LA CUCINA TIPICA DELL’APPENNINO NAPOLETANO. Elementi agroalimentari della tradizione campana

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DA LAURO A NOLA, DA AVELLA A PIETRASTORNINA

Avellino era il capoluogo dell’Irpinia da quasi cento anni quando, sul finire del secolo, pellegrini e viaggiatori, mercanti e avvocati del foro napoletano, si fermavano a pranzo all’Hotel Centrale di Galasso in piazza della Libertà.
Luogo di ritrovo erano anche il Giardino d’Inverno di Domenico Nevola in via Clausura, il Ristorante Della Sirena di Domenico Cristiano a piazza della Libertà. I vecchietti ancora ricordano la Trattoria di Generoso Tino e Generoso Cucciniello alla via Beneventana, e quelle di Stanislao Festa in via Luigi Amabile, Antonio Carulli in via della Sapienza, Giuseppe Coppola in piazza Della Libertà, Nicola Cerulli al Corso, la Trattoria del Genio in via Trinità e il Ristorante Del Barone di Generoso Rosapane in via Costantinopoli. Era a quei tempi, il villaggio Bellizzi, un comune a se.
L’unico ostiere del paese era Annibale Cerullo. Forse non tutti sanno che a Bellizzi il sapone si fabbricava a mano con il grasso e le ossa scartate dalle chianche, ad opera di Federico Iannaccone. La pubblicità del Soldatiello apparve per la prima volta nel 1923 su Il Corriere dell’Irpinia fondato da Guido Dorso, per propagandare questo localino tutto dedicato alle reclute della Fanteria “Avellino” che vantana però un’origine risalente al 1860. Siamo ormani al termine della Prima Guerra Mondiale quando gli alberghi del centro era quattro. Il più grande era il Moderno, sito al Corso Vittorio Emanuele 52, fornito di ben 56 camere, la sala ristorante e un termosifone.
Anche l’Albergo Cesare teneva il termosifone, mentre al Roma e al Patria, attestati nel 1928, bisognava arrangiarsi.
Avellino si apprestava a diventare una cittadella modello, con ben due teatri, il Giordano (lirica, operette, prosa) e il Nuovo (varietà e cinema), e il Cinema Roma di via Casale. Gli anni Trenta si aprivano all’insegna di locali modernissimi, dal Caffè Roma di Piazza Libertà, al Tea Room Fratelli Lanzara e all’American Bar al Corso. Negli anni Trenta, mentre ancora funzionava il Ristorante Sirena al Corso, fra piazza Libertà e piazza Garibaldi si contendevano la clientela il Savoia e il Coppola.
In atmosfera di tradizioni, nei pressi dell’antica Dogana è rinata qualche bottega della pasta fatta a mano (orecchiette e strangolapreti), come quella cucinata in via Chiesa Conservatorio, all’Antica Trattoria Martella fondata nel 1921 da Ricuccio Della Bruna.

Ancora oggi, nei vigneti delle cantine di Baldo Renna, è possibile osservare vitigni secolari che producono il classico Coda di Volpe, per alcuni superiore al Greco di Tufo e alla Falanghina, la cui produzione, a causa della peronospora che nel secolo scorso si abbattè sui vitigni del Partenio, è limitata. Rinato negli ultimi anni grazie alle Cantine Renna è oggi possibile disporre di un modesto numero di bottiglie di questo nobile vino che già a suo tempo era possibile assaggiare nelle bettole di Ferdinando Moschella, Carminantonio Cosentino, Tommaso Santoro e Antonio Minucci.
Le Cantine Renna non sono una Trattoria tipica, ma l’azienda non disdegna di cucinare per comitive di curiosi e turisti che si inerpicano alle pendici del Partenio, sulla montagna del Vallatrone, per sciogliere i loro voti presso il Santuario di San Silvestro Papa. Questo primo Pontifex, le cui spoglie sono custodite nella chiesa principale, sarebbe attestato fin dai tempi dei Normanni essendosi rifugiato presso l’antico monastero di San Michele Arcangelo, una delle prime fondazioni in assoluto di tutto il mondo cristiano. Turisti di fine settimana raggiungono questo paesello anche per visitare un altro importante monastero, quello di Santa Maria Incoronata del Monte Vergine, i cui ruderi, fra mistero e fascino, ancora oggi reggono alle ingiurie del tempo. Sant’Angelo a Scala è inoltre la patria di un grande rivoluzionario, Paolo IV, il primo papa che diede il via alla più importante riforma della chiesa romana al quale, si racconta, pare piacessero da morire gli strozzapreti (immaginiamo accompagnati dalla Coda di Volpe). La religiosità di questo paese è inoltre attestata dalla presenza nei sotterranei della chiesa del corpo di Santo Iacopo Apostolo. Nella piazza dedicata a questo santo, ogni anno si svolge una tradizionale sagra, quella delle “recchie di prete” e degli “strangulaprevet”, orecchiette e strozzapreti, che si fanno risalire ad antica usanza.
La pasta fatta in casa lavorata in questo paese utilizza, unitamente all’ingrediente primario del fior di farina, anche la semola di grano duro che dona alla sfoglia quella gradevole durezza che rende al fusillo la prelibata callosità richiesta dal palato. L’olio d’oliva prodotto dal frantoio della famiglia Zaccaria dal 1882 è un ulteriore elemento di qualità dei prodotti di questa terra.
7. Le fontanelle di Monteforte

E’ risaputo che il viaggio da Napoli a Montevergine sui traini era un fatto assai defatigante. Ma forse non tutti sanno che i viaggiatori, col caldo o con il freddo, si fermavano continuamente a bere. Alla fontana borbonica sulla salita di Monteforte, se si trattava di acqua; dai vinai, se si trattava di rossi o bianchi di qualità. Alla fine del secolo scorso erano in auge Teresa De Somma, Maria Maiella, Angela Villanova, Lucia De Stefano, Francesco Amodeo, Maria Carmina Borrelli, Tommaso Santorelli, Antonio Grieco, Carmine De Risi, Crescenzo Amodeo, Generoso De Sapio, Salvatore Pascale, Francesco Santorelli, Andrea Del Mastro, Antonio Ortaglio, Fortunato Buonasorte, Amodeo Vito, Giuseppe De Stefano e Maria De Stefano. A Monteforte non c’era infatti la tradizione del trattore, che, stando così le cose, spettava a Mercogliano, anche se non manca, a dire il vero, almeno un albergo, quello di Maria De Stefano; l’Albergo De Stefani era ancora operante durante il periodo fascista.
Oggi, dire Monteforte, soprattutto per i tanti napoletani che amano la cucina irpina, è dire ‘ristorante’, meta obbligatoria dei pellegrini diretti a Montevergine che percorrono la vecchia via Nazionale borbonica in quanto è il primo paese irpino che si incontra dopo la salita percorsa per giungere ai piedi del monte.

E’ ancor viva nella memoria dei nonni di Baiano l’antica diligenza che percorreva la linea Nola-Baiano. Uomini, animali, ma soprattutto vini rossi e nocciole, erano il “carico” di tutti i giorni lungo la rotabile Nazionale delle Puglie. Ma ad attendere soprattutto i pellegrini che si muovevano in direzione del Santuario di Santa Filomena di Mugnano, apparato a festa quasi sempre da Giuseppe Zito, era l’Albergo della Stella di Michele Candela. Le più buone minestre si potevano però trovare solo nelle trattorie di Gennaro Barbarisi e Gabriele Napolitano. Vinai, bettolieri e ostieri ve n’erano a iosa, da quelle di Andrea, Rosa, Vincenzo e Luigi Acierno, Domenico Colucci, Domenico e Maria Napolitano, a quelle di Andrea Fiordellisi, Angelo Mascheri, Carmela Peluso, Agnese e Nicola Masi, Vincenzo Stingone, Filomena Bocciero, Anna Tavolario, Nicoletta Vecchione. Alla via Nazionale era invece possibile acquistare frutta secca presso il signor Salerno. Piatti tipici locali sono degustabili presso il ristorante La Casina.

Sita lungo la Via Nazionale delle Puglie, Sperone, era conosciuta soprattutto per la produzione e la commercializzazione delle verdure. Luogo di passaggio da Napoli ad Avellino, a Sperone fiorirono le prime bettole. Famose erano quelle di Filomena Lippiello, Angelo Monteforte, Arcangelo Tedesco, Francesco Muccio, Ludovico Crocetta, Antonio Sorice. Non essendovi trattorie presenti, le uniche tradizioni rimaste in piedi sono quella del commercio dei vini, operato dalla import-export De Gennaro, e quella della pasticceria e gelateria artigianale De Laurentiis.

Meta dei pellegrini verginiani, Mercogliano, non poteva che annoverare le trattorie più ambite preferite dai fedeli di ritorno da Mamma Schiavona. Site sulla via Nazionale delle Puglia di Torelli, bettole e osterie si dislocavano lungo tutta la via Partenio-Guardiola che menava verso il Santuario, a cominciare dalla Taverna alla Torretta di Mezzo, lungo la Via Nazionale Torretta, di proprietà dei marchesi Salvi di Sant’Angelo a Scala, come ricorda l’ottimo Armando Montefusco. Fra le trattorie più famose si rammentano quelle di Michele Masiello, Sabato Di Nardo, Generoso Criscitiello, Fiorentino Santangelo, Michelangelo Grieco, Alessandro Di Risi, Sabato Sessa… i bettolieri non finiscono mai. Conosciutissime le specialità di Salvatore Ruggiero, Gennaro Gennarelli, Giuseppe Tomeo, Bartolomeo Calabrese, Francesco Cavaliero, Luisa Renna, Salvatore Di Gennaro, Genovieffa e Angelo Del Latte, Luigi Di Falco, Giovanni Napolitano. E che dire delle prelibatezze che portavano a tavola Giuseppe Pescatore, Michele D’Arila, Maria Michela Manfra, Filomena Gennarelli e Pellegrino Criscitiello. Non c’è dubbio. Va a Mercogliano la coppa ideale della cittadella col più alto numero di trattorie nate con i pionieri del turismo religioso. All’epoca si fanno risalire anche la Cantina dei Della Pia e quella di Vincenzo Argenziano. Grazie alla rotabile, nel 1927, al bivio della Taverna del Pezzente, anzichè voltare per I Torelli, prendeva dritto per Mercogliano, dov’erano l’Albergo Gennarelli e per Montevergine, presso l’Albergo del Pellegrino, dove i carri provenienti da Sarno sostavano anche per 8 giorni. Era l’anno in cui veniva ultimata la costruzione della funicolare per Montevergine, lunga 1555 metri e con una pendenza massima del 60%. Inizialmente il viaggio della funicolare, costata 5 milioni di lire, ebbe una durata di 17-20 minuti, contrariamente ad oggi che ne impiega solo 7. Nel 1930 nasceva la Trattoria di Gennaro Leo, non lontana da quella di Zì Annarella e di Giuseppe Valente, la cui tradizione è stata continuata dal figlio Titino Leo, titolare di quella antica trattoria trasformata in due grandi ristoranti-albergo, dove i sapori sono rimasti intatti e dove, è possibile degustare i piatti di stagione, a cominciare dalle tagliatelle ai porcini.
Oggi, tradizione e innovazione, sono rispolverate anche dalla Taverna Megadoro, alla via Nazionale Torrette, sul colfine con Alvanella e Monteforte, dove è possibile godere anche del piacere di mangiare in terrazza. In alternativa, nelle adiacenze c’è la possibilità di abbinare, al gusto dei piatti tipici, l’eccellenza di vini di grandi marchi….

INDICE

IL TESTIMONE ALL’AGRITURISMO

LA TRADIZIONE NELL’ALIMENTAZIONE

1. L’esigenza del ristoro

2. Al mercato per gli acquisti

3. La scelta degli alimenti

4. Il piatto caldo fuori casa

5. La pasta fatta a mano di Avellino

6. Il vino Coda di volpe di S.Angelo a Scala

7. Le fontanelle di Monteforte

8. Le osterie di Baiano

9. Le verdure di Sperone

10. Le Taverne sulla via di Mercogliano

11. I capretti di Summonte

12. I primi insaccati di Taurano

13. Gli ortaggi di Cervinara

14. Il torrone dei “copetari”

15. La frutta di Rotondi

16. La Taverna di Mugnano

Laganelle e fagioli
(fettuccine senza uova)

Gnocchi alla povera in salsa di salsicce piccanti
(senza patate)

Spaghetti in salsa di ‘papaccelle’ imbottite

Patate e fagioli

Patate e baccalà

Patate con la sugna

17. Le cipolle di Avella

18. I muglitielli di Pietrastornina

19. Le nocciole di Quindici

20. I cereali di Pago Vallo di Lauro

21. I caseifici di Sirignano

22. I salumifici di Quadrelle

23. I cinghiali fra i castagni della Valle Caudina

24. I macellai di Roccabascerana

25. La tradizione romana di Lauro

26. Gli affettati di Moschiano

27. Le ricette antiche

Cicorie e fagioli
il dolce-amaro delle erbette

Antipasto pasquale
costolette e pecorino

Zuppa di fagioli
nel pignatiello di creta
Castagne e fagioli
sbucciate con cotenne

Pizza con i cavoli
la minestra maritata

Fusilli e coniglio
carne e maccheroni

Cardilli e cicorie
con la variante dei cavatelli

Laganelle e fagioli
fettuccine senza uova

Pollastro e patate
pollo o coniglio al forno

Gnocchi poverelli
in salsa di salsiccia piccante

Carne e maccheroni
col sugo di capretto

Spaghetti con salsa
di ‘papaccelle’ imbottite

Cuccio imbottonato
il segreto dell’imbottitura

Patate e fagioli
lessati con pacchetelle

Tracchie e papaccelle
maiale e peperoni

Patate e baccala’
panzette in ammollo

Panzettella ripiena
fianchetto d’agnellino
Patate con la sugna
pomodoro e pecorino

Muglietielli d’agnello
l’intestino con le frattaglie

Zuppa di baccala’
insalata di rinforzo
E tante altre…

Description

LA TRADIZIONE A TAVOLA CON QUALCHE NOVITA’


Il cibo, in senso lato, può essere definito la “chiave di lettura” della cultura e della socialità di un determinato territorio, difatti esso rappresenta un rito di scambio, di chiacchiera che è alla base della convivialità e dell’instaurazione di relazioni interpersonali; in altre parole, il cibo è il mezzo attraverso cui è possibile creare unione e condivisione all’interno di gruppi di persone dando loro una maggiore possibilità di integrazione nel mondo esterno. In aggiunta, la dimensione relazionale comprende anche e soprattutto la simbiosi con il territorio e quindi il cibo entra a far parte della cultura del posto.
La coscienza della propria individualità e personalità passa attraverso il cibo, in virtù del fatto che esso rappresenta un mezzo per definire le radici e le tradizioni legate al luogo in cui si vive; negli ultimi anni si sta assistendo sempre di più alla “rinascita” delle ricette tradizionali per ritrovare una connessione affettiva ma soprattutto, nell’era della globalizzazione, dare un giusto risalto alle culture locali utilizzando il potente patrimonio gastronomico che contraddistingue l’ambiente che ci circonda.
Di fondamentale importanza è ciò che si vuole comunicare a chi ha di fronte un piatto tipico della tradizione, più nel particolare quest’ultimo deve avere un’anima per coinvolgere l’emotività, gli affetti e i sentimenti del consumatore con lo scopo di legarlo per un periodo più o meno breve al territorio in cui si trova. Conoscere il nostro passato è importante e negli ultimi anni si sta diffondendo sempre più l’idea di rievocare culture e tradizioni passate; le ricette che ci sono state trasmesse oralmente dalle nonne hanno permesso di tramandare nel tempo, attraverso le generazioni, un patrimonio culinario non indifferente e di conservare in questo modo la tradizione.
La modernizzazione delle vecchie strutture è alla base del recupero della tradizione, facendo però attenzione a lasciare invariati i sapori decisi della cucina di una volta. La rivisitazione dei piatti tipici potrebbe essere un giusto compromesso tra equilibrio nutrizionale e appagamento del gusto e della vista in virtù del fatto che si utilizzano ingredienti tipici del territorio, genuini e ricchi di gusto.
Il presente lavoro ha come oggetto il cibo in quanto identità culturale e sociale, considerato in relazione agli usi e costumi di un tempo. L’analisi storica aiuta a comprendere la relazione esistente tra uomo e cibo e ad affermare l’identità dell’individuo. In secondo luogo la strutturazione di ricette dell’antica tradizione ha lo scopo di riportare i lettori indietro nel tempo e di portare a comprendere le prospettive future di reintegro della tradizione nell’attuale alimentazione.

Dott. Gennaro Scognamiglio
Pres. Unci Agroalimentare

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Editorial Review

VIAGGIO SUI MONTI NOLANI E AVELLANI

Il territorio oggetto di questo studio insiste nell’area che va dai paesi del Partenio a quelli del Nolano.
Oltre al turismo religioso legato a Montevergine di Mercogliano, sul territorio affluiscono un gran numero di gitanti domenicali provenienti dal Napoletano e dal Casertano alla ricerca di svago e natura, di itinerari e di notizie storiche legate all’aspetto culinario, proprio del turismo di fine settimana.
Il rilancio della tradizione culinaria è l’argomento trainante della guida itinerante per accattivare l’attenzione del turista, l’escursionista o il semplice visitatore attraendolo e legandolo al territorio per un periodo più o meno breve che possa trattenerlo o farlo ritornare nei luoghi che visita.
L’arte della buona cucina dei paesi storici legati a Nola è antica, ma prende corpo solo allorquando i Francesi, nel 1806, tolsero la provincia del Regno di Napoli chiamata Principato Ulteriore a Montefusco, facendo divenire capoluogo la cittadella di Avellino, sottraendo all’altra provincia di Terra di Lavoro numerosi paesi appartenuti al mandamento, come Lauro, Marzano, Baiano, Mugnano, Avella.
In quegli anni Avellino si attestava intorno ai 20.000 abitanti che permisero un primo concreto sviluppo rurale delle zone interne e di una economia legata ai prodotti tipici dell’entroterra e poi dando il via ad un import-export di casa nostra dove, però, fra un paese e l’altro delle ex province interne del Regno di Napoli, spuntavano solo castagneti e nocelleti, dalle selve alle piccole pianure coltivate ad “avellane”.
Chiaramente come accadeva per i salumi, anche le nocciole e le castagne essiccate sulle graticole appese nelle cucine delle case di campagna, erano per la maggior parte vendute alle industrie confettiere di Napoli. I coloni potevano dirsi soddisfatti: vivevano ormai la stessa condizione della classe operaia delle città, come ben riferiva Raffaele Valagara nei suoi studi.
L’occupazione militare francese del 1806 aveva portato un profondo sconvolgimento soprattutto politico, togliendo Benevento alla Chiesa dopo quasi dieci secoli e distruggendo il monastero di Santa Maria Incoronata del Parenio, molto più famoso di Montevergine, in quanto creato da papa Paolo IV Carafa. Il grande boom insomma avrebbe portato ad una qualità della vita anche in cucina, al piacere di cominciare a decidere cosa poter mangiare, oltre la solita “mmarenna”. Con lo sviluppo delle città nasceva quel via vai che avrebbe permesso anche ai piccoli comuni irpini di far rivivere la tradizione culinaria legata ad un maggiore benessere economico.
Per dirla con Valagara, il modello francese si era rivelato troppo grande per le piccole città dove tutti si erano dati agli studi per diventare agrimensori e avvocati, anziché operai specializzati, acculturati artigiani e contadini meccanizzati, favorendo solo la cultura intellettuale scoppiata con i moti rivoluzionari.
Avellino, per esempio, anzichè piccoli imprenditori, si avviava a creare patrioti-scienziati come Paolo Anania De Luca di Montefusco, patrioti-medici come il dottore Gaetano Perugini di Pietrastornina, Serafino Soldi e Carlo Del Balzo di San Martino e Imbriani di Roccabascerana. E che dire dell’industria della neve sviluppatasi fra Pietrastornina, Baiano, Mugnano e Rocca Rainola? La neve partiva direttamente per Portici, dove veniva depositata e trasformata in ghiaccio, attraverso i traini o le carrette tirate da buoi e cavalli lungo l’antica via delle Puglie che scendeva da Mugnano e si innestava a Cimitile con l’appia di Nola. Come fiorente era l’attività di caprai e pecorai che forniva latte, formaggio e lana. Sulle montagne fioriva anche l’attività dei carbonai che trasformavano la legna in carbone con i classici ed esclusivi “catuozzi”, caratteristica di queste zone, insieme alle altre attività montane di segantini, mannesi e legnaiole (le donne che trasportavano i “viaggi” di legna sulla testa) con i loro “truocchi” che mettevano sul capo per proteggersi dal peso.

 

Intorno alla seconda metà del 1800 le popolazioni erano tassate fino all'eccesso con i balzelli sui cani, sul caffè, sulla cera, sui mobili, sulla famiglia, sul bestiame, sulle insegne, la qual crisi si riversò anche sulla cucina. In definitiva solo nelle case nobili i cuochi preparavano prelibatezze. Erano i tempi dei famosi paccheri con la ricotta che, tanto erano piaciuti ai re Borbone e delle “ciccolatiere” per il caffè che già circolavano nelle case palazziate dei vecchi feudi di provincia del 1700.
Per le strade però si cominciavano a vedere anche i carri carichi di farina, macinata col grano delle Puglie nei molini avellinesi lungo il fiume Sabato, in viaggio da un paese all’altro per i vari mercati settimanali, prendendo la via di Napoli.
Nei mercatini che si tenevano nelle piazze principali dei paesi si trovava ormai quasi tutto: vino e aceto in fusti, uva, alcool ed acquavite, bestie vaccine, carne macellata fresca, maiali, buoi, manzi, vacche, tori, vitelli, agnelli, pecore, capre da taglio, capretti lattanti, carne salata, affumicata ed in conserva, lardo, strutto bianco, riso, burro, olio, zucchero e confetture, mozzarelle e latticini freschi, cacio secco e affumicato, pesce fresco di acqua dolce e di mare.
Tantissimo il pesce secco, salato, affumicato, marinato in salsa o in salamoia: alici salate, tarantello (un pesce d’eccezione sulle tavole contadine da cui il detto quando si cucina una cosa insolita: Te sì magnato i tarantelli?), uova di tonno, comacchio, aringhe, anguille, salmone e pesce spada, ostriche ed altri frutti di mare, baccalà, stocco, salacche e salacchini, tonnina, ossami di tonno.
Potremmo quindi tranquillamente affermare che lo sviluppo della cucina è stato “velocizzato” dalla possibilità di variare il piatto quotidiano lasciando intatte le prelibatezze legate prettamente alle scadenze religiose.
Nei mercati le donne coglievano occasione di incontrarsi e di scambiare quattro chiacchiere con le massaie delle campagna e dei Casali che andavano al mercato a vendere i loro prodotti. Non si trattava solo di ortaggi, ma di tessuti di lana e cotone ricamati, più economici di quelli venduti nei negozi. Sembrano sfilare ancora oggi quei volti che venivano dalle masserie con i canestri di frutta sulla testa per non poggiarli a terra (altrimenti si rischiava di pagare anche la tassa per l’occupazione di suolo pubblico).
I mercati delle città, nati per la compravendita degli animali da macello e dei cavalli da tiro e da soma, quando le prime strade rotabili che collegavano i principali comuni fra di loro erano state appena completate, si erano però impoveriti per l’eccessivo fiscalismo e per i modi burberi di riscossione delle tasse municipali, al punto che anche molti ricchi preferivano i mercatini dei paesi, specie a Baiano, alcuni dei quali erano specializzati nella vendita di bestiame, anzi di una particolare razza bovina: i vitelli irpini.

 

La possibilità di acquistare una farina migliore o un tipo di semola particolare, casomai prodotto nel paese accanto e non nel proprio, era alla base della rinnovata tradizione che si sposta lungo le vie di comunicazione con Napoli e con Salerno, grazie al al fiorire dei mulini lungo i corsi d’acqua, dando a tutti la possibilità di far diventare farina il proprio grano, oltre che di barattarlo in cambio di altri prodotti per cucinare sempre più spesso quei piatti che in precedenza si gustavano più raramente.
Nella maggior parte dei casi la farina proveniva dal circondario avellinese, più propriamente, erano Sabino Barbato, Modestino Barbato, Pasquale Di Nardo, Saverio Falcone, Giuseppe Galasso, Francesco Guarino e Sabato Urciuoli a far macinare e commerciare farina di grani teneri burrattata, pane e biscotti di prima e media qualità, pasta di farina, farina di grani teneri con crusca, pasta di semola, semola burrattata e farina di grano duro e secoma con crusca.
La farina partiva poi per Napoli, Salerno, Benevento, per i paesi della provincia dove veniva utilizzata dalle prime botteghe della pasta, sparse qua e là per la strada principale di Monteforte, Mugnano e Avella con trattorie e bettole che cominciavano ad aprire i battenti anche nei paesi.
Era facile riconoscerle in quanto vi si vedevano donne lavorare la pasta a mano con i ferretti fra le mani e le tavole tonde sulle ginocchia a fare Ricciolilli, Ricci alla foretana, Cannellini, Cannolicchioni, Coccetelle, Recchie di prete, Gnocchi, Laganelle e Lasagne: le specialità delle piccole poteche di città.
Verso la fine del 1880, più che di botteghe vere e proprie, assistiamo alla nascita diretta di trattorie, osterie e bettole.
Una volta pronta, la pasta veniva asciugata davanti ai portoni, ma anche sui davanzali delle case cosicché, come oggi si spandono i panni - per dirla alla Valagara - ieri si spandevano le tagliatelle sulle canne appese alle finestre.
La buonissima pasta fatta in casa che restava era smerciata a Napoli e a Salerno nei giorni di festa.
Su queste basi abbiamo la nascita di vere e proprie trattorie e la loro espansione lungo le vie principali ai paesi ai piedi della montagna del Partenio dove svettava il santuario di Santa Filomena a Mugnano, il monastero verginiano di Mamma Schiavona a Montevergine, quello camaldolese dell’Incoronata e quello di San Silvestro a Sant’Angelo a Scala.
Accanto alle trattorie spuntavano in contemporanea le botteghe per la lavorazione di legno e ferro per costruire carri e carrozze, le officine dei carpentieri, dei fabbri ferrai, degli ottonai per la fabbricazione degli assi, dei cerchi a ruote e dei finimenti per la bardatura delle carrozze.
Questi bottegai vivevano proprio del transito del commercio con operai che lavoravano dalla mattina alla sera. Non si può certo dire che mancasse il lavoro perché erano proprio loro a costruire la maggior parte della carrozze che dalla Nazionale delle Puglie menavano a Napoli, sia per il commercio privato, sia per il servizio postale.

 

Nei paesi non c’era vita di notte, quando i soli lumi erano quelli che ardevano davanti alle edicole sacre collocate qua e là fra le mura delle case e delle chiese che conducevano ai bagliori più forti provenienti dalle caffetterie dove si potevano trovare pietre focaie, acciarini, cordicelle impregnate e fiammiferi di zolfo.
In questi piccoli caffè ci si ritrovava intorno ad un bicchiere di acquavite, per una partita a carte o anche per discutere il prezzo del grano oltre che per un caffè dalle miscele forti.
A viaggiare la sera tardi erano però soprattutto i postiglioni, che facevano servizio da Napoli a Benevento, noti per la loro abilità nella guida dei cavalli, alla ricerca di un piatto caldo in quelle osterie.
Ma le trattorie presero a fiorire grazie al via-vai di pellegrini che da Napoli e da Caserta chiedevano di rifocillarsi durante le soste prima di raggiungere, in giorni ben determinati dell’anno, le mete religiose.
A Mercogliano, baricentro lungo la strada dei santuari, erano decine e decine le bettole di fine secolo dove trovavano ristoro i fedeli di Mamma Schiavona.
Sembra di vederli tutti intenti a “spicciare” i pellegrini assetata per il caldo o stremati dal freddo dei monti, sia quelli che risalivano il Partenio da Mugnano che dalla via di Arienzo per arrampicarsi a S.Angelo o diretti in Valle Caudina sulle montagne di Rotondi al santuario della Madonna della Stella.
La nascita di trattorie vere e proprie, infatti, fu una prerogativa di tutti i versanti del monte Partenio: Summonte con quelle di Mariantonia Palomba e Catino Prisco, di Cervinara con Giovanni Mignuolo e Clemente Taddeo, di Roccabascerana con Cosmo Barbati, di San Martino con Generoso Vitagliano, Carmine Pisano e Michele Savoia, con le osterie di Gennaro Lipoli, Fedele De Marino e Nicola Giuditta, con la relativa espansione dei bettolieri di Cervinara, di Sant’Angelo a Scala (Antonio Minucci, Tommaso Santoro, Carminantonio Cosentino, Ferdinando Moschella) e di Pietrastornina (Silvestro e Gaetano Sasso, Francesco Margiotta, Carminantonio Bascetta, Aniello Zullo, Bartolomeo D’Alessandro) legata per lo più alla vastità dei territori con 36 casali.
Al “culto” per i pasti tradizionali ha quindi contribuito e non poco l’espansione delle “poteche” grazie al fiorire del commercio fra le città, mentre la nascita delle trattorie, dovuta per la maggiore alla trasformazione delle osterie, la si deve ai viandanti dei paesi.
Le bettole, invece, restarono più che altro solo un punto di vendita più che di ritrovo per un buon bicchiere di vino dopo il duro lavoro nei campi che terminava al vespro, con i rintocchi dell’Avemaria, quando si chudevano le porte delle Terre e il buio pesto calava nei borghi.
Le ricette trascritte qui di seguito hanno permesso di conservare la tradizione che oggi si intende rilanciare in maniera forte riproponendo fedelmente ingredienti e preparazione, grazie all’ausilio della tradizione orale giunta a noi dalla viva voce delle nonnine dei paesi irpini, figlie di quelle contadine e delle massaie delle trattorie tradizionali del 1800, i cui nipoti, pronipoti o semplicemente parenti hanno deciso di riaprire quelle bettole, modernizzando le strutture, ma lasciando invariati i sapori decisi della cucina di una volta.............