IL GARUM del credenziere latino

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Il garum, l’aceto balsamico dei Romani

Il primo a parlarne fu Marco Gavio Apicio vissuto prima e dopo l’annno 0 di Cristo. Almeno così si tramanda in una sua opera postuma sull’arte della cucina, raccolta un paio di secoli dopo la morte, nel De re coquinaria. E’ lui che, nella sua cucina, condisce una ventina di pietanze romane con quello che chiama garum.
Questo condimento era molto comune al suo tempo, al punto che l’esperto non fa accenno alla lavorazione e produzione della salsa, ma all’utilizzo nei piatti, indicando che fosse un prodotto ottenuto dalla fermentazione delle viscere di paranza e del pesce seccato al sole, da cui veniva separata una parte solida e un liquamen. Nulla aggiunge se nel primo caso il pesce fosse fresco o se, nel secondo caso, fosse salato.
E’ poi Plinio il Vecchio, nel 31° volume dell’opera Naturalis historia, che annovera il prelibato garum come liquor exquisitus, una sostanza salina ottenuta dal processo di fermentazione delle viscere di pesce, salate al punto giusto, in modo da macerare e non far marcire la parte non utilizzata, altrimenti sarebbe andata in putrefazione. Fra i vari tipi di questa salsa balsamica, Plinio, annoverò il garum sociorum come il più costoso, venduto al prezzo di un profumo, presente sui mercati italiani e ottenuto dagli sgombri lavorati nella Provincia iberica dai tunisini provenienti dalla Phoenia.

Description

FAVOLE, STORIA E LEGGENDE

Nessuna pretesa. E’ una prima raccolta di novelle, racconti e favole, note e meno note, con l’aggiunta di altre notiziole di cronaca, riguardanti la Costiera Amalfitana, che abbiamo incontrato lungo il percorso di studi sugli antichi paesi del Principato Citra e dei Casali di Napoli.
Il lettore resterà piacevolmente rapito dall’uso antico del raccontar le novelle del Quattrocento e del Cinquecento che si sono tramandate negli anni, grazie ai primi trascrittori, ma anche alla tradizione orale. Nonostante le leggere modifiche da paese a paese, la memoria storica, mantiene alto il valore della letteratura popolare che fa di questo primo libello un buon inizio per la salvaguardia di quei valori.
Le favole, o le storie che dir si voglia, raccolte in questo pamplet, sono rivolte a tutti e, pertanto, anche i grandi riscopriranno il piacere di una lettura dal sapore antico….

Pesce azzurro come antipasto, non il piatto povero

E’ vero che le alici non sono un piatto ricco, ma è vero anche che non sono quello povero. Questo perché erano e sono sulla tavola di ogni ceto sociale in tutti i tempi.
Il Duca di Buonvicino, che scrisse una sorta di calendario culinario, le piazzò per il pranzo di mercoledì 24 luglio 1839, quale giorno migliore per consumare una pietanza a base di acciughe: le alici mollicate in cartoccio.
Così il Duca: – 22, Lunedi. Maccheroni alla Siciliana – Entramée d’interiori di polli con fonghi e crostini – Arrosto di pollastri – Crema di fragole.
23, Martedi. Minestra verde – Lesso di vaccina con salsa di pomidoro – Braciolette arrostite con crostini – Calzoncini fritti d’amarene.
24, Mercoledi. Minestra di frutti semplici, con salsa di pomidoro. Alici mollicate in cartoccio – Fritto di calamari Crema di cannella.
25, Giovedi. Zuppa di pane composto – Granata al bagno-mario – Canestrine di pane farsite – Sfoglio di sciroppata.
26, Venerdi. Zuppa alla santè di magro – Ordura di braciolette di pesce – Palaje mollicate – Pizza rustica.
27, Sabato. Vermicelli con pomidoro – Pesce in umido – Arrosto di mozzarelle con crostini – Biscotti di gelsomino.
28, Domenica. Zuppa di pane di Spagna – Fregandò di vitella – Ordura di tagliolini – Gelo di mellone d’acqua.1
Sulle tecniche di conservazione gli fa invece eco il Corrado, col suo Credenziere del buon gusto, secondo il quale il credenziere deve saper anche preparare l’erbe, e le frutta in composta in aceto; poiché son cose del suo uffizio, e son a servirle nei tondini, nelle insalatine, e nelle caponate, per così, non solo per ornamento delle tavole, ma per stuzzicar anche ai commensali l’appetito.
A suo dire, sulla tavola imbandita, la posizione delle alici salate è nella salsetta dei sottoli, cioè nella schiera accanto ai sottaceti: nasceva l’antipasto.
Così il Credenziere: – L’operazione delle composte in aceto è facile e comune, e pur si sa, che debba mettersi in aceto, cioé ortolizie come peparoni, petronciane, cetriuoli, cocozuoli, sparaci, pastinache, e baccelli di faggioli; ed in aceto si posson mettere anche le frutta, ma che non sieno però alla perfetta maturità. Son esse le pera, le mela, le percoche, le crisommole, le nocipersiche, l’uva, ed i meloni. E poiché le composte fatte a credenzieri debon servire per le mense dei grandi, per incontrare la piena soddisfazione di essi oltre il servirsi di buon gustoso aceto bianco mescolato con la quarta parte d’acqua salata, son da condirsi anche con erbe aromatiche come amenta, basilico, targone, maggiorana, timo, e qualche foglia di alloro, e cedro. Così possono esser di gusto.
Se si voglion servire con salsa, dopo ridotti a fettoline, la salza sarà la seguente. Semi di finocchio, poc’aglio, amenta, capparini, e alici salati, tutto ben fino pesto, si scioglierà con olio, e poco aceto. E se a qualcuno piace il dolce vi si aggiungerà, nelle cose da pestarsi, un pezzo di cedro candito.2

STORIE DI MARE

Il progetto nasce dalla necessità, riscontrata principalmente per dare voce ai nostri pescatori, di poter dare un valore aggiunto alle loro catture e non essere sempre considerati come PIRATI DEL MARE. Obiettivo principale del nostro progetto attraverso queste pubblicazioni è la promozione, pubblicità ed eco-sostenibilità della pesca e la valorizzazione dei prodotti campani. Lo scopo è quello di sensibilizzare sia gli esperti del settore, sia i consumatori finali sulle problematiche e le potenzialità delle produzioni ittiche legate al territorio per fattori naturali, per tradizione e per cultura; valorizzando la gastronomia ittica campana, rispetto alle produzioni maggiormente utilizzate nel consumo, e mirando alla diffusione di una maggior cultura di preservazione del bene comune e condiviso: “IL MARE”. L’Unci Pesca da sempre si pone come baluardo per la salvaguardia dell’ambiente marino, che avviene principalmente a mezzo dei propri pescatori che ben sanno di non dover sottoporre ad un eccessivo sforzo la pesca, in quanto passa per l’incentivazione di attività di diversificazione delle catture, ma di renderla economicamente sostenibile per l’impresa ittica.

Recensioni

1 review for IL GARUM del credenziere latino

  1. Valutato 5 su 5

    Arturo Bascetta

    Le tre qualità di garum: flos, castimoniale, sociorum

    Famose fabbriche non mancavano però a Pompei, Clazomene e Leptis Magna, tre luoghi da dove partiva il commercio di gari flos, un garum senza aggiustatura di condimenti, e di quello ottenuto alle scaglie, il garum castimoniale.11
    Il garum sociorum era invece un condimento in salamoia satura e veniva usato come digestivo e antiulcera, per curare dissenteria e mal d’orecchi, quindi come pozione medicamentosa ed infiammatoria sulle ferite, specie le ustioni, e contro la rabbia e la scabbia degli ovini. Aggiunge Columella nel De re rustica, che il garum era un ottimo rimedio contro la labes pestifera che colpiva mortalmente le cavalle, salvate con un 2/3 litri del disinfettante versato direttamente nelle narici degli animali. Una spezia artificiale, dunque, più che un condimento naturale, così potente da diventare medicina. In una delle sue lettere a Lucilio, Epistulae morales ad Lucilium, Seneca frenava sulla cattiva alimentazione e si scagliava contro l’abuso di sociorum garum, pretiosam malorum piscium saniem, cioè quella salsa straniera proveniente dalla Provincia, come accenna Plino, perché ricavata da una ricca e nutrita poltiglia di pesci fra cui i erano quelli andati a male.
    Da qui il dubbio partecipato a Lucilio se il rimedio non finisca col danneggiare l’intestino per via del suo piccante marciume: non credis urere salsa tabe praecordia?
    In Satyricon, Petronio, ricordava invece la luculliana cena offerta da Trimalchione, descrivendo un’enorme scenografia nel cui centro era adagiata una lepre gigante, con quattro caraffe ai lati dai cui otricelli colavano salsa di garum e pepe che innaffiavano il pesce così in maniera splendida da farlo sembrare vivo, come se guizzasse.12
    Evidentemente quella sostanza era così sublime da renderla preziosa, ma solo se realizzata al meglio: – Si usino pesci grossi come sardine e sgombri cui vanno aggiunti, in porzione di 1/3, interiora di pesci vari!
    Così tuonava Gargilio Marziale, secondo il quale bisognava avere a disposizione una vasca ben impeciata, da 30 litri. Sul fondo della stessa andava poi fatto un alto strato di erbe aromatiche disseccate e dal sapore forte come aneto, coriandolo, finocchio, sedano, menta, pepe, zafferano, origano. Su questo fondo erano disposti interiora e pesci piccoli interi, mentre quelli grossi andavano prima sminuzzati. Su tutto veniva steso del sale da formare uno strato alto due dita, ripetendo l’operazione alternando altri strati di pesce e sale fino all’orlo del recipiente.
    Così il procedimento: – Lasciare riposare al sole per sette giorni. Per altri venti giorni mescolare sovente. Alla fine si ottiene un liquido piuttosto denso che è appunto il garum. Esso si conserverà a lungo.13
    Gli ignoti autori delle Geoponiche aggiungono novità al processo di filtraggio. Cioè prima vanno messe nel recipiente le viscere di pesce e pesci a piccoli pezzi col sale e lasciate al sole, mescolando frequentemente, aggiungendo, volendo, del vino vecchio in misura del doppio del quantitativo di pesce.
    Poi però questa salamoia va filtrata in una cesta, dove rimane l’allec, che è la parte solida. Un procedimento che prevede l’utilizzo di molti recipienti e che ricorda la lavorazione dei cereali, ancor oggi in uso nel Vietnam e in alcuni Paesi orientali, dalla cui immersione e stagionatura in salamoia o similari si ricavano perfino dei pani per squisite zuppe di pesce.
    Per chi avesse fretta, l’asciugatura al sole, poteva essere evitata con la cottura rapida del pesce in acqua di mare, concentrata al punto che vi galleggiasse un uovo, in continua ebollizione fino a quando il composto non venisse a ridursi di volume da permettere la colatura. Gli ignoti, però, a dispetto di chi produceva il liquamen dalle alici, affermavano che il migliore garum restasse quello prodotto col sanguigno tonno. Si otteneva mescolandone interiora, sangue e siero, sopra cui si spargeva il sale, lasciando macerare la salamoia per due mesi. La storiella dell’uovo fa però pensare che gli ignoti possano aver scritto il procedimento in epoca molto tarda in quanto ricorda la conservazione delle olive, che si faceva ad ottobre, col frutto appena colto.14

    3. Garum: hallec (salsa) e liquamen (colatura)

    L’hallec era la salsa più usata dai Romani e la sua parte liquida era il liquamen. Il sapore del liquamen è simile al trito d’acciughe o al formaggio, per via della completa trasformazione della catena molecolare ottenuta dalla fermentazione per via naturale, processo chimico che favorisce la digeribilità. La pasta filtrata, l’hallec, era meno raffinata del liquamen di prima scelta, ché veniva commercializzato come eccellenza: è l’excellens che si commercializzava a Pompei da Anlus Umbricius Scaurus, oppure il flos flos che si otteneva anche dalle murene. La salsa più comune nel corso dei secoli fu comunque sempre quella ricavata dal pesce azzurro, cioè sgombri, sardine e soprattutto alici, sebbene meno prelibata, ma profumatissima e sapida, con la particolarità di poter essere prodotta ovunque ed in qualsiasi periodo dell’anno. Sulla carne cucinata al vino cotto e miele, oppure sul pesce, il garum era una specialità; veniva utilizzato sulle verdure, insieme all’uva passa, e perfino sulle uova, benché ai marinai bastasse spargerla sul pane. Idem facevano i contadini ell’entroterra, sebbene preferissero solo insaporire la fetta di pane con l’alice, che andava quindi conservata nuovamente.15

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Editorial Review

La spigolatrice di Sapri

 

 

 

 

...La pesca, oltre ad essere un lavoro faticoso, divenne un mestiere ben remunerato solo nel tempo. Ancora nel 1800, quello del pescatore, era uno degli impieghi più poveri, molto legato alle condizioni meteo e perciò ritenuto stagionale.
Il resto del tempo, quello libero, permetteva i ragionare, riflettere e far percepire i malumori della popolazione verso i regnanti. Ecco perché i pescatori accolsero a braccia aperte il vento di libertà, cavalcato da Mazzini, quello che spirava nel regno dopo la repressione della Repubblica Partenopea.
Leader dei pescatori fu senza dubbio un mazziniano, Carlo Pisacane, il quale, recuperato un po’ di soldi, mise su una spedizione per sommuovere le popolazioni del Sud. Partito da Genova, passato a liberare i prigionieri politici a Ponza, decise di attraccare a Sapri, luogo strategico fra Campania e Calabria, da dove sarebbe iniziata la rivolta contro i Borbone in attesa di rinforzi per poi marciare su Napoli. Perso il carico d’armi la prima volta per colpa di una tempesta, Pisacane non si scoraggiò e proseguì con un’altra spedizione finanziata da un banchiere livornese, a cui aderirono 20 partecipanti che sottoscrissero un documento sulla "propaganda del fatto".
Così il manifesto: - Noi qui sottoscritti dichiariamo altamente, che, avendo tutti congiurato, sprezzando le calunnie del volgo, forti nella giustizia della causa e della gagliardia del nostro animo, ci dichiaramo gli iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non risponderà al nostro appello, non senza maledirlo, sapremo morire da forti, seguendo la nobile falange de’ martiri italiani. Trovi altra nazione al mondo uomini, che, come noi, s’immolano alla sua libertà, e allora solo potrà paragonarsi all'Italia, benché sino a oggi ancora schiava.
La spedizione fu incoraggiata da molti pescatori che, saluti su alcuni pescherecci, si occuparono del trasporto delle armi. Ma fallì nuovamente per lo ‘scarso impegno del compagno Pilo’ che lasciò di fatto Pisacane senza le armi e gli attesi soccorsi. Pisacane, ancora una volta, non si scoraggiò e continuò per la sua strada. Senza cambiare piani, si impadronì della nave su cui viaggiava durante la notte e, con la complicità dei due macchinisti inglesi, prese le armi che erano a bordo, il 26 giugno sbarcò a Ponza dove, sventolando il tricolore, liberò ugualmente i 323 detenuti che lo attendevano, una ventina dei quali erano militanti politici, e li aggregò quasi tutti alla spedizione.
La sera del 28, appena ripartiti, erano già nel Cilento, nei pressi di Sapri, ma sbarcarono un paio di chilometri dopo, in contrada Oliveto, nel comune di Vibonati, come riportava la ‘x’ sulla mappa che fu rinvenuta addosso a Pisacane.
In 300 si misero in marcia per un giorno intero per raggiungere Casalnuovo (ribattezzato in Casalbuono), dove furono accolti dalla popolazione festante che gli diede però la brutta notizia di essere stati condannati a morte. Ma la marcia proseguì sulla via per Napoli. La sosta successiva fu quindi a Padula, dove si incontrò con i settari mazziniani i cui capi erano stati da poco arrestati. Pisacane fu ospitato nel palazzo di un simpatizzante rivoluzionario, Don Federico Romano, il quale, pur contento, non mancò di invitarlo a rinunciare all'impresa, considerata troppo improvvisata, perché le popolazioni non rispondevano alla rivoluzione dei ‘carcerati’.
Nonostante ciò Pisacane proseguì per la sua strada, liberando i galeotti di Padula e assaltando le case dei nobili, mentre veniva contrastato dai ciaurri, fedeli del Re, pronti a sobillare i contadini contro i ribelli. Il male peggiore fu l'arrivo dei gendarmi borbonici e del VII° Reggimento dei Cacciatori che costrinse tutti a ritirarsi nell'abitato di Padula dove, tra le urla e gli spari provenienti dalle finestre delle case e dagli angusti vicoli, morirono 53 rivoltosi. Gli altri, per un totale di 150, vennero catturati e consegnati.
Pisacane fuggì per le campagne e si nascose a Sanza, vicino Buonabitacolo, ma fu considerato un brigante più che un politico e perciò, contrastato dal parroco Don Francesco Bianco, all’alba del 2 luglio si vide il paese addosso, accorso al suono delle campane a distesa in atto di segnale il pericolo. Tutti i ribelli furono aggrediti e massacrati a colpi di roncola, pale e falci, 83 dei quali ci rimisero la vita, fra cui lo stesso Pisacane e l’inseparabile Falcone, mentre gli scampati furono processati. Condannati a morte, ebbero poi la grazia da Re Ferdinando II, che tramutò la pena in l’ergastolo, salvando anche i due macchinisti britannici per infermità mentale. Il Nicotera, gravemente ferito, portato in catene a Salerno per l'intervento del governo inglese, sarà poi liberato da Garibaldi e fatto onorevole.
Pisacane invece pagò con la vita. Le cronache parlano di un mazziniano convinto del sacrificio senza speranza di premio, che fosse cioè da esempio per stimolare gli altri all’azione rivoluzionaria per una società libera ed equa.
Così nel suo diario: - Ogni mia ricompensa io la troverò nel fondo della mia coscienza e nell'animo di questi cari e generosi amici... che se il nostro sacrificio non apporta alcun bene all'Italia, sarà almeno una gloria per essa aver prodotto figli che vollero immolarsi al suo avvenire.
La sfortunata spedizione di Pisacane, che servì a formare i giovani repubblicani protagonisti della fine del Regno, non ebbe il meritato seguito, ma venne ricordata dai contemporanei nei versi della Spigolatrice di Sapri, composti alla fine del 1857, in pieno regno. E’ una poesia che narra la sfortunata spedizione di Carlo dalla bocca di una contadina intenta a spigolare. E’ il canto della della donna che accolse a braccia aperte Pisacane subito dopo lo sbarco quando, fanciulla e speranzosa, se ne innamorò senza mai smettere di tifare per l’impresa dei trecento temerari fino al massacro.

Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti!

Me ne andavo al mattino a spigolare,
quando ho visto una barca in mezzo al mare:
era una barca che andava a vapore;
e alzava una bandiera tricolore;
all'isola di Ponza s'è fermata,
è stata un poco e poi si è ritornata;
s'è ritornata ed è venuta a terra;
sceser con l'armi, e a noi non fecer guerra.

Sceser con l'armi, e a noi non fecer guerra,
ma s'inchinaron per baciar la terra,
ad uno ad uno li guardai nel viso;
tutti aveano una lagrima e un sorriso.
Li disser ladri usciti dalle tane,
ma non portaron via nemmeno un pane;
e li sentii mandare un solo grido:
«Siam venuti a morir pel nostro lido».

Con gli occhi azzurri e coi capelli d'oro
un giovin camminava innanzi a loro.
Mi feci ardita, e, presol per la mano,
gli chiesi: «Dove vai, bel capitano?»
Guardommi e mi rispose: «O mia sorella,
vado a morir per la mia patria bella».
Io mi sentii tremare tutto il core,
né potei dirgli: «V'aiuti 'l Signore!»

Quel giorno mi scordai di spigolare,
e dietro a loro mi misi ad andare.
Due volte si scontrar con li gendarmi,
e l'una e l'altra li spogliar dell'armi;
ma quando fur della Certosa ai muri,
s'udirono a suonar trombe e tamburi;
e tra 'l fumo e gli spari e le scintille
piombaro loro addosso più di mille.

Eran trecento, e non voller fuggire;
parean tremila e vollero morire;
ma vollero morir col ferro in mano,
e avanti a lor correa sangue il piano:
fin che pugnar vid'io per lor pregai;
ma un tratto venni men, né più guardai;
io non vedeva più fra mezzo a loro
quegli occhi azzurri e quei capelli d'oro.

Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti! ....