Gli sbandati di Apice: il caporale, un falegname e la banda Caruso. Stupri e rapine di briganti nella Valle del Calore.

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1861

Con la proclamazione del Regno d’Italia, il Meridione, conquistato da Garibaldi per conto di Vittorio Emanuele, fu riunito sotto la bandiera sabauda. Come ebbe modo di accorgersi lo stesso Generale, la libertà, di cui si sentiva ambasciatore, era però solo formale. Insopportabili tasse e continui focolai di rivolta non accennavano ad attenuarsi dopo la nascita, a Portici, di un Comitato centrale da cui erano partiti ufficiali graduati per mettersi alla guida dei gruppi di sbandati. Si nascondevano sui monti con l’idea di fomentare e proteggere quei comuni decisi a riconoscere nuovamente Franceschiello. Nè la promessa delle riforme sociali venne mantenuta e la risposta del popolo fu nell’appoggiare gli ex militari borbonici che cominciarono a sobillare le popolazioni.1
Il primo episodio di una certa consistenza si ebbe nel Principato Ultra, dove i colpi di cannone, sparati a Napoli il 7 settembre 1860 per festeggiare Garibaldi, si erano uditi fino alle remote contrade del Terminio. I giovani liberali più tenaci di Volturara dormivano con le finestre aperte, cercando di rivivere ogni sera l’eco degli scoppi provenuti dal Golfo, ma non quelli della Battaglia del Volturno del 1 ottobre, di gran lunga distante dalle loro idee e offuscata dalla capitolazione di Gaeta del 13 febbraio 1861.2
Prima di allora si ricorda solo un fatto passionale che sconvolse Roccabascerana e che terminò con il pentimento di una brigantessa, scappata per amore, rassegnato nelle mani del Generale quando era ancora a Napoli.

Description


L’immorale brigantessa graziata da Garibaldi per moralità

Un caso isolato di brigantaggio era stato riscontrato nei giorni in cui Garibaldi sfilava per Napoli, a settembre del 1860. La vicenda, di passione e di sangue, sconvolse la Valle Caudina.
Già a luglio, il Notaio Gennaro Principe di Roccabascerana, aveva ospitato, seppure malvolentieri, un suo lontano parente: Costanzo Majo. Accadde che l’inquieta ed avvenente moglie, Donna Matilde Rossi, si invaghì del bandito e, dopo aver collaborato con l’amante a trucidare il consorte, prese a seguirlo per la via dei monti. Acquisita la consapevolezza dell’errore commesso e di non avere futuro, saputo dell’arrivo di Garibaldi a Napoli, decise di chiudere la sua avventura. Così, una sera, fatto ubriacare anche l’amante, fra una carezza e l’altra, lo fece crollare in un sonno profondo. Poi, con una freddezza da criminale, prese la pistola e gli sparò. Non contenta gli staccò la testa con un’ascia e la portò seco in un sacco. Con quello strano bottino a tracolla Donna Matilde discese il Partenio e si presentò alle autorità di Avellino. Arrestata per essere stata complice nell’assassinio del marito e omicida dell’amante fu tradotta nel carcere di S.Maria Capua Vetere. Da qui l’idea di far partire dalla cella un messaggio diretto al Generale Garibaldi consegnato nelle mani del suo avvocato. Nel breve memoriale giurava di essere stata costretta con le minacce a seguire il malandrino e che, appena possibile, aveva vendicato l’onore e, ammazzando il brigante filoborbonico, dimostrato l’amore “comune” per la Patria. Letta la supplica, il Generale, non solo la tirò fuori, ma la fece ringraziare in piazza in nome “della moralità pubblica”, ricevendola nel suo vagone personale fermo alla stazione di Caserta dove la donna, una volta liberata, si portò per lodarlo infinitamente.3
Fu, Donna Matilde, la prima brigantessa mancata.

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Editorial Review

DAL PARTENIO ALLA VALLE BENEVENTANA, LA DOTE MATERNA NEI CONTRATTI PATERNI

La gonnella imperiale di saia scarlatta

 

Risalire ai vestiti femminili per antonomasia che le donne della Valle Beneventana si tramandavano di madre in figlia attraverso la dote non è impresa facile. Possiamo però dire, alla luce delle ricerche effettuate presso hli Archivi di Stato di Napoli e di Avellino, di aver reperito, fra i volumi notarili conservati, sebbene spesso illegibili, la raccolta di alcuni atti che si sono rivelati utili per il paragone fra i paesi della Montagna di Montefusco e del Partenio, prendendo a campione la centralità di Torrioni e di Pietrastornina, sedi di primari notai del Principato Ultra.5
Ricerca che potrebbe risultare non vana in un confronto fra i paesi di sopra e di sotto le due Montagne che dividono Avellino da Benevento e che frenano un’idea iniziale di similitudini storiche che non accompagnano le due valli. Stando a questi pochi, ma preziosi fogli, è stato quindi possibile capire come fossero fatti gli abiti, quelli che oggi chiameremmo costumi tradizionali, che le donne da marito, quelle definite vergini in capillis dopo i dodici anni, poi chiamate “zite” se i tempi si allungavano, portavano in dote nel giorno del matrimonio.
C’è da dire, aprendo una parentesi, che è stato possibile decifrare qualche pagina anche alla fine del 1400, ma è evidente che i vestiti sono di gran lunga precedenti, in quanto si ripetono ugualmete da donna in donna, da madre in figlia, sebbene solo gli ornamenti siano di diversa fattura in base al ceto sociale. Seguiamo, a titolo di esempio, qualche passo dei Capitoli Matrimoniali del notaio di Apice, paese di confine, dove la provincia di Principato Ultra e lo stesso Regno lasciavano il confine allo Stato della Chiesa di Benevento.
Il primo è del 1741 e si riferisce alla zita in capillis Teresa Verucci figlia legittima di Biaso Verucci e Barbara Galiarde, i quali, si abbiano di dotare à Andonio Cociniello, della altra parte, [in quanto prossimo marito e] figlio di Cirijaco Cociniello è Cecilia Laurito; e il predetto Andonio si contenta di pigliarsi per sua cara e ligittima sposa alla detta Teresa seconno comanna il rito della Santa Madre Chiesa Cattolica, che si sono convenuti, dalla una è dalla altra parte, cioè detta Teresa, di pigliarsi al predetto detto Andonijo per sua cara e legittima sposa alla predetta Teresa, e dalla aldra parte il detto Bijaso e Barbara, i quali, si obbligano di dotare sua figlia seconno Iddio li spira e non facenno crede che sia detta robba di detto Biaso.
Ed ecco la dote:
in primis promette di darli di contanti Docati 40,0 con annui cinque di tempo, con pagarne ogni anni Docati 8 e Carlini spari;
item anna tre di panni di tutte sorte; item [per] rama e ferro, Carlini 3.2.10;
più un letto fornito solamente il materazzo mangante;
più una gonnella di saia imperjale con maniche di saia scarlatina;
più cassa di noce di tomola 3.
Dal citato documento veniamo a sapere che ad Apice, quando si maritava una vergine, i genitori avevano diversi anni di tempo per pagare la dote al marito. Soldi che serviranno alla famiglia (danaro, asciugamani, lenzuola, rame e ferro per il letto). Mentre fin da subito avviene la dotazione del materasso, regali vari ma, principalmente la veste. Essa è rappresentata da una gonnella di saia imperjale con maniche di saia scarlatina.
Nel confronto con l’area prettamente avellinese, a Valle di Mercogliano, si parla invece di una gonna con goverdina di seta semplice verde. E’ un atto del 1790 del notaio Zigarelli sulla concessione a causa di matrimonio di Gennaro della Pia in causa con gli eredi della futura sua sposa Angiola, figlia di Raimondo, avendo avuto questa due scotonazze di lana con veste, quattro coscine di lana anco con veste, una cosolina di rame, una gonna con goverdona di seta semplice verde, dodici libbre di seta, una croce d’oro per uso di donna consistente in pietre rosse, ed verdi, un paio di fioccagli d’oro, e tutti gli altri mobili esistenti in detta sua casa tanto di rame, biancherie, un sumarro c r e tutto quanto acquista esso Gennaro s’intende donato alla detta Angiola sua futura sposa.6
Il mercoglianese Paolo dello Russo, nel 1746, accompagnato dal padre Angelo, dovendo sposare Rachele Vecchiarelli, figlia della vedova Teresa di Ruggiero, si reca dal notaio Salvatore de Leo, per dare seguito ai capitoli matrimoniali contratti, secondo cui la promessa la dote del valore di 35 ducati, cioè la robba s’avesse da consegnare a padre e figlio dello Russo prima della consagrazione del matrimonio. Si trattava di 15 ducati, già ricavati dalla vendita del legname, e di altri 20 riferiti al valore della sua robba consistente in una gonna di drappo di colore di feccia con fiori d’oro e d’argento apprezzata, estimata e valutata per il prezzo di ducati 16, una filza di sennacoli d’oro al numero di 54, apprizzata, stimata e valutata per il prezzo di ducati 9, tre lenzuola nuove di tela di casa per carlini 30, due camicie di donna, una tovaglia e mocaturo di donna con pezzilli attorno per carlini 30, ed un mantesino di tela di cassetta nuovo, un saccone di tela per carlini 15, e 25 braccia di tela nova per carlini 24, che in tutta fanno la somma di ducati 34 e carlini 9.7
Per il matrimonio fra Rosaria Paragone e Domenico Altiero di Apice, fra i beni dotali, vi sono il letto fornito, consistente in un saccone, un materazzo con rotoli venti di lana, con due coscine, una manta di lana di libre venti, una co[pe]rtina di straccia in pezzi 24 con pontilli in mezzo, due lenzuola di panno... In questo caso il genitore ha quattro anni di panni secondo l’uso e consuetudine di questa Terra [all’in]fuori delle due lenzole. Item Docati cinque di rame e ferro. La consuetudine appare quindi la fornitura di biancheria, che possa bastare per quattro anni, oppure i 5 ducati di rame e ferro. L’atto notarile non facilemente decifrabile e non ci viene incontro nella ricerca. Ma la curiosità è subito soddisfatta da un capitolo successivo, del 1742, relativo al matrimonio fra Vittoria di Sunno e Gennaro Vetere. In questo caso il genitore di parte femminile deve soddisfare tre anni di pannamenti secondo l’uso di questa Terra fra il termine di anni 3. Item carlini 30 di rame e ferro per il termine di anni 2. Quindi la fornitura, nello stesso paese, richiamandosi alla stessa usanza, non pare il termine temporale, nè il valore del rame e del ferro: tre anni di lenzuola e due anni di rame e ferro.
Si citano quindi altri beni: il solito materazzo con rotole di lana, il saccone [di foglie di pannocchia altrove dette preglie], una manta cardata di lana di Ducati 4,50. Finalmente ricompare, fra le cose dotali, una gonnella di sai[a] imperiale con maniche guarnita con trame [o trene=lacci?] di seta. E’ questo tipo di gonna, quindi, l’elemento preciso, sempre presente, che si tramanda di madre in figlia, insieme alle lenzuola e al materasso, ma anche a rame e ferro.
E’ come se le doti fossero un bene delle moglie che però era amministrato dai mariti, come risulta da un atto del 1801. Un paio di fioccagli d’oro da 6 ducati, quattro cuscini di lana, una manta di lana, un telaio di legno da 3 ducati per far tele, un covertino di bambace, quattro lenzole di canapa e stoppa, una guancia di borattino, un sacconte di tela di stoppa e una veste di matarazzo di finiello e altro ancora sono la dote che Aniello Napolitano della Terra di Summonte attesta come marito ed amministratore legittimo di Saveria di Grezia di Ospedaletto.8
Un altro documento, del 1742, riguarda il matrimonio fra Teresa Pagliuso e Bartolomeo Carchietta di Apice. Teresa porta in dote un saccone, un materazzo con rotoli di lana [che] è proprio quello tale e quale che fu di detta quondam sua moglie con le cuscine, una manta cardata di Ducati 4, una co[pe]rtina di braccia 24, un tornaletto. Ma eccoci al vestito della festa: una gonnella di saia con maniche di saia scarlattina. E’ proprio simile alla dote precedente, ma appare più signorile, la veste che Rosa Pagliuso porta allo sposo Giovanni Chiucchiuso, nel 1742: una gonna di saia imperiale di saia scarlatta guarnita però le maniche con trame di seta. Altri due documenti del 1742. Il primo, quasi indecifrabile, fra le altre cose, annovera sicuramente quattro camicie a ccannatora di tela e pizzilli, due mesali di bambacie fine, due sarvietti in tela a coppetiello e due mesali pure a coppetiello. La Cacciatora, invece, ben più ricca, porterà in dote la gonnella di saia imperiale con maniche anche di saia, guarnite solamente le maniche e il busto di trame d’argento da darola in die sposalitij.
Il documento che sancisce il giorno del matrimonio come il momento in cui viene consegnata la gonna che rappresenta una sorta di testimone che, nella parte del busto e delle maniche, si impreziosisce di trame d’argento: una dote che si caratterizza dalla donazione, nel giorno dello sposalizio, di una gonna scarlatta con fregi diversi a seconda dello stato sociale delle donne: gonnella scarlatta di saio imperiale con maniche in saio; gonnella scarlatta di saio imperiale con maniche in frene di seta; gonnella scarlatta di saio [imperiale] con maniche in saio; una gonn[ell]a scarlatta di saio imperiale con maniche in frene di seta; una gonnella [scarlatta] di saio imperiale con maniche maniche e busto in trame d’argento. I costumi ufficiali maschili sono rappresentati dall’uomo in pantalone e camicia bianca e dalla donna in abito lungo scarlatto con fregi ai polsi dello stesso tessuto, seta o anche d’argento. Presumibilmente si tratta quindi di una gonnella di panno scarlatto tagliato a guisa di toga o stola fino al tallone e lavorata a mano. E’ ornata nel lembo da varie fasce sempre di scarlatto o vellutino in seta uguale o diverso da quello della toga. Le cuciture delle maniche sarebbero quindi ornate di liste di scarlattino o vellutino forse ad interlaccio che può ornare anche il busto. Il caso dell’argento è forse propriamente della chiusura della pettina, così come in alcuni usi, con bottoni d’argento o lacci di seta.
L’abito a gonnella si completerebbe quindi, nella parte sottostante, con la vera tunica senza maniche, una sorta di casacca, mentre le gambe, a questo punto, sarebbero coperte da calzette ricamate in seta con ai piedi i classici pianelli ma anch’essi ricamati. Non resta che rovistare nelle soffitte alla ricerca della veste scarlatta.9
Abbiamo quindi rinvenuto in ben cinque casi su sette una dote che si caratterizza dalla donazione, nel giorno del matrimonio, di una gonna scarlatta con fregi diversi a seconda dello stato sociale delle donne di Apice:
1. gonnella scarlatta di saio imperiale con maniche in saio.
2. gonnella scarlatta di saio imperiale con maniche in frene di seta.
3. gonnella scarlatta di saio [imperiale] con maniche in saio.
4. una gonn[ell]a scarlatta di saio imperiale con maniche in frene di seta.
5. una gonnella [scarlatta] di saio imperiale con maniche maniche e busto in trame d’argento.
I costumi ufficiali di Apice sono rappresentati dall’uomo in pantalone e camicia bianca e dalla donna in abito lungo scarlatto con fregi ai polsi dello stesso tessuto, seta o anche d’argento.
Presumibilmente si tratta quindi di una gonnella di panno scarlatto tagliato a guisa di toga o stola fino al tallone e lavorata a mano. E’ ornata nel lembo da varie fasce sempre di scarlatto o vellutino in seta uguale o diverso da quello della toga. Le cuciture delle maniche sarebbero quindi ornate di liste di scarlattino o vellutino forse ad interlaccio che può ornare anche il busto. Il caso dell’argento è forse propriamente della chiusura della pettina, così come in alcuni usi, con bottoni d’argento o lacci di seta. L’abito a gonnella si completerebbe quindi, nella parte sottostante, con la vera tunica senza maniche, una sorta di casacca, mentre le gambe, a questo punto, sarebbero coperte da calzette ricamate in seta con ai piedi i classici pianelli ma anch’essi ricamati.
Consuetudine ancora diversa per Altavilla Irpina, secondo i dettami dell’antica consuetudine che pare richiamarsi ai governatore feudali locali. Vale la pena citare la ricca dote che il notaio Antonio Cajfassi annuncia nel 1576 e stipula nel 1579, portatosi dal notaio Crescitiello di Altavilla, in favore della figlia damigella. Si tratta della domicella Angelella Criscitello citata in presenza del governatore del feudo di Altavilla, cioé dell’agente generale Francesco Bruno. Il notaio Cafasso redige quindi l’impegno della dote da farsi dall’onorabilis Berardino de Criscitello alla figlia Angelella il 12 luglio 1579, in un capitolo matrimoniale che ricorda la bona mobilia del valore di 27 ducati da restituire in caso di morte della sposa, secundum istrumento, e antiqua consuetudinem G[overnator]i Terre Altaville, cioè il detto G.i Altaville.
Questa la nota della sposa:
- 1 saccone novo ad braccia venti, Ducati 1.0.0.
- 1 coltra nova di braccia 20 co lo piomazzo, 4.2.0.
- 20 tomola di penne, 4
- 1 paro di lenzola co’ Lenole torchine de 24 braccia nove, 4
- 1 altro paro di lenzola nove, uno di essi co Lenole torchine e l’altro bianco, 4
[Subtotale D.17.20]
- 1 lenzuolo nuovo braccia 12 molence di raso, 2.0
- 1 coperta nova bianca, 3.1.10
- 1 paro di cammise con riticella bianche di filo bianco n(u)ove, 2
- 1 altro paro di cammise non lavorate de intagliato ma alle maniche e l’altra scheotta increspata alle maniche, 2.1.0
- 1 mesale novo calabrese di una canda e mezza, 0.4
- 3 tovaglie intocchi lavorate tutte de intaglio, 1.4.10
- 1 torclo di tovagli braccia dieci, 1.1.0
- 1 coscino lavorato a sete carmosino, 0.2.10
- 1 altro coscino lavorato di seta negra, 0.1.10
- 1 tovaglia lavorata di seta carmosina e reticelle del med., 0.4.0
- 1 vantesino lavorato de intaglio bianco ed reticelle del medesimo, 0.4.0
Anche in questo caso, dunque, quell’antica consuetudine, diremmo del feudo altavillese della famiglia Di Capua, cambia completamente, senza gonnella e fornitura annuale di biancheria, se non unatantum.
Insomma la consuetudine è diversa da luogo a luogo, per non parlare delle influenze che ancora pervengono dalla Puglia nel 1587, quando è ancora stretto il legame di Monte Rotario di Foggia con Casalbore. Per questo confronto abbiamo scelto come sempio il notaio Ferdinando Lombardo, sive Terre Montis Rotari, et Casalis Novi, et eorum castro, habitat ione fortellitio dominus vassallis, mediante istrumento rogato in Curia del Magnifico Anelli de Martino de Neapoli. Qui si costituiscono il magnifico Angelo de Ruvio o Ruccio della Terre Casearboris, cioè Casalbore, e l’Illustrissima Donna Lucretia Pignatella de Neapoli juere romano rum utilis padrona Terre Montis Rotari, et Casalis Novi. In dicta Terra Montis Rotari, et Casali Novo proprio di statiaj loci.
Ciliegina sulla torta spetta a Benevento, dove, come si ricava dall’atto della Magnifica Cassandra Schinosa di Benevento chità per il matrimonio con Giacomo Masone, si dice che questi, per le nozze, guadagna et s’intende guadagnare la quarta seguendo l’uso di Terra ipsa, cioè 40 ducati, in qualità di sposo.10