Corte d’Assise, Busta 1, fogli 11-12. Cfr. Edoardo Spagnuolo, La Rivolta di Montefalcione, Edizioni Nazione Napoletana, Napoli 1997.
31. ASAV, Corte d’Assise, Busta 1. Dai documenti del fondo Corte di Assise di Avellino saltano fuori le lettere inviate dai sindaci della zona quali adempimenti di rito sul conto degl’imputati delle reazioni avvenute nei comuni di Tufo, Torrioni e Petruro; ASAV, Corte d’Assise, Busta1. Era questo il tono della lettera che il giudice invia al procuratore descrivendogli l’attentato che ha per oggetto di cambiare la forma del governo, nella notte degli 8 ai 9 luglio 1861 in Torrioni e Petruro, avendo infranto gli imputato l’articolo 156 del codice penale. Questa la descrizione degli imputati che ne fa il sindaco Luongo di Tufo il 31 agosto. Si certifica da me infrascritto sindaco del Comune di Tufo, qualmente il mio amministrato Michele Raffaele Iannaco fu Angelo, chiamato col solo nome di Michele, è nello stato coniugale, ed ha prole ed i connotati del medesimo sono: nativo di Tufo, quivi dimorante, statura giusta, capelli castani, occhi cervini, naso sfilato, mento lunghetto, bocca giusta, colore naturale, barba folta, anni 41, di condizione bracciale. Il presente certificato è rilasciato a domanda del signor Giudice mandamentale con suo ufficio del 20 cadente. Era stato quindi il giudice del mandamento di Montefusco a chiedere notizie sugli arrestati residenti a Tufo e il sindaco gliele diede, certificando, uno per uno, i nomi dei residenti nel suo paese. Cominciando sempre allo stesso modo: Si certifica su richiesta del giudice mandamentale.
E via con altri nomi. Giovannantonio Filippo Carpenito di Saverio chiamato Giovanni di Tufo, robusto, e statura regolare, capelli castani, occhi cervini, naso tondo, mento lungo, bocca piccola, colore normale, barba nascente, anni 21, condizione possidente.
Segue Elia Bottiglieri di Antonio di statura quasi alta, capelli castagni, occhi cervini, naso grande e lungo, bocca grandetta, mento tondo, carnagione naturale, barba piena, anni 36, calzolaio proprietario. C’è anche Giuseppe Bottiglieri, forse fratello del precedente, essendo sempre figlio ad Anonio, di statura alta, con capelli castano chiari, occhi celesti, naso giusto, mento regolare, bocca simile, colorito normale, barba piena, anni 38, falegname proprietario. E pare la sorella, Angiola Brigida Bottiglieri di Antonio, una vedova di 42 anni, della quale, al posto del mestiere, si indica di stato civile, con tre figli: due femmine e un maschio. A proposito del fabbricatore Antonio Bottiglieri, padre dei cospiratori, lo cita in un estratto successivo, in cui si dice che l’8 dicembre 1815, abitante in via dell’orologio, alla presenza dell’allora sindaco Francesco del Mastro, gli era nato il figlio Francesco Domenico Bottiglieri che quindi all’epoca dei fatti aveva 46 anni. Questi, di condizione proprietario, era riconoscibile perché sta la scapola destra bassa alla sinistra. Evidentemente neppure il padre restò fuori dalla sommossa citandosi come Antonio Bottiglieri fu Antonio con i molti figli di cui sopra, di 69 anni, capelli alquanto avanti, classe 1813, bracciale come il padre in via Codacchio.
Segue Francesco Nicola Meola, chiamato Nicola, celibe di 25 anni di mestiere sarto.
Michele Domenico Perone fu Gabriele chiamato Modestino era un bracciale.
Luigi Nicola Molinaro fu Andrea detto Luigi un altro bracciale.
Domenico Fortunato Molinaro detto Domenico di Giuseppe contadino di 21 anni.
Sabato Fortunato, bracciale celibe di 22 anni.
Michele Fortunato Pizzano di Carmine, bracciale di 24 anni.
Il signor Don Angelo Raffaele Luongo fu Saverio non era l’unico notabile; chiamato Don Raffaele, di 49 anni, era un sacerdote riconoscibile perché calvo.
Ma seguiva anche il Signor Don Carminantonio Luongo, forse fratello del prete, perché anch’egli figlio a Saverio e sacerdote di 47 anni.
Gregorio Porrazzo fu Felice era stato invece militare borbonico ridottosi a fare il secchiaro a 35 anni. era riconoscibile dalle orecchie bucate.
C’è poi Francesco Michele Citto fu Gaetano di 36 anni.
33. ASAV, Corte d’Assise, Busta 3, anno 1861, fascicolo Attentato dell’8 e 9 luglio, comincia con un rapporto del sindaco di Torrioni Pellegrino Donnarumma; ASAV, Corte di Assise di Avellino, busta 2497, ex fascio 1398, lettere dei sindaci della zona al regio giudice del mandamento di Montefusco, 27 agosto 1861. La cronaca del sindaco Donnarumma. Scrive il giorno dopo la rivolta, il 9 luglio, il sindaco Pellegrino Donnarumma. Ieri 8 del corrente alle 2 di notte sorpresi in questo comune una colonna di soldati sbandati di circa un centinaio. I medesimi si recarono dal capo plotone e sottocapo della Guardina Nazionale, nonché dal sindaco e furono condotti dagli altri soldati sbandati qui esistenti, e vollero salire sulla cancelleria. Domandavano se esistevano i quadri di Vittorio Emanuele e Garibaldi... Vollero le armi regie, e se le presero, rilasciando un ricevo al capo della Guardia Nazionale. Poi chiesero la bandiera tricolori e questa si brugiò sul campanile. I medesimi piantarono una bandiera bianca: dissero questi erano gli ordini superiori. Quindi gridarono con molti del comune Viva Francesco II e Maria Sofia, senza altro a desiderare, e fare altre operazioni, partirono pel comune di Petruro.
Nella successiva dichiarazione il sindaco corregge però il tiro dicendo che “stando nella propria casa si vide accerchiato da una quantità di persone nel numero di circa quindici, le quali si fecero aprire la porta con minaccia, ed essendo entrare in caa gli richiesero le armi. on avendo che un fucile militare con la corrispondente baionetta, ed un altro alla persona mandato, fulminante, li consegnò puntualmente. Richiesero la provvisione, ed il dichiarante non avendo che quaranta cartucci, li consegnò pure, e perché mostrava della resistenza, fu percosso con un sonoro schiaffo da una di esse che faceva da capo, ed un’altra gli impugnò la bajonetta alla gola. Dopo breve trattamento partirono via”. Aggiunge che “onde conoscere di che trattavasi credé opportuno seguirli, ma dalle citate persone gli fu imposto di ritirarsi dicendo che non eravi di bisogno la di lui persona. Gli individui i quali entrarono in di lui casa erano forestieri, ed eano tutti armati di fucile, e di essi non conobbe alcuno. Intese però che colui che faceva da capo veniva chiamato col nome di Ciccillo; che ne picchiare la porta di sua casa intese pure che veniva chiamato a nome dai suoi conterranei Alfonso Lepore di Carmine, Don Donato Leo di Don Gaetano, capitano, e Roberto de Julio sottotenente della Guardia Nazionale, e Serafino Centrella di Lorenzo, e per tale ragione aprì. Ritoratosi in casa poi non uscì nel corso di quella intera notte e nel seguente mattino uscito in piazza venne a sapere che citati de Leo e de Julio che d’esessi erano stati presi per la forza, e tutte le divisate persone erano soldati sbandati, i quali eransi pure recti in casa del cancelliere comunale Don carmine Centrella, dal qale si avevano ancora fatto esibire il fucile e seppe dallo stesso che gli sbandati medesimi gli avevano richiesto i quadri di Vittorio Emanuele ed il corrispondente emblema per distruggerli, ma perché non ve n’erano, si persuasero della negativa ed erano partiti via. da Michele Cennerazzo caporale della Guardia Nazionale se non isbaglio venne a sapere che eansi del pari portati in sua casa ed avevasi fatta esibire la bandiera tricolore che conservava, e l’avevano ridotta in cenere e che nel posto di Guardia avevano presi numero dieci fucili, rilasciando corrispondente ricevo firmato da colui che faceva da capo, e per quanto ha inteso dire chiamasi Francesco iennaco di Tufo, ed a suo servo era quello che veniva chiamato Ciccillo; che vide pure nel mattino inalberata la bandiera bianca su la vetta della Chiesa, ed à spiegato che si di tale punto può ascendersi per mezzo della porta del Campanile corrispondente alla strada, senza bisogno di aprirsi anzidetta era aperta, perché in istato di accomodo”. Infine aggiungeva il sindaco Donnarumma che il ricevo, cioè la ricevuta di consegna dei fucili “si conserva attualmente dal capitano Don Donto Leo e che dal principio tutti gli sbandati gridavano ad alta voce Viva Francesco Secondo, Viva Maria Sofia ed obbligavano anche i paesani a gridare simile guisa, essendo giunti al numero di circa settanta, compresi gli sbandati. Egli però non sa dire alcuna notizia su la identificazione delle persone anzidette e che infine non ha afftto inteso dire se persone del suo comune o di altri fossero stati insinuatori a voler commettere si enorme misfatto. Nulla è a sua conoscena sul proposito. Si è inoltre rammentato che tranne il suddetto sbandato Alfolso Lepore vi esisteva ancora tra quelli forestieri anche l’altro sbandato Felice Altieri di San Giorgio residente in Torrioni e che la bandiera bianca inalberata sulla detta Chiesa venne tolta dalla Guardia Nazionale di san Giorgio la Montagna, e quindi non la può offrire alla giustizia”.
Perverrà poi all’ufficio del cancelliere comunale “un involto contenente i brani dell’effigie di Sua maestà Vittorio Emanuele e del Generale Garibaldi, suggellati. Fra i residenti di Torrioni che presero parte alla rivolta vi furono quindi Algelo Lepore e Pietro Donnarumma, come ricordava Don Michele Zarrelli fu Angelo, capitano della GN di Petruro”.
A dire del sindaco sicuramente Giacchino Donnarumma fu Antonio, contadino di 45 anni dagli occhi neri, statura giusta, naso giusto, barba folta, mento regolare, capelli castani, ma dalla carnagione nera. Era riconoscibile dalle ferite alla faccia destra.
Anche Saverio Iummazzo fu Nicola di 32 anni, prese parte alla sommossa. Contadino dagli occhi bianchi, Saverio aveva il mento piccolo, la barba folta, i capelli biondacci e il naso mediocre. Di statura bassa, aveva un colorito naturale.
Isidoro Ferrara di Camillo, sempre di Torrioni, era un contadino dalla faccia tarlata, riconoscibile anche dal dito pollice, in quanto, manca, mutilato.
Vito Ibelli fu Domenico di 28 anni lo si scorgeva per la testa calva infetta.
Bernardino Donnarumma fu Antonio, a parte i capelli neri e il colore naturale, era un po’ più difficile perchè era di statura giusta, dagli occhi neri, col mento regolare e aveva la barba folta. Forse solo per il naso sfilato. Il forse fratello Pietro fu Antonio, sempre contadino di Torrioni, aveva 27 anni. Dagli occhi neri, mento regolare, barba folta e capelli neri, era invece alto, di carnagione naturale e col naso giusto.
La lista termina con Serafino Centrella di Lorenzo, sempre di Torrioni.
Ma il 4 settembre il sindaco Pellegrino Donnarumma inviava al giudice mandamentale di Montefusco altri nomi: Vito Ibelli fu Domenico, Saverio Iummazzo fu Nicola, Bernardino Donnarumma fu Antonio, Isidoro Ferrara di Camillo, Saverio Iummazzo fu Emmanuele o sia alias Maro d’Acqua.
Eppoi c’era il calzolaio Cirelli di 34 anni dagli occhi neri, naso sfilato, mento lungo, statura alta, naso giusto, colorito normale, capelli neri.
Marzio Donnarumma fu Antonio aveva invece 25 anni dagli occhi neri, il mento regolare, di statura basso, col naso giusto, il colorito neretto, i capelli neri e la barba folta.
Vitantonio Oliviero fu Matteo, sempre nato a Torrioni, era però domiciliato in Tufo all’età di 32 ammi.
Roberto Spadera, figlio di nn, era invece nato a Montefusco e si era poi trasferito a Torrioni.
Domenico Antonio Fenora di Francesco, sempre di Torrioni, era un contadino di 24 anni.
Come Alfonso Lepore di Carmine che di anni ne aveva 25.
Domenico Troisi fu Angelantonio, sempre di Torrioni, faceva invece il falegname ed aveva 48 anni.
Era invece di Montefusco il bracciale Pellegrino Domenico Meola figlio di Carmine e Antonia Fiano, di 26 anni, essendo nato il 13 maggio 1831, ma residente a Tufo.
Un numero consistente di torrionesi. Ma le lettere non finiscono qui. Il 24 agosto 1861 il sindaco di Torrioni Pellegrino Donnarumma aveva già scritto al regio giudice di Montefusco per altri adempimenti di rito, come egli comandava subito estrargli adempimenti di rito, cioè estratti di nascita-certificati di possidenza-stato di famiglia e filiazione sul conto dei seguenti individui:
1. Antonio Cirelli di Pasquale, calzolaio nato a Barletta.
2. Domenico Troisi.
3. Marzio, 4. Pietro e 5. Giacchino Donnarumma.
6. Serafino Centrella di Lorenzo.
7. Roberto Spedera.
8. Alfonso Lepore.
9. Domenico Ferrara di Francesco.
10. Vitantonio Oliviero.
Il sindaco dice che manca solo la fede di nascita di di Spadera nato in Montefusco, anno 1841.
Ma ecco gli altri congiurati segnalati dal sindaco di Tufo.
Luigi Antonio Iennaco fu Angelo di 43 anni.
Giovanni Antonio di Pasqua fu Gaetano di 56 anni di Tufo. Si ricorda che era stato battezzato nella Chiesa di S.Maria Assunta, ovviamente ricadente nella diocesi di Benevento, dall’arciprete curato della Chiesa Parrocchiale che, per l’esattezza, si chiamava S.Maria in Cielo Assunta, il 16 gennaio 1800.
Giuseppantonio Molinaro fu Francesco di 56 anni.
Nicola Bergamino Iennaco fu Angelo di 33 anni, sarto, barbiere e salassatore.
Luigi Domenico de Vito di Angelo di 49 anni era riconoscibile perché aveva una macchia di sangue in un occhio.
Tino Bottiglieri di Antonio, di 40 anni, era di stato celibe.
Non scampò il proprietario Abele Antonio Luongo di 45 anni, riconoscibile da una grossa cicatrice sulla fronte.
Come dalla testa calva per la tigna sofferta si poteva riconoscere il contadino Giovanni Domenico Selciano fu Pasquale di 31 anni.
Francesco Gennaro Grasso era invece un possidente che faceva il sagristano.
Di Luigi Fortunato Nicoloro di Gaetano si sa che aveva 26 anni.
34. ASAV, Corte di Assise di Avellino, busta 2497, ex fascio 1398, dichiarazione di Don Federico d’Agostino, proprietario di Petruro, f. 19.
35. ASAV, Corte di Assise di Avellino, busta 2497, ex fascio 1398, lettere dei sindaci della zona al regio giudice del mandamento di Montefusco, 27 agosto 1861; ASAV, Corte di Assise di Avellino, busta 2497, ex fascio 1398, dichiarazione di Serafino Centrella ed altri (a seguire). Fra le dichiarazioni v’è quella di Serafino Centrella di Lorenzo, 23 anni, proprietario di Torrioni, il quale disse che ad un’ora di notte circa della sera di lunedi che si contavano li 8 del corrente mese egli uscì di sua casa in Torrioni per recarsi a dormire nella di lui masseria secondo il solito, ed impassando per le vicinanze della casa del tenente della Guardia Nazionale, Signori Roberto de Julis, vide che lo stesso era accerchiato da circa trenta individui, la maggior parte armati di fucile. Il de Julio in vedere il dichiarante lo chiamò, e gli disse che si fosse recato nella citata sua massria ed anche preso il fucile militare che egli deteneva quale Guardia Nazionale per darlo ai citati individui. Fu pronto ad eseguirlo, poiché temendo che i medesimi erano quei sbandati che nella notte precedente avevano coronata la reazione nel Comune di Tufo. Che nel recarsi alla sua masseria siguirono a lui quattro dei sbandati anzidetti, tra quali conobbe solo il figlio di Saverio Carpenito di cui ignora il nome, domiciliato nel illaggio di San paolo, tenimento di Tufo, essendo gli altri a lui ignoti.
Voleva il dichiarante consegnar loro il suo fucile per più non ammoversi dal detto locale, ma essi l’obbligarono di forza a seguirli, facendogli asportare l’arme anzidetto.
Che ritornati in Torrioni rinvenne il tenente Signor de Julio ancora in mezzo agli altri sbandati, i quali obbligarono, come fecero, al dichiarante di seguirli nella casa del del capitano Don Donato Leo, da cui anche con minaccia si fecero esibire cinque in sei altri fucili, che lo stesso deteneva. Si recarono poscia nella casa del sindaco pellegrino Donnarumma, dal quale si fecero dare un altro fucile, e quindi nella casa del cancelliere comunale Don Carmine Centrella, il quale presentò loro anche il suo fucile militare. Ciò eseguito vide che si recarono nella casa del caporale della Guardia Nazionale Michele Cennerazzo, e stando il dichiarante alla coda della compagnìa vide che i primi sbandati incendiarono la bandiera triolore che dal cennerazzo si conservava, e dal medesimo si avevano fatto esibire siccome dopo apprese.
Tra i sbandati anzidetti il dichiarante conobbe soltanto Alfonso Lepore di Carmine soldato congedato e tale Felice di San Giorgio la Montagn, di cui ignora il cognome. Gli altri non furono affatto da lui conosciuti, perché forestieri, e non sa dare elemento alcuno sul conto dei medesimi.
Dopo incendiata la bandiera tricolorre, il deponente vide che i sbandati stessi situarono una bandiera bianca su la Chiesa, non conoscendo se la medesima si conservava, ovvero fosse stata procurata in Torrioni... Tutti gli sbandati anzidetti si gridava per lo abitato con le parole Viva Francesco Secondo, Viva Sofia. Dietro tali chiassi egli si accorse che molti del paese uscirono, ma non sa dire chi d’essi fossero, e se avessero ovvero no proclamate le dette voci sediziose. Avendo tanto eseguito, gli sbandati medesimi obbligarono il deducente non solo, ma benanche il tenente Signor Iulio, ed il capitano Don Donato Leo a seguirli, dicendo che dovevano recarsi nel vicino comune di Petruro a consumare la stessa reazione e con minacce di vita furono costretti. Prima però di giungere in detto comune, il Signor Leo ottenne per favore il permesso di ritornare, per la ragione che avea rimasto in casa il decrepito arciprete suo zio Don Fulippo Leo.
Giunti in Petruro fecero le stesse operazioni come in Torrioni, col farsi esibire i fucili dal Capitano della Gardia Nazionale e dal sindaco.
Vide pure che incendiarono la bandiera tricolore, ed inalberarono il vessillo borbonico nelle vicinanze, e sul muro del pubblico fonte, pronunziarono le trascritte voci allarmanti “Viva Francesco Secono, Viva Maria Sofia”. Uscirono pure molti del paese, ma non sa dire chi d’essi fossero, e se avessero ovvero no gridati con le ripetute parole.
Centrella concluse dicendo di non conoscere se persone di Torrioni o di Petruro fossero state “motori ed insinuatori per la coronazione delle citate reazioni”, aggiungendo che “terminata quella di Petruro, tanto il dichiarante che il tenente Signor Roberto de Julio ottennero in grazia di ritirarsi nelle di loro patrie come seguirono; che nella seguente sera di martedì 9 del mese suddetto, il dichiarante unitamente al tenente de Julio si portarono nella masseria messa in tenimento di Torrioni alla direzione del Comune di Tufo, per eseguire taluni arresti, ove incontrarono nuovamente i medesimi sbandati, i quali forzosamente li obbligarono di seguirli, e giunti colà, avessero delle candele vicino i quadri di Francesco Secondo e moglie, ed eseguita tale operazione, ritornarono nella masseria nella contrada S.Paolo ove riuscirono di scappare, e così non più li videro”.
Questa la dichiarazione di Serafino Centrella presentatosi volontariamente, ma la risposta del giudice fu secca: “Sia tratto nel carcere in istato di deposito a disposizione della Gran Corte Criminale della provincia”.
Andrea Centrella di Torrioni aprì invece la porta di casa perché convalescente e vi entrarono Pietro Donnarumma, Alfonso Lepore, Serafino Centrella seguiti da altri due con l’intento di recuperare fucili. “Alla risposta che niuno ne possedeva, si persuasero e così impresero ad uscire, dopo di aver bevuto alquanto vino che loro fu dato dalla detta sua moglie, alla quale l’avevano cercato. Nel seguente mattino apprese dalla pubblica voce il disarmo del posto di Guardia e la inalberazione del vessillo borbonico. Al di fuori della sua casa, quando entrarono nella stessa i citati individui erasi rimasto l’altro suo compaesano Domenico Troisi fu Angelantonio, il quale in sentire la negativa dei fucili, avea detto ai detto ai compagni: - Non ha cacciato i fucili, se non li à cacciato oggi, li caccerà domani”.
Anna Cennerazzo di Pasquale, 25 anni, moglie di Ciriaco Centrella di Torrioni li vide entare per quella porta aperta dalla suocera, la quale teneva anche il lume nelle mani, i sui conterranei Pietro Donnarumma, Alfonso Lepore, Serafino Centrella ed altri due che volevano i fucili, oltre Costanzo Lepore, Saverio Iommazzo alias Maro d’Acqua, Domenico Troisi, dai quali udì dire la frase: - Non li ha cacciato i fucili, se non li ha cacciati oggi, li caccerà domani.
Ovviamente i fucili non c’erano perché stavano nel deposito in cancelleria per volere del di Leo. Quando giunsero nel posto di guardia non trovarono i quadretti con l’immagine del re e del dittatore, ma non li aveva perché si attendevano. Però trovarono i 15 fucili per il rilascio dei quali fu scritta una strana ricevuta, un biglietto in cui si dichiarava di aver preso possesso dei 10 fucili: 7 militari, cioè quelli ufficiali con la baionetta in dotazione della Guardia, e 3 paesani, ovvero gli schioppi. E davverò fu sottoscritto un paradossale biglietto di rilascio ricezione fucili, con tanto di data e firma, dalla Nazionale del comune di Torrioni, 8/7/1861, firmato dal capo della colonna Francesco Gennaco 1° sergente.
Pellegrino Donnarumma, ricorderà poi di aver preso anche uno schiaffo da Don Ciccillo, cioè Francesco Iennaco di Mercogliano accasato nel Tufo.
Il capitano Don Donato Leo, il tenente Roberto de Julio e Serafino Centrella furono fatti uscire per fare delle cose.
Vedasi per un confronto anche: ASAV, Gran Corte Criminale, Montefusco, Busta 8, fascio 2947, comprendende l’ex volume 29, fascicolo 46-47. Anno 1864. Cfr. ASAV, Gran Corte Criminale, Montefusco, Busta 8, fascio 2947, comprendende l’ex volume 29, fascicolo 46-47. Anno 1861. Cfr. Floriana Guerriero, Tufo 1863, vendetta di sangue, dal quotidiano Ottopagine, 20 gennaio 2010, dir. Gianni Festa. Cfr. ASAV, Gran Corte Criminale, Montefusco, Tufo. Anno 1863. C’è da dire che non solo loro vennero accusati di aver violato solo l’articolo 156 del codice penale. Anzi, sarà meglio precisare l’elenco finale dei nomi che risultarono definitivamente fra gli imputati, dopo i naturali stralci effettuati in fase dibattimentale.
L’accusa finale fu quindi a carico di: Pasquale Pisano di Altavilla, Francesco Iannaco di Mercogliano residente in Tufo; Gregorio Pennazzo fu Felice, Francesco Cillo fu Gaetano, Michele Pizzano di Carmine, Sabato Perone di Francesco, Domenico Molinaro di Giuseppe, Luigi Molinaro fu Andrea, Modestino Perone fu Gabriele, tutti di Tufo; Antonio Cirelli di Pasquale e Domenico Trosi di Torrioni; Pasquale Pisaniello, Michelangelo Giovanniello e Francesco Covino di Petruro.
“Come autorità di tali reazioni, trovansi arrestati Antonio Cirelli di Pasqua, Domenico Troisi di Torrioni, Pasquale Giovannielo, Michelangelo Giovanniello fu Antonio e Francesco Covino di Petruro, Marzio, Pietro e Giacchino Donnarumma anche di Torrioni. E si presentava a me ispontaneamente Serafino Centrella di Lorenzo dello anzidetto Comune, e tutti sono stati ristretti in carcere a disposizione della Gran Corte Criminale. Debbo farle pur presente che per rapporto dell’ufficiale di pubblica sicurezza Don leopoldo Ricciardelli, risulta che facevano parte della Banda reazionaria in Torrioni i seguenti individui, cioè: Don Roberto Spadera, Alfonso Lepore, Domenico Ferrara di Francesco, Vitantonio Olivieri di Torrioni e Felice Altieri di San Giorgio la Montagna, sul conto dei quali andò parimenti ad istruire. E mentre definisco il reato come al margine, la prego esser certo che per cosiffatta processiva metterò in atto l’avvedatezze che mi sappia maggiore. Era questo il tono della lettera che il giudice invia al procuratore descrivendogli l’attentato che ha per oggetto di cambiare la forma del governo, nella notte degli 8 ai 9 luglio 1861 in Torrioni e Petruro, avendo infranto gli imputato l’articolo 156 del codice penale”.
Accusati dal Pubblico Ministero presso la Gran Corte Criminale di Avellino furono quindi li sbandati Pisano, Cillo, Pizzano i due Pirone, i due Molinaro e Meoli i quali, in unione con gli altri cittadini naturali di Tufo, rubarono 13 fucili infrangendo i quadri di Vittorio Emanuele e dell’eccelso dittatore Garibaldi ed abbattendo lo stemma di casa Savoia sovrapposto all’ingresso del locale del posto della Guardia Nazionale di Tufo, dandosi poscia a girar pel paese, con bandiera bianca, prorompeva in fragorosi “Evviva Francesco Secondo e Maria Sofia”, ed “Abbasso Vittorio Emanuele”, riducendo in pezzi lo stemma sabaudo che sovrastava il botteghino della privativa di Luigi Luongo. Piazzaron quindi tal bandiera su di una croce, che ora è d’innanzi la Chiesa, e che nel mattino si vide sventolare sul tetto della medesima.
Eppoi continua con i fatti accaduti nella notte a Torrioni, quando, unitisi altro soldato fuoriuscito dall’esercito, Alfonso Lepore, rubarono i fucili al posto di Guardia Nazionale e riducevano in cenere la tricolore bandiera inalberando quella del Borbone. Seguirono le vicende di Petruro dove, unitisi a Marzio, Pietro e Giacchino Donnarumma, Serafino Centrella, Francesco Covino ed altri davano fiamma al vessillo con le immagini del Re galantuomo e di Garibaldi, dispiegarono quello bianco del Borbone. Dopo tali eccessi festeggiarono a Tufo, con luminarie ed altro, gli ex sovrani, lasciando le popolazioni in serio spavento.
Da qui l’individuazione dei promotori della rivolta nelle persone dell’ex assessore Abele Luongo, del sacerdote Don Raffaele Luongo e di Carminantonio Luongo come coloro che erano gli occulti consiglieri e promotori di simile attentato contro l’attuale regime. Ne seguì l’ordine di cattura emesso dalla Gran Corte Criminale a carico dei 17 detenuti. A meno di Pasquale Pisano di Tufo, accusato di attentato che aveva per fine di cambiare la forma di governo, tutti gli altri sono accusati delle rivolte avvenute in Torrioni e Tufo: Francecso Cillo, Michele Pezzo, Sabato Perone, Domenico e Luigi Molinaro, Modestino Perone, Alfonso Lepore e Abele Luongo. Quest’ultimo era stato luogotenente della Guardian nazionale, consigliere comunale e assessore, scriverà un biglietto di grazia dicendo che non vi aveva preso parte perchè era in casa. Seguivano il sacerdote Don Raffaele Luongo, Carminantonio Luongo, Francesco Covino, Marzio, Giacchino e Pietro Donnarumma, Serafino Centrella.
Di questi 17 ben 11 subito furono rilasciati, come da verbale di dibattmento del 22 novembre 1862, individuandosi solo alcuni di Tufo e il Pisano di Altavilla, ai quali però venne aggregato Alfonso Lepore di Torrioni condannati dalla Corte di Assise di Avellino con sentenza del 29 novembre 1862 per i fatti del 7,8 e 9 luglio 1861 in Tufo, Torrioni e Petruro. Il processo passò per la Gran Corte Criminale il 20 novembre 1863 e, per annullare la sentenza di condanna, alla Corte di Appello il 15 gennaio 1864, quando anche Alfonso Lepore fu accusato solo di reato politico e ammesso al godimento della sovrana indulgenza, visto l’ultimo articolo 1 del 17 novembre 1863.
36. Edmondo Marra, op.cit.
37. Ivi.
38. Ivi.
39. Ivi.
40. Ivi.
41. Ivi.
42. A.Bascetta, Quadrelle, ABEdizioni, Avellino 1997.
43. ASA, Fondo Brigantaggio, n.1/30, “Assalto al paese da parte dei briganti”, Relazione del Sindaco del 18.8.1861.
44. V.Pagano - G.Pagano, Centenario della morte di Andrea Mattis, Tipografia Pergola, Avellino 1961.
45. Archivio di Stato di Avellino (d’ora in avanti ASA), Fondo Brigantaggio, n.1/30, “Filomeno Conte e Angelantonio Colucci”, Richiesta di compenso al Prefetto, 20.5.1862.
46. Edmondo Marra, op.cit. Solo l’11 agosto venne arrestato uno dei capeggiatori, Alessandro Picone. Una donna esultava al passaggio del prigionero fra i militi, urlando: “Lo avete preso finalmene a ‘sto mariuolo, lo pozza appiccià Gesù Cristo!, ma l’occasione fu propizia a Picone per scappare favorito dalla folla. Le 6 Guardie vennero arrestate e poi rilasciate.
47. Ivi. Il 5 settembre verrà arrestata Filomena De Feo, accusata di spargere voce su presunti navi straniere che stavano riportando Franceschiello a Napoli e per l’annuncio che i rivoltosi sarebbero stati tutti liberati senza causa. Il 17, nel bar di Angelo Discepolo, tale Angelo Melchiorre di Atripalda sparse voce che 15.000 sbandati borbonici avevano fatto ritirare le Guardie Nazionali, ma venne arrestato. Il 23 settembre il colera fece altre vittime.
48. A.Bascetta, 3.Monteverde, opinioni, Avellino 1996.
49. M.Severini, Altavilla Irpina, 1907. Così continua: “Ognuno chiama i suoi a raccolta e tutti si serrano in casa. Gli uomini si apprestano alla difesa, provvedendosi alla meglio di armi e munizioni; le donne, pallide, biascicano preghiere a S.Rocco e S.Pellegrino, di cui son vicine le feste; i bambini, inconsapevoli, piagnucolano sommessamente, stringendosi e aggrappandosi alle gonne materne, nelle quali trovano asilo anche le monete e i pochi monili di casa. E’ un affaccendamento, anzi un affastellamento generale. Dopo il quale, tutto rientra in un perfetto silenzio, in cui non si odono che i sospiri di paura, erompenti, irrefrenabili, dai petti delle donne e dei vecchi.
Nell’attesa, si spia dai balconi, dalle finestre, dai tetti. A un tratto il gran silenzio del paese è rotto... parecchi altavillesi trovansi in quella banda e anche qualcuno ascritto fra le Guardie Nazionali; che però non sono molti e sono male armati, per la maggior parte con lunghe pertiche aventi attaccate alla punta roncole e falci”
50. M.Severini, Altavilla Irpina, 1907. Così continua Severini: “Perche, ovunque andavano, specialmente quando erano mal capitanate commettevano abusi e rapine d’ogni sorta. Qualche cosa di simile fu per succedere in Altavilla, in quell’occasione. Il Palumbo pretendeva che il Sindaco e il Capitano della Guardia Nazionale gli indicassero le case di tutti quelli ch’erano scomparsi per unirsi con i briganti”. Sindaco e Capitano fecero notare al Comandante che egli aveva soltanto l’incarico di inseguire e arrestare i reazionari. Palumbo fu costretto ad accontentarsi di far bruciare i pagliai e il casone, covo di Don Donatino, già disperso sull’Incoronata, sequestrando nel mentre Don Matteo Zaccaria di Sant’Angelo a Scala. Il rapimento di Sant’Angelo a Scala seguiva quello della moglie di Don Serafino Soldi di Pietrastornina, il quale riuscì ad uccidere uno della banda, sulla scia di quella Guardia Nazionale che ne aveva freddato altri due. Da qui l’invito del Sindaco a non attaccare il paese, disposto ad accoglierlo a braccia a perte: “I galatuomini tutti del paese di Pietra Stornina vi attendono con anzietà, le armi e le munizioni sono pronte”. La banda era entusiasta, ma Don Donatino frenava: “Figlioli, noi andremo nel paese, ma voi dovete fare quello che io vi dico, e non dovete appartarvi dalle righe. In contrario menerò mazzate!”. Fu il pretesto per scendere in paese e, giunto nella sede del Corpo delle Guardie, rotta la tabella, le disarmò, atterrò la bandiera italiana e innalzò quella borbonica, facendo accampare la banda in campagna in attesa di 200 razioni di pane e vino, sotto il sole cocente del 13 agosto. Il paese era in festa e i galantuomini sfilarono come per una processione al seguito di Luigi Antonelli che portava la bandiera bianca, poi riconosciuto di tal colpa da Don Sigismondo Soldi e accusato di “complicità in crimine che ha per oggetto di cambiare e distruggere l’attuale forma Governativa, facente parte delle bande armate che han portato la devastazione ed il saccheggio del Comune di Pietrastornina”, sebbene offrì prova e testimoni che all’epoca dei fatti si trovava a Napoli dallo zio, assicurandone le qualità morali, “vivendo con la fatica giornaliera delle proprie braccia”. In realtà, dichiarerà Luigi Abate che “lo stesso Soldi era stato assalito dai briganti, si era a costoro unito”, ma solo per sentito dire. Vincenzo Augelli fu invece arrestato per aver “portato delle vettovaglie” alla banda, ma per “ordine di Don Vincenzo Ferrara” e insieme alla sua domestica Maria, con “molte quantità di pane di prosciutti un barile di vino ed altro”.V. F. Barra, I briganti del Partenio, in: Quaderni Irpini, n.2-3, 1970.
51. ASA, Fondo Gran Corte Criminale, Busta 78, “Cospirazione contro il Governo”, Antonelli Luigi; ibidem, “Associazione a Cospirazione contro il Governo”, Augelli Vincenzo.
52. F. Barra, I briganti del Partenio, in: Quaderni Irpini, n.2-3, 1970.
53. Ibidem. Ormai i componenti della banda era sbracati e Don Donatino dovette faticare non poco per tenerli a bada. Nè mancò egli stesso di montare di guardia annacquando il vino per evitare sconcezze e nascondendo i pasti fatti consegnare dagli Zaccaria insieme a “qualche cosa di denaro”, cioè 136 ducati, e a due barili di vino, pane, formaggio e munizioni. Al ritorno al covo alcuni non si accontentarono e gridavano: “I tre fratelli Zaccaria, che sono oggi tutti nel paese, sono tre nemici giurati di Francesco II, domani andremo noi, e non solo gli faremo cacciare le armi, ma quanto quindici, ventimila ducati che tengono nascosti, e noi sappiamo dove sono”. Ritornati al covo, gli irriducibili della banda non volevano rilasciare i sequestrati e Don Donatino dovette faticare non poco per farli liberare.
54. Ibidem.
55. ASA, Fondo Prefettura, Buste Brigantaggio, Rapporti quindicinali del Prefetto al Ministero dell’Interno. Lettere del 19-20-21 novembre 1863; Lettere del 18 febbraio 1863, del 20 agosto 1863, del 28 agosto 1863, 15 gennaio 1864. Ibidem, “Legge 15 agosto per la Repressione del brigantaggio”. Ibidem, “Ordinanza De Luca”. Ibidem, “Legge 7 febbraio 1864 per la Repressione del Brigantaggio”.
56. Ibidem. V. anche ASA, Fondo Prefettura, Busta 640, lettera al Prefetto, 2 maggio 1863. Cfr. A.Bascetta, Pietrastornina, origini, vicissitudini, speranze, Edizioni WM, 1987.
57. ASA, Fondo Prefettura, Buste Brigantaggio, Rapporti quindicinali del Prefetto al Ministero dell’Interno, cit. Il 7 settembre 1861, il Governatore di Avellino Nicola de Luca, scriveva alla segreteria generale del dicastero dell’Interno e Polizia di Napoli che un tale Raffaele Minucci di Sant’Angelo a Scala era stato sequestrato col figlio Giuseppe da parecchi briganti due giorni prima, poco lungi da quell’abitato. “Obbligato Giuseppe, sordomuto, a portare il riscatto pel padre legato e dato in custodia a due briganti, si scagliava impetuosamante su di essi, ne uccideva uno, metteva in fuga l’altro ed aiutato da Francesco Ciriello scioglieva il detto suo padre col quale riconducevansi incolume nel paese dopo essere stati inseguiti dal resto della banda”. La banda in questione è quella di Caporal Domenico Calabrese.
58. ASNA, Fondo Alta Polizia, Fascicolo 184. I Carabinieri di Cervinara li arresteranno nella notte del 21, soprendendo in una casa di quel tenimento “il famigerato capo comitiva Calabrese Domenico, il brigante De Marzio Giuseppe, e la druda del primo per nome Abate Antonia di Avella la quale era catturata, ed i due malviventi per aver fatta viva resistenza erano in conflitto uccisi”.
59. Abele de Blasio, Altre storie di briganti, Capone Editore / Edizioni del Grifo, Lecce 2005. Cosimo Giordano era nato il 15 ottobre del 1839 da Generoso di Cerreto Sannita e da Concetta Isaia di Messina. Non adatto a fare il contadino per la sua costituzione fisica, incapace di apprendere un mestiere, fu mandato agli studi dal babiere del paese. Tentativo ben presto fallito visto che, dopo due anni, ancora non aveva imparato a leggere e scrivere, nè a fare la sua firma. Alla fine di un paio d’ore di studio, puntualmente, dopo ogni lezione, già dimenticato quanto studiato. Deluso da tanta svogliatezza il padre lo mandò a fare il guardiano di porci e poi di armenti. Evidentemente neppure il mestiere di allevatore lo interessava. E lo licenziò anche il proprietario del gregge di pecore, dopo averlo scovato nell’insano gesto di intrattenere rapporti sessuali con gli animali. Perversione o esperienza adolescenziale che fosse, certo è che a sedici anni iniziò la sua ascesa criminanele. L’occasione gli venne per difendere l’onore di famiglia massacrando l’omicida del padre, ucciso il 28 giugno del 1855 mentre i due tornavano a casa. Quella sera infatti, tal Giuseppe Baldini, offese il Giordano al quale aveva prestato una manciata di carlini che non gli aveva ancora restituito, incolpando la cattiva stagione e liquidando il creditore dicendogli di dover attendere tempi migliori per l’anno successivo. Baldino non volle sentire ragioni. Prese l’accetta e gli aprì in due il cranio sotto gli occhi del ragazzo, il quale, preso dalla furia, conficcò il suo coltello nell’addome dell’assassino rivoltandogli l’intestino. Avuto il coraggio di costituirsi, la Corte Criminale di Napoli gli ridonò la libertà per legittima difesa, riuscendo ad evitare la vendetta dei parenti allontanandosi dal paese natale in cerca di un mestiere. Nel 1857 entrò come garzone al servizio di Don Liberantonio Ciaburri, occupandosi delle stalle, ma anche di acquisti che, di tanto in tanto, faceva per conto del padrone presso il Caffè di Salvatore Morone, dove veniva mandato a prendere liquori, finendo spesso beffeggiato per le mescolanze che faceva per il divertimento dei presenti che non mancavano di prenderlo a ceffoni.
60. A. de Blasio, op. cit.
61. A. Fuschetto, Fortore sconosciuto, Editrice Abbazia di Casamari, Frosinone 1977.
62. V. N. Nisco, op.cit.
63. ASAV, Gran Corte Criminale, B.80, f.369. Carmine Capone di Luigi di Monte Fuscolo e Crescenzo Molinaro del Comune di San Nazzaro.
64. Edoardo Spagnuolo, La Rivolta di Montefalcione, Edizioni Nazione Napoletana, Napoli 1997.
65. ASAV, Gran Corte Criminale, Busta 79, Processo Criminale n.27, f.364 e segg. I precedenti penali dei torrionesi prima del fatto. Chi erano davvero questi malandrini pronti alla rivolta lo scopriamo dai fogli manoscritti certificati dal cancelliere del futuro processo, al quale fu dato compito di sfogliate tutti i registri penali a caccia di precedenti imputazioni a carico degli imputati per vedere se avessero precedenti simili.
Alfonso Lepore. Su Alfonso Lepore il cancelliere scoprì che aveva commeso “un furto semplice di una canna di cosidetti tavoloncielli di legno castagno, ed altro compiustibile formante una pagliaia di campagna del valore di ducati 10, in danno di Berardino Donnarumma”. Aveva poi fatto un danno di due ducati e 36 grana per la rottura di tredici aspreni attaccati alle piante di viti latine sempre a danno di Donnarumma. Ad ottobre del 1852 fu dichiarato colpevole di danno volontario con sentenza a gennaio ma di poco conto per la rottura di 3 o 4 piccoli asproncelli, con la condanna di tre giorni di reclusione più le spese calcolate in poche grana. Più consistente il reato relativo alla ferita pericolosa di vita e di storpio per gli accidenti a colpo di pietra a danno di Gabriele Iommazzo di Torrioni il 30 gennaio 1857, alvandosi per l’abolizione dell’azione penale ad effetto dell’ildulo relativo alla sentenza reale del 2 marzo.
Domenico Troisi. Domenico Troisi fu Angelantonio di Torrioni non era uno stinco di santo per le offese lievi con arma impropria commesse in pena di Paolino Aufiero di San Paolo il 28 ottobre 1840. Ferite e percosse pericolose di vita furono invece l’accusa per aver usato strumento contundente a danno di Pellegrino e Giacomo Oliviero fu Giacomo di Torrioni la sera del 14 maggio 1846; con l’aggravante dell’ingiuria verbale a danno di Sabato Olivieri dieci anni dopo con la condanna di 12 carlini di ammenda, n alternativa a sei giorni di prigione, a cui si aggiungero le percosse lievi a danno di Benedetto Troisi nel 1855.
Marzio Donnarumma. A carico di Marzio Donnarumma fu Antonio c’erano le lievi accuse a danno di Rosaria di Pasqua con lanciamento di pietre da cui fece un mese si osilio correzionale, non mancando di produrre appello. Seguì furto qualificato per lo tempo e per lo mezzo in danno di Annamaria Meluccio di Prata nel 1859.
Pietro Donnarumma. Pietro Donnarumma se la prese invece con Biagio Ferraro con ingiurie verbali determinate a minacce fra misfatti e delitti a danno di Gabriele Ferraro ed Orsola d’Agostino sempre di Torrioni, beccandosi sette mesi di reclusione. A danno di Gabriele vi fu poi anche il lanciamento di pietre nel 1859, seguito dalla resistenza con violenza a danno dell’urbano don Giuseppe Leo, con ferite gravi e lievi avendogli prodotto storpio permanente, seguito allo sfregio permanente per Teresa Iommazzo nel 1859; nonché lo storpio permanente per donna Mariantonia Petrillo; come nel caso di Teresa Iommazzo di Torrioni.
Gioacchino Donnarumma. Giacchino Donnarumma di Antonio passò alle vie di fatto e minacce precedenti, fra misfatti e delitti a danno di Don Antonio Sarti, usciere del giudice regio di Montefusco in atto che agiva per esecuzione della pubblica autorità nel 1858; seguirono l’accusa di ferita di vita a danno di Raffaele Oliviero nel 1850 e quella di percosse lievi con arma impropria contro Serafino Pizzani di S.Paolina; pietre e ingiurie per Carlo de Vito; a carmine Olivieri invece impedì l’accesso e il proprio esercizio per l’usurpazione semplice di un terreno, beccadosi sei mesi perché recidivo. Uso privato di mezzi della pubblica autorità e minacce tra misfatti e delitti a danno di Raffaele Iannuzzi, Giovanni Cennerazzo, continuando con usurpazione di terreno di Ambrogio Lepore di Torrioni; le ferite a Giovanni Zoina del 1860, che gli regalarono sei mesi d’esilio correzionale; nonché la resistenza all’urbano Giuseppe di Leo con violenza con asportazione di arma vietata per cui fu giudicato a maggio del 1859.
Vitantonio Oliviero. Vitantonio Oliviero fu Matteo derubò di 27 grana Michele Orsino di Giuseppe di Montefusco in Torrioni nel maggio del 1844.
Savino Iomazzo. Savino Iommazzo di Nicola era stato accusato di percosse lievi con arma impropria a danno di Raffaele Oliviero beccandosi dieci giorni di mandate in casa; provocò in seguito storpio a Luigi Aufiero di Tufo nel 1855 per la complicità in ferite pericolose a lui inferte.
Isidoro Ferrara. Isidoro Ferrara di Camillo fu accusato di ferita lieve a colpi di pietra contro Pasquale Bruno di Torrioni nel 1846 e poi di Gabriele Ferrara e Orsola d’Agostino anche per l’utilizzo di arma impropria, se la cavò per l’abolizione penale del 1859. Ma all’asportazione di arma vietata, una baionetta, culminata con l’uccisione di una pecora in pregiudizio di Sebastiano Lepore, aggiunse la resistenza e l’imprudenza per la fuga il 27 gennaio 1861.
Vito Ibelli. Vito Ibelli fu Domenico era stato accusato di ferita pericolosa di vita a danno di Domenico Oliviero, beccandosi un mese di prigione.
Saverio Iommzzo. Saverio Iommazzo fu Emmanuele di Torrioni fu accusato di furto qualificato di una zappa ed altri diversi oggetti di Pellegrino Lepore, idem a danno di Giovanni Cennerazzo; percosse lievemente invece Raffaella Oliviero, essendosi trasformato il tutto in rissa, sebbene non si seppe mai l’autore. Furto anche ai danni di Pasquale Donnarumma nel 1853.
Berardino Donnarumma. Berardio Donnarumma di Antonio era il delinquente più conosciuto. Cominciò con le percosse a Giuseppa Oliviero nel 1853, proseguì contro Arcangelo Leo e Antonio Cirelli beccandosi sei mesi. Passò poi all’usurpazione di terreno a danno volontario di Pellegrino Lepore avendo rimosso i termini dell’appezzamento, quindi per “la rimozione di termini con turbativa di possesso e fu condannato ad un mese di prigione”. Altro terreno lo occupò a Carmine Olivieri; ad Andrea Centrella e Carmine Donnarumma rubò qualcosa, tornando all’attacco sul terreno di Antonio Oliviero nel 1856, quando seguirono le percosse ad Eufrasia Oliviero ed un furto a Nicola de Julio. Diventato esperto in crimine cominciò con le minacce al supplente giudiziario cancelliere di Torrioni, costringendolo a non fare un atto dipendente dal suo ufficio il 29 gennaio 1857.
66. ASAV, Fondo Gran Corte Criminale, Visto dal giudice, l’atto del cancelliere Vincenzo Alfano è datato Montefusco, 16 settembre 1861, foglio 89 del cancelliere.
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