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Quel ragazzo partito da Montemiletto (Av)
Francesco Guarente morì lasciando moglie e due figli, Frank jr e Lina, nella casa di New York. Era il 21 luglio 1942. Di lì a poco, dopo gli ultimi successi del 1946, con il maestro Tufilli alla direzione artistica, anche la banda di Montemiletto avrebbe concluso il suo iter. Quasi fosse esistito un sottile filo armonico, un legame inscindibile fra la madre banda che lo aveva generato e il suo pupillo Frank.
Dopo gli ultimi fuochi del 1948 e del 1949 col maestro Aufiero, la banda di Montemiletto chiudeva i battenti nella stagione del 1950-1951 sotto la guida del maestro Minervini. Terminava un’epoca di grande cultura musicale che aveva avuto per protagonisti emigranti del nostro Sud, come nel caso di Francesco Saverio Guarente, figlio dell’umile barbiere di Montemiletto, oggi riconosciuto fra i precursori del genere jazz nel mondo (Red Norvo, Dance Crazy; Peter Vacher, idem, October 1993; Murray L.Pfeffer, British BigBands Database).
A lui abbiamo dedicato questo primo lavoro che apre a mondi sconosciuti dalle nuove generazioni, o forse solo dimenticati dalla nostra. Da qui moltiplicarsi non solo del jazz, ma anche di filastrocche, poesie e nenie; ed ecco i nostri studi su una diversa canzone, magari che diventa sceneggiata, ma pur sempre frutto di una emigrazione che ebbe per protagonista gente senza volto, magari destinata a non avere storia, se fosse rimasta inerme, in paese.
Elementi che portarono tanta cultura dalla musica alla cucina, alla vita di tutti i giorni, ritrovandosi interi paesi a macchia di leopardo che si differenziano per dialetto, pietanze, usi e costumi legati al ciclo dell’anno e della vita e, oggi sappiamo, tanto delle emigrazioni, quanto delle migrazioni.
Ed ecco altri valori aggiunti, le canzonette, l’organetto, la diffusione della lavorazione della mozzarella, delle salsicce, delle zuppe, diventano tutti elementi che entrano a pieno titolo nella napoletanità, che coloriscono e rallegrano la vita e poi i ricordi di quando, gli emigranti, sfidarono l’Oceano.
Eppure da quelle musiche dei neri, così popolari, ingenue, o dall’etnia carsica quanto ungherese delle popolazioni arberesh, dai sapori meridionali quanto armeni, ecco sprigionarsi la sete di libertà. D’improvviso il lavoro nero diventa riscatto sociale di una intera nazione, del mondo nuovo, che tutto macina e coinvolge, e trasforma dei giovani cantanti popolari in elemento di studio e finanche di denuncia sociale per le precarie condizioni di lavoro, di fame, di sfuttamento di chi era partito per inseguire il sogno americano e si era ritrovato scaricatore di porto a vita.
La musica di Frank Guarente o le canzoni di Alfredo Bascetta e Gilda Mignonette diventano quindi denuncia, un giornale vocale a cui dare fiato; un brano che diventa teatro, sceneggiata, ma per effetto della stessa doglianza, è il riscatto della fascia sociale debole (più che puro divertimento): è l’arma di una intera generazione napoletana che voleva un nuovo mondo non solo sulla carta.
Furono questi i motivi, ma non solo, che spinsero tanta gente ad attraversare l’Atlantico. Da qui lo scontro con la politica, con la polizia, che porterà ad una denuncia sempre più aspra, fomentata dalla stessa repressione, che fece così tanta paura agli americani da spingerli a combattere quelle orde socialiste e comuniste, arrivando a giustificare la successiva oppressione fascista, appena in nuce.
Era quella che va sotto il nome di «Paura Rossa», quella stessa fomentata dagli articoli di Gino Bardi, altro grande irpino-sannita, giornalista, ed editore di elevato spessore. Non canzonettisti o macchiettisti da attore, come gli italiani vedevano da sempre i napoletani, ma figli di una patria non loro, l’America, dove essi usarono astuzia e intelligenza, più che vittimismo. Dove le loro uniche armi furono un giornale o un pentagramma. Sciabolate che divennero più letali di quelle della polizia, che seminò odio e fomentò quella stessa lotta che si voleva reprimere. Fatti di sangue che portarono poi all’arrestò ingiustificato di Sacco e Vanzetti con l’infamante accusa di anarchìa, rispetto a quelle bandiere rosse che invece rappresentavano la voce del popolo. Cose che gli americani non vollero capire e che, anzi, utilizzarono come capro espiatorio, alimentando il terrore con la pena di morte.
Frank Guarente rappresenta l’emigrante che ce la fa non solo per il riscatto sociale ottenuto, quanto per la capacità di aver infranto lo scoglio della musica ad orecchio, del limite umano, della linguaggio dei neri, della lingua degli americani, del dialetto di Montemiletto, dimostrando al mondo intero la grandiosità del Jazz come forma di comunicazione, di alleanza, di rispetto fra i popoli, di eguaglianza di razza, per colore della pelle, colore politico, colore di vita.
Arturo Bascetta –
A Montemiletto la si sentiva suonare praticamente sempre: 24 maggio, 26 luglio, 16 settembre, 7 maggio, 25 maggio, 5 giugno, 24 giugno, 2 luglio, 24 agosto, 20 settembre e 12 settembre, oltre i giorni di festa obbligatori, come Natale e Pasqua.
Dalla località San Nicola ai Landolfi, da Sant’Angelo a Festola, ai Caponi, a Serra: vivere in paese era una gioia se passava la banda. E l’euforia continuava anche quando c’erano solo le fiere di Sant’Anna e dell’Addolorata e da Montaperto, Fontanarosa, Luogosano, e da altri paesi del circondario, giungevano i carri carichi di bestiame per la vendita.
Vitelli, agnelli e maiali: le contrattazioni erano aperte. I vitelli di Montemiletto, paese che già aveva il primato per la produzione di cereali, erano così pregiati da gareggiare con la razza romagnola, per via dei prati naturali ed artificiali, abbondanti e nutritivi da poter allevare il bestiame con la razionalità e le cure necessarie al miglioramento delle razze locali.
I giornali di Avellino, con interesse, pubblicizzavano l’agricoltura e la pastorizia irpina. Per la fiera dell’Addolorata, a fine settembre (altri parlano di inizio giugno), i bovini più giovani venivano acquistati per completare l’allevamento nell’inverno ed apparecchiarli per le fiere di primavera. Allo stesso modo si acquistavano i maiali per l’ingrasso (che diventavano condimento da provvista per i consumatori), e i cavalli, in vista della vendemmia, specie in quelle annate in cui le vigne erano floride ed ubertose.
Una vera gioia, le fiere di provincia, anche perché si montavano le tradizionali baracche dove si esponevano tessuti per il vestiario, si negoziavano pollami e si vendevano panini. «Anch’io ricordo il pane fatto in casa, quando veniva Maria Iantosca – scrive Baldassarre -, la figlia del colono di Montefalcione. Accorta, silenziosa, esperta, sistemata. Zia Elvira, Zia Assunta e mia madre predisponevano tutto. Maria iniziava con l’impasto, poi con la tovaglia copriva. Il mistero della lievitazione. Il canto. Tutto al riparo dalle correnti. Maria con le fascine di legna riscaldava il forno. le fiamme davano calore e colore. La cottura. Restava fuori dal forno ‘o lumariello’. Io seguivo le operazioni. Le panelle uscivano dalla bocca del forno intensamente dorate. Il profumo invadeva la casa. Un’altra memoria ‘Ntonio ‘o Russo’ (Antonio Iantosca) portava il grano a casa mia e lo depositava nel cascione situato nel ‘monazeo’. io mi andavo ad immergere in questo mare di grano. Questo saggio contadino Antonio Iantosca mi confida: tra me e tuo padre non c’era il tierzo, non c’era il contratto di mezzadria. Io coltivavo la terra e tuo padre diceva: ‘se ti resta qualcosa di cui non hai bisogno, se vuoi puoi darmelo’. Questo era la buonanima di tuo padre; io nel camposanto lo vado sempre a trovare. Allora le strade non erano asfaltate. Quando la macchina non poteva raggiungere la casa dell’ammalato io l’accompagnavo con la ‘iummenta’ per la visita. ‘E’ stato u mierico di tutti. A qualunque ora e senza soldi’. Questa era un’altra civiltà: quella del pane». E accanto al pane c’era la carne, di agnello e di maiale. «La storia del maiale è antica. Maialis deriva forse da Maia, la dea a cui era sacrificato. Un animale questo che presenta ambiguità simbolica e diabolica, basti pensare alla maga Circe che nell’Odissea trasforma gli uomini in porci. Nella cultura cristiana il maiale è simbolo del vizio, dell’avidità. Infatti questa bestia non fa in tempo a mangiare una ghianda che immediatamente ne desidera un’altra. Nella parabola dl figliuol prodigo il giovane è costretto a svolgere l’attività di guardiano di porci, dopo aver dissipato i suoi beni. Nell’iconografia occidentale del medioevo, s.Antonio Abate è vestito da eremita con un bastone. Accanto c’è un maiale e un diavolo ai suoi piedi».10
«Quale attributo di S.Antonio invece allude alle presunte proprietà del lardo che si ottiene dall’animale. Si pensava infatti che il lardo fungesse da antidoto al cosiddetto ‘fuoco di S.Antonio».11
E’ dalla fine del XII secolo che il maiale si lega dunque all’immagine di S.Antonio abate. E sotto la protezione di questo santo, gli animali sono alimentati a spese della comunità.
Il 17 gennaio, festa di S.Antonio abate, riaffiora la simbologia della tradizione: l’accensione dei falò dà inizio al carnevale. Simbolo di questa festa è il porco. Salsicce e sanguinacci condensano i piaceri della carne, ma dopo l’eccesso la penitenza della Quaresima, l’animale è soggetto alle leggi della Chiesa e delle altre istituzioni.
Roberto d’Angiò re di Napoli, concede con editto del 1313 ai maiali di S.Antonio il diritto di attraversare strade, piazze e vicoli. Questa bestia così nella cultura medievale si identifica con il passaggio e con la selva. Ma l’uscita della bestia dal bosco rappresenta una limitazione di spazi determinando una frattura con la tradizione.
La separazione del maiale dalle comunità si è andata man mano sempre più accentuando. Pavese ne La luna e i falò scrive che «quando si ammazza il maiale, donne e bambini vengono allontanati dal massacro, la macellazione avviene cruenta senza testimoni».12
Anche lo scrittore irpino coglie la relazione dell’animale con la comunità, che si è andata disgregando. Nazzaro sottolinea il soccorso materiale di sussistenza, fornito dal maiale alla miseria del Sud: «Le notizie che giungono da Potenza e Matera parlano di neve alta due metri… là cade interrottamente da novembre a febbraio, talvolta fino a maggio. “E la gente come fa?” Chiedono i Colleghi. “Provvede col porco. Il porco è la renna della Basilicata” …Nelle case dove si lacrimava per il fumo che il vento ricacciava dalle canne del camino, il lardo crepitava nelle padelle infondendo calore e speranza… Ad allevare l’animale che li salvava dalla fame e dal gelo, gli abitanti di Trevigno cominciavano dall’inizio della primavera. Le querce s’erano appena tolta di dosso la neve e le siepi non accennavano ancora a fiorire, che già la donnetta sollevava fra le braccia il porcellino acquistato al mercato, dopo lungo patteggiare e se lo portava, stretto al petto, nella terra lontana, alta sui monti. Qui zappando, sarchiando o seminando, la donna trovava sempre modo di accorrere presso quel piccino che, crescendo e ingrassando, l’avrebbe tenuta lontana dai morsi dell’inverno».13
Nazzaro, come i grandi pittori, umanizza il mondo animale e vegetale e identifica queste due realtà con le stagioni. Simboli, miti e riti si fondono: “L’allevamento del maiale era un rito. L’animale veniva su roseo o bruno, florido e giocondo, e la padrona se lo guardava con tenerezza, aspettandosi le lodi del vicinato o del passante per la felice crescita, e le stesse lodi ricambiava alle vicine di casa. Com’è bello, santo Martino!. Ca lu cresca bello pure a te, santo Martino!. Il forestiero “rimaneva sorpreso dinanzi all’incredibile numero di porcellini vaganti, che usciva ed entrava nelle case, o si beavano nelle case, e per far piacere a quelle donne azzardava anch’egli qualche lode: Com’è bello… Con le ghiande dei boschi e la protezione di S.Martino, il porcello si irrobustiva, a sua volta sempre a cercare, a scavare, a rosicchiare, a integrare le provvide cure d’amore della padrona. Prima del supremo olocausto, erano riservati all’animale giorni ineffabili di letizia e di doni gastronomici. Dall’aprile ad ottobre, il porcello era cresciuto, però ancora troppo magro ed asciutto, un cinghialotto, e bisognava provvedere al lardo per l’inverno che avanzava a grandi giornate. ..