Description
Una valutazione di ordine sanitario sui danni alle persone derivanti dall’esposizione all’amianto
…Il testo è parte del processo Isochimica, in corso di svolgimento presso il Tribunale di Avellino. Le ragioni che hanno indotto alla sua pubblicazione sono ispirate dalla ferma volontà di evidenziare il dramma vissuto dalla popolazione di Avellino collegata a quella Azienda industriale, o perché lavoratori e loro famigliari o perché cittadini residenti nella prossimità del sito. Di queste ragioni, la maggiore è quella di esporre le nefaste sequele subite dalle persone e dall’ambiente, a causa della inosservanza delle leggi concepite a loro salvaguardia e tutela. La realtà di quell’epoca, degli anni ottanta e novanta, ha offerto un pessimo esempio di sé. Dopo circa quaranta anni, è venuto alla luce, purtroppo, un quadro di ignominie che uno stato di diritto mai avrebbe dovuto consentire e che ha visto, invece, partecipi, per indolenza e per indifferenza colpevole, Enti e Istituzioni preposti alle azioni di prevenzione e di controllo, associazioni sindacali e partiti politici. Nel loro rapporto con l’Isochimica, questi soggetti, chi con più e chi con meno responsabilità, sostituirono alla vigilanza delle regole democratiche cecità, sordità, tolleranza incosciente di guasti e nefandezze; l’incuria e il lassismo, invero, arrecarono offesa alla dignità delle persone e tradimento allo Statuto dei Lavoratori. La civiltà, nel suo dato culturale e nelle azioni concrete, fu del tutto ignorata, elusa.
Nell’anno 2005, “l’Affaire” Isochimica fu segnalato dal Tribunale dei diritti del Malato, sezione di Avellino, alla Corte di Giustizia della Comunità Europea, che inserì, con sentenza emessa nel 2007, quell’area della Città ai primi posti dei 225 siti gravemente inquinati della Campania, condannando lo Stato italiano e ad esso imponendo la bonifica degli stessi. Oggi, quel dramma, volutamente dimenticato per troppo tempo, è stato prepotentemente “riesumato” grazie all’azione decisa e determinata della Magistratura avellinese, per merito particolare del Procuratore della Repubblica, dott. Rosario Cantelmo, e dei sostituti suoi collaboratori, dott. Patscot e dott. Taddei. Per l’azione di questi tre insigni e valorosi magistrati, questa triste e tragica vicenda è potuta finalmente emergere, liberarsi da quella indecente coltre di polvere e di colpevoli veli, sotto cui da decenni era rimasta minata. E’ doveroso anche sottolineare che non è scopo di questo lavoro fare opera di intromissione nella vicenda giudiziaria in corso, che, naturalmente, ha sede competente e ha procedura propria. Il nostro proposito è, piuttosto, quello di dare giusto riconoscimento a magistrati ai quali va la personale gratitudine e di tutta la città di Avellino per essere riusciti, di fatto, a svolgere opera meritoria nel concedere attenzione a ciò che è apparso essere fin dall’inizio un difficile tentativo di ripristino di regole di giustizia e di democrazia. Sempre più spesso nel nostro Paese il sistema politico mostra zoppie evidenti, ma, per fortuna, l’azione della magistratura pone riparo al vulnus provocato dallo scadimento dei costumi e dalla scarsa credibilità delle classi dirigenti, molto spesso poco attente alla osservanza delle normative di leggi.
La storia della fabbrica “Isochimica” di Avellino ebbe inizio nell’anno 1982 e fu dismessa alla fine dell’anno 1988, definitivamente. Dichiarata industria insalubre dal servizio di Ecologia della ex USL 4 di Avellino, con provvedimento del Comune di Avellino, a firma del Sindaco dell’epoca Enzo Venezia, fu imposta per legge la sospensione di ogni sua attività. Malgrado ciò, però, l’ordinanza del Comune andò disattesa, trascinandosi tra ricorsi e cavilli che consentirono la perpetuazione di una attività lavorativa ancorché precaria e insicura. Una successiva nuova ordinanza, giudiziaria, questa sì definitiva, emessa dal dott. Beniamino Deidda, Pretore in Firenze, nel dicembre di quello stesso anno, pose finalmente fine alle lavorazioni dei capannoni A e B con conseguente cessazione di ogni attività industriale. Così, per intervento della Magistratura territorialmente non competente, si riuscirono a sconfiggere resistenze forti e ascose di una brutta pagina imprenditoriale consumatasi nel capoluogo irpino per oltre sei anni. Dichiarata, allora, fallita la fabbrica nel 1990 dal Tribunale di Avellino, presero corpo dubbie istanze di recupero di una area già segnata da inquinamento ambientale che, piuttosto che rassicurare, sparsero preoccupazioni e perplessità circa la bontà della finalità dell’opera di bonifica cui ci si intendeva apprestare. Quelle operazioni, sospette di fini speculativi, furono bloccate con determinazione dai vertici della Provincia e del Comune di Avellino, nelle persone di Luigi Anzalone e Antonio Di Nunno, rispettivamente Presidente e Sindaco, al cui fianco si ritrovarono nell’impegno la CGIL con Raffaele Lieto, il sociologo Ugo Santinelli, il “verde” Antonio Petruzziello, Paolo Mascilli Migliorini di Legambiente e il consigliere del Pds Carmine Loffredo. Merito loro se future altre brutture per la città e per Borgo Ferrovia furono impedite; quell’area, oggi grigio scheletro dell’industria che fu, resta a memoria della incuria dei tempi e della indolenza delle coscienze, chiusa alla città, e, da qualche anno, anche sotto sequestro legale, in attesa di una bonifica sospirata, attesa, promessa e non ancora realizzata.
La storia manufatturiera della fabbrica Isochimica finisce qua, ma da essa ne originano altre, diverse ma altrettanto complesse, intricate, che si incastrano in vicende giudiziarie in corso.
Ma forse è bene ricordare come nasce il mostro –Isochimica- .Tutto comincia agli inizi degli anni ’80, con le commesse che le Ferrovie dello Stato affidarono all’ing. Graziano, imprenditore e proprietario dello stabilimento industriale sito a Borgo Ferrovia di Avellino. La ragione dell’incarico era quella di scoibendare le carrozze ferroviarie dalla crocidolite, varietà dell’anfolibo amianto, dalla conformazione rigida e retta, con le dimensioni che consentono alle sue fibre la penetrazione negli acini alveolari del polmone. Fino all’anno 1988, ovvero fino alla chiusura dello stabilimento, furono sottoposte a scoibentazione 2239 carrozze ferroviarie, per un totale di amianto rimosso pari a circa 2276 tonnellate. Furono assunti, allo scopo, oltre 330 operai, giovani per la maggior parte alla loro prima esperienza lavorativa, bisognosi di lavoro, perciò entusiasti di entrare finalmente nel mondo degli “occupati” a salario fisso. Era il loro nobile sogno di poter finalmente godere della piena soddisfazione “dell’avercela fatta” ad agguantare quelle speranze di vita che spingono le oneste genti alla dignità di sé e all’affrancamento dalle ristrettezze antiche. Purtroppo, fin dall’inizio, a quei ragazzi, a quegli uomini, a quelle donne, a quelle madri, non fu dato conoscere i tanti rischi legati alla manipolazione dell’amianto, così come furono ignari per lungo tempo dei pericoli e delle cautele cui avrebbero dovuto sottostare per tutelare e salvaguardare la loro incolumità fisica. Tante, infatti, furono le prescrizioni di leggi disattese e inapplicate dalla proprietà, quanto scarse si rivelarono le misure di profilassi applicate per cautelare l’integrità fisica di quei lavoratori. A scapito della salute fisica di quei ragazzi, finirono per sommarsi anche le richieste di lavoro straordinario nell’interesse della maggiore produttività aziendale, perché, ad esse, la risposta fu la moltiplicazione degli sforzi di gran parte di una maestranza abbagliata dall’obiettivo di un guadagno aggiuntivo non preventivato. Nessuno mai disse agli operai che il lavoro che facevano senza alcuna tutela della loro salute avrebbe provocato di lì a qualche decennio malattie gravemente invalidanti e morte. Perplessità e dubbi in loro suscitati dalla presenza massiccia e ben visibile di polveri nei capannoni industriali erano fugati dai responsabili dell’Industria con stupefacenti dichiarazioni suadentemente bonarie, false, ancorché del tutto fuori luogo, tendenti a sminuire, quasi a ridicolizzare paure del tutto legittime, con frasi di circostanza tipo “ la coca cola è più pericolosa delle polveri” o anche “una fumata di sigarette è più dannosa”. Sono di questo tenore le stupefacenti e allucinanti testimonianze rese oggi da tanti ex operai, riportate dai media, in merito a quel che dicevano loro i dirigenti della Isochimica. Esse danno l’idea vera di quanto criminale sia stata la superficialità delle risposte a domande legittime frutto di preoccupazioni che mano a mano si mostravano crescenti. E ben a ragione. A 34 anni di distanza dalla apertura di quella fabbrica, (1982), bisogna contare, purtroppo, 22 decessi, causati da malattie asbesto-dipendenti, oltre ad un numero importante di infermi che rinviano a patologie causate da quel minerale. Intanto, nella indifferenza generale, fin dai primi anni ’90, si erano moltiplicate le denunce degli ex-operai, vittime dell’amianto, grazie alla spinta del loro non arrendevole spirito, hanno posto la coscienza della città di Avellino di fronte agli abusi, allo sfruttamento, alle prevaricazioni, alle indolenze, alle incurie, di cui erano stati resi oggetto. Tutto questo in nome e per conto di una cinica volontà di arricchimento e di una avidità che non conosceva limiti morali e umani. Enti di sanità pubblica e di tutela del lavoro furono quantomeno disattenti nell’imporre il rispetto delle regole sulla prevenzione e sui controlli e, con questi, Municipalità, partiti politici, in particolare DC e PSI, sindacati, che, fatta salva una parte di cui si è detto, non si distinsero certo nell’opera di dovuta denuncia delle speculazioni allo stato brado che avvenivano in Borgo Ferrovia, sempre più quartiere cittadino nel cui orizzonte le sembianze si stagliavano somiglianti a quelle tristi del “Rione Tamburi” di Taranto. Avellino “voltava la testa altrove”, “ in altre faccende affaccendata”, impegnata entusiasticamente negli erigendi scempi che il post terremoto lascia in eredità ai posteri. Pur tuttavia, i lavoratori della ex Isochimica non si arrendevano. Restavano soli ma combattivi, non domati nemmeno dalla salute minata, come novelli don Chisciotte contro i mulini al vento, nella solitudine o nella indifferenza, rumorosi ma inascoltati, fastidiosi nella loro insistenza, indisponenti alle orecchie di chi non ne aveva per sentire. Tutto questo, finché, finalmente, un nuovo Procuratore della Repubblica di Avellino, dott. Cantelmo, ritenne che vi fossero i presupposti per dare inizio ad una indagine che desse luce a quegli avvenimenti e alla entità del danno arrecato alla Città e alla sua gente. Oggi, vi è un processo in corso. Ma, al di là degli aspetti giudiziari, da trattare nelle opportune e competenti sedi, ve ne sono altri, di ordine storico ed esistenziale che qui vale la pena sottolineare. Questi sono tutti contenuti nel neologismo ipocrita del sofferto dilemma civile del “portare sviluppo” nelle terre carenti e sommerse dai bisogni. E’ un imbroglio che si traduce con banali parole: lavoro extra legem o perpetuazione delle condizioni di disoccupazione esistenti. Ovvero, ai “miserabili” è al più offerto un lavoro svilito, fatto di scarse tutele, ben sapendo che l’alternativa può essere solo la condanna alla povertà e alla disoccupazione o alla emigrazione in terre più generose. I pretesti giustificativi della scelleratezza sono dai “benefattori” corredati dall’ampio campionario di sciocchezze cui i peggiori solitamente fanno ricorso, fatto di lusinghe, di racconti fantasiosi che rimandano alle complesse”situazioni contingenti” che gravano sugli “impieghi di capitali” come macigni, tanto da rendere nulla o quasi la convenienza reale di quegli stessi investimenti. Nelle “terre dell’osso” si fa così e il bisogno diffuso, coniugato ad una sorta di candore etico sorprendente della gente bisognosa, si direbbe tipico della ingenuità degli “ultimi”, spinge gli stessi ad una cecità consapevole, alla sottovalutazione dei rischi e alla sopravvalutazione della generosità di certi “benefattori” all’improvviso dalle ombre spuntati.
A distanza di 28 anni dalla chiusura di quella fabbrica, oggi, nell’area dove ancora insiste il suo triste scarno scheletro fatiscente, si trovano ricoperti da teloni 681 cubi contenente amianto e interrati 1600 metri cubi di quel minerale. Dal dilemma posto, tra o scarse tutele o disoccupazione, viene una intrigante domanda, che è quella del perché fu prescelta proprio la città di Avellino quale sede idonea all’impianto della fabbrica. Ancora: ci si chiede perché dalle giuste proteste degli operai delle Officine Grandi Riparazioni di Porta di Prato, molti dei quali ammalati di mesotelioma pleurico, si arrivò all’affidamento, nel 1982, dell’appalto miliardiario del Ministero dei Trasporti all’ing. Graziano e alla sua Isochimica. Qui, Avellino, Sud-Italia, territorio dove non eccezionalmente ci si può imbattere in storie definibili di “normali scelleratezze”, questo è avvenuto e, per dirla con Sciascia, qui la “storia” si è potuta realizzare perché è terra che tollera un “sistema” o un “contesto” dove disonestà imprenditoriali e noncuranza per lo “Statuto dei Lavoratori” possono essere anche di arredo dell’ambiente. Come dire che ethos e riformismo, liceità e modernità, assumono profili evanescenti, sfuggenti, informi, come “doni” dell’immaginifico secolare “sviluppo” che verrà. Purtroppo, la illiberale circolazione degli investimenti disonesti comporta vittime e pesi sociali gravi e “l’Affaire” Isochimica non poteva sfuggire a questa triste regola. Fu così, che quei trecento e passa lavoratori dell’Isochimica cominciarono a “grattare amianto” in modo tale da far dire al dott. Deidda, il valoroso magistrato che emise l’ordinanza definitiva di chiusura della Stabilimento, nel dicembre del 1988: “giunto ad Avellino, (da Firenze, ndr) mi recai subito in Pretura per confrontarmi con i miei colleghi. Con mia somma sorpresa trovai denunce archiviate, procedimenti che giacevano lì senza sviluppi. Mi resi conto che non era stato fatto molto e decisi di farlo io”.
L’inerzia della magistratura avellinese non aveva evitato la perpetuazione del reato e il ritorno di quelle carrozze avvelenate a Firenze. Per questo motivo, il dott. Deidda, imbattutosi in uno di quei lati del “contesto” o del “sistema” delineato da Sciascia, essendone fuori, agì per come si doveva e per come si sarebbe già dovuto. Del sogno di allora, a molti di quei giovani, oggi, è riservato il calvario da adulti, malati nel corpo e nello spirito, spesso con famiglie distrutte e con diritti negati.
La mia attenzione sulla fabbrica Isochimica si appuntò non moltissimo tempo fa, dopo che era già avvenuta la sua chiusura, per caso. Ignoravo l’esistenza di questo stabilimento Industriale in Avellino e, ovviamente, ignoravo anche il tipo di lavorazione che in esso si svolgeva. Senonché, da chirurgo toracico e cardiaco, trasferitomi presso l’Ospedale Civile di Avellino da quello di Brescia, ebbi modo di visitare pazienti affetti da mesotelioma polmonare e da altre patologie polmonari e pleuriche, in percentuali di frequenza sicuramente inusuali, rispetto alla loro incidenza statistica generale. La mia attività presso gli Spedali Civili di Brescia, negli anni ’80, si svolse nella Divisione di Cardiochirurgia e Chirurgia Toracica, per cui le malattie oncologiche del torace, tra cui quelle polmonari e pleuriche, erano patologie di frequente osservazione nel nostro reparto. Inimmaginabile per me fu scoprire che, nella terra delle limpide acque e dell’intenso verde di montagne e colline, dove lo sviluppo industriale avrebbe dovuto crescere nella modernità delle norme di legge, vi fosse quell’inquinamento derivante dalla lavorazione di un minerale pericoloso come l’amianto. Eppure, le tante persone ammalate rimandavano alla contaminazione di quel minerale. Allo stupore e allo sconforto che ne seguì, dopo tale scoperta, sopraggiunse in me ben altro di più sorprendentemente grave e negativo: alla iniziale assenza della sorveglianza sanitaria, scoprii che, per tutto l’intero periodo di lavorazione, si era pervicacemente aggiunta la mancanza di ogni serio sistematico screening medico e ambientale, da parte delle Istituzioni competenti. Dove mancò il senso umano e il rispetto delle norme preposte alla tutela della salute in fabbrica da parte di imprenditori, autorità sanitarie, mondo politico, oggi è subentrata la Magistratura a fronteggiare quel vuoto colpevole, morale e civico.
Come si sa,quanto è accaduto nello stabilimento industriale Isochimica di Avellino non è unico esempio di eccezione, quale modello negativo, nel mondo imprenditoriale italiano. Non manca, invero, l’opposto, cioè la osservanza dei diritti, la prevenzione dei possibili danni professionali, il rispetto della dignità delle persone nel mondo della industria italiana, pur tuttavia, balza agli occhi che negli ultimi decenni vi sia stato un costante svilimento del lavoro. A motivo di arricchimento improprio, sempre più si tende a ricorrere a criteri che comportano occupazione caduca e salari miserevoli. Ne è conseguito, per il popolo italiano, un decadimento delle condizioni economiche, probabilmente pari a quelle subite dal popolo americano con la crisi del 1929. Le povertà assolute e relative nel nostro Paese sono cresciute in modo esponenziale, specie nelle regioni del meridione d’Italia, divaricando ancor più la forbice con le migliori condizioni socio-economiche presenti in quelle settentrionali. Questo è il dato sconfortante sul quale riflettere seriamente, davvero meritevole di politiche rivolte ai ceti meno abbienti e verso una area del Paese potenzialmente pronta a determinare l’atteso salto migliorativo di tutta la comunità nazionale. Sconvolgente, infatti, è apprendere dal CENSIS che 11 milioni di italiani rinunciano anche alle cure, perché costose. L’Italia solidale, la dignità della persona, “l’ascensore sociale” come possibilità per i figli di far meglio dei padri, sfumano nel ricordo di un Paese che seppe orgogliosamente ricostruirsi e rinascere dalle macerie del dopoguerra, investendo nella volontà di lavoro del suo popolo e ottenendo in poco più di un ventennio il riconoscimento di poter sedere allo stesso tavolo delle potenze maggiori del pianeta. La storia di questi ultimi anni, invece, è storia di regresso e di involuzione sociale, dove si è stati incapaci finanche di limitare il diritto fondamentale della sanità gratuita per tutti. Un ceto politico qualificatosi sempre più come parolaio e inconcludente, assoggettato ad una diffusa ignoranza dei molti suoi rappresentanti, pure inclini a sprechi e a furti con destrezza, sono state le cause principi della scellerate condizioni in cui il Paese oggi si mostra precipitato, come dalla denuncia del CENSIS.
Sullo sfondo, l’esempio negativo della fabbrica Isochimica, come parte evidente dei disvalori e delle entropie che animano i soggetti animati dalla rapace avidità dell’arricchimento come fine di sé, nel disprezzo della dignità e del buon ordine sociale.
L’Autore
Arturo Bascetta –
…Nello stabilimento Isochimica, il riconoscimento e la constatazione che gli ex operai siano stati tutti esposti al fattore di rischio generico per lungo periodo, per più anni, non può essere eluso. In quell’ambiente di lavoro sono risultati carenti e insufficienti i dispositivi di prevenzione obbligatori, in osservanza alle linee guide previste dalle normative per la cautela e la tutela individuale. Inoltre, la non effettuazione dei controlli medici sui lavoratori esposti, come risulta dalla nota della Asl Av n°2899 del 28/3/2013, unitamente alla assenza della compilazione dei registri Tumori e Mesoteliomi, pesano anche esse nella causalità delle patologie, per la elusione dei criteri di profilassi e della condotta che si deve nel porre in essere precoci indirizzi terapeutici. Nell’elaborato si riportano anche una serie di dati che attestano la relazione tra nesso di causalità degli eventi lesivi e la condotta dei datori di lavoro, per cui, se si fosse fatto ricorso, come si doveva, a strumenti idonei e conformi alle norme cautelari, si sarebbe con altissima probabilità scientifica assistito alla riduzione dei rischi sui lavoratori o, perlomeno, all’allungamento dei tempi di latenza delle neoplasie, che, come evidenziatosi nel tragico evento di New York, sono sensibili e rispondenti alla concentrazione dell’amianto inalato. Per conseguenza, il factum probandum, per i tanti fattori che hanno agito in contemporaneità, quali la persistente alta concentrazione del minerale presente negli ambienti della fabbrica, la esposizione continuata e pluriannuale dei lavoratori, le inidonee misure cautelari rilevate, attenendosi alla valutazione critica dei dati, secondo criteri di evidence-based in medicina, va ricondotto alla azione patogena dell’amianto, minerale che esprime in pieno la valenza causale indiscutibile delle patologie diagnosticate. Causalità materiale e evitabilità degli eventi dannosi, conformemente al modello di sussunzione sotto leggi scientifiche, diventano qui, nella fabbrica Isochimica, elementi in sinergismo di potenziamento lesivo tra loro, nel determinismo delle tante patologie accertate, anche di quelle non oncologiche. In generale, merita di essere sottolineata l’importanza di richiamarsi al principio che la conoscenza delle perdite inflitte alla umanità da una data causa morbigena è fondamento della direzione verso cui orientare i maggiori sforzi di profilassi, allo scopo di ottenere la diminuzione del coefficiente di morbilità delle malattie provocate dalla noxa individuata. Come pure riguardo alla sorveglianza sanitaria, che è materia regolata in Italia fin dagli anni ’50, deve imporsi obbligo, anche di coscienza, nell’osservare le misure preventive e protettive imposte “ex legis”, proprio al fine di evitare, per quanto più possibile, i rischi e i danni derivanti dalla manipolazione dei vari agenti tossici, fisici, chimici, elettromagnetici o di altra natura. Nel 1978, successivamente all’incidente di Seveso e alla istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, la maggior parte dei compiti di vigilanza e di controllo furono assegnati per legge alle strutture periferiche ULSS, per trasferimento ad esse dall’Ispettorato del Lavoro. Le stesse legislazioni che seguirono furono rese sempre più precise nell’identificazione di strumenti e percorsi volti allo scopo di evitare i danni causati dalle attività lavorative. In ossequio a tali protocolli e linee guide si espresse la Corte di Cassazione, con sentenza n°33311 del 27 agosto 2012, in cui si riconobbe la sussistenza di causalità tra omessa adozione di idonee misure di protezione e insorgenza delle patologie correlate alla esposizione protratta delle polveri.
Si è detto che tutti gli studi del settore, in particolare, il progetto OCCM tra ISPELS e IRCSS di Milano, il quaderno del Ministero della Salute n° 15, maggio-giugno 2012, e gli altri riferimenti qui riportati, hanno portato al pieno convincimento scientifico che l’amianto sia con certezza fattore scatenante e acceleratore del processo di cancerogenesi, non solo a carico del tratto respiratorio e della pleura, ma anche di altri organi e parenchimi corporei. Si è anche rilevato che sulla materia si è espressa la recente citata sentenza della Corte Cassazione, la quale, riconoscendo il nesso di causalità tra l’esposizione all’asbesto e il cancro del colon, ha fatto cadere il principio della tassatività tabellare dell’INAIL, stante un difetto intrinseco alla stessa che comporta l’esclusione della effettuazione di analisi cliniche su lavoratori esposti alle patologie non elencate e la conseguente mancata sorveglianza epidemiologica. Tumori, infatti, del tratto gastro-intestinale o di altre sedi, come sopra detto, sia pure esclusi dalle tabelle INAIL predeterminate, sono statisticamente più frequenti nei lavoratori esposti a polveri libere di asbesto, rispetto ai non esposti. Questo è dimostrato, come pure che l’aumento della frequenza di queste malattie è inferiore rispetto a quanto avviene a carico dei tumori del tratto respiratorio, rientrando esse nel novero di quelle su cui l’amianto assume causalità a bassa frazione etiologica. Viceversa, questo minerale, per le neoplasie dell’apparato respiratorio, ha indiscutibilmente valenza causale ad alta frazione etiologica. Ciò vale anche per le patologie neoplastiche del sistema emolinfopoietico, tra quelle a bassa frazione etiologica; la maggior incidenza di queste patologie è rilievo inconfutabile statistico-matematico nei microclimi ove vi è stata lavorazione con materiali contenenti amianto. Questo è ben evidenziato dai report della ASL di Lucca e dalle pubblicazioni scientifiche qui citate. Deve ancora sottolinearsi al riguardo della Isochimica di Avellino, che la bonifica dei siti inquinanti è imperativo assoluto, e si impone specialmente a beneficio dei non-malati, adulti e bambini, che hanno dimora o prestano opera nel territorio del borgo “Ferrovia”; a questo scopo, tutti gli Enti preposti dovrebbero sentire impellente l’obbligo civile e morale di porre con immediatezza rimedio ai guasti verificatisi e prevenirne in futuro. Inoltre, l’esame dei tanti casi clinici, inerenti le persone cui è stato riconosciuta la malattia professionale da esposizione all’amianto, a causa della discutibile variabilità dei criteri assunti dalle varie Commissioni mediche INAIL, porta a rilevare quanto disomogenei siano stati i giudizi da queste espresse, sia in merito alla incidenza delle patologie asbesto-dipendenti accertate sui lavoratori contaminati, sia per quanto attiene al conseguente riconoscimento del grado della menomazione loro riconosciuto. Da tanto, emerge la necessità di revisione dei quadri clinici dei singoli pazienti già sottoposti a visita medica e, perciò, anche quella di inficiare per larga parte le conclusioni e il grado di menomazione riconosciuto da quelle Commissioni mediche.