PROLOGO.
LA RIVOLTA DI TOMMASO ANIELLO SORRENTINO
CONTRO IL TRIBUNALE DELL’INQUISIZIONE
Miccio titola la narrazione «Rumori di Napoli per conto dell’Inquisizione». A dire di Giannone ne scrisse anche il Foglietta, genovese di patria, autore di una elegante narrazione in latino, intitolata «Tumultus Neapolitani sub Petro Toleto» e riportata nella Raccolta degli Storici Napoletani del Grevier, tom. VI.
Il testo appare come un compendio ai fatti dei «nostri scrittori napoletani, i quali trovaronsi presenti, e furono in mezzo di quegli affari, e li trattarono con pericolo della vita e perdita delle loro robe». Parole che a dire del Palermo, Giannone riprese dal Miccio, «come si vede: e già intorno al Toledo, fatti e parole e giudizii, buoni o cattivi, tutto in prosieguo, come per lo innanzi, copia Giannone da esso Miccio; a cui unicamente accennò con quei nostri scrittori napoletani: e intanto, non lo ha citato una sola volta!».
Ne abbiamo riportato i passi salienti e confrontati con il Ns Anonimo.
1. Il capo-rivolta di popolo e nobili? Tommaso Sorrentino
Più di un cronista trattò la sommossa del 1547. In particolare il Miccio attribuì i rumori di Napoli essere quasi il prosieguo delle rivolte cominciate in Alemagna.
Cosi’ Miccio: — In quel medesimo tempo che incominciorno queste revoluzioni in Alemagna, nacquero ancora terribili rumori in Napoli. Li quali, essendo stati scritti da alcuni altrimente di quel che furono, fidandosi nella relazione altrui, arrecono biasmo, or del Vicerè e or della Città; essendo l’uno e l’altra non solamente fuori di biasimo, ma ancora degni di eterna lode; avendoli con la loro prudenza acchetati, senza offensione di Dio, dell’Imperatore, e del ben pubblico di quel Regno: contrastando, con il loro animoso giudizio, al crudel aspetto di Saturno in capricorno e sagittario, e di Marte con la coda del dragone in gemini, e de la Luna ecclissata nel scorpione; che, secondo predissero gli astrologi, avevano da producere incendii e distruzioni di città: siccome quell’anno successe a molte città d’Europa. Sia dunque concesso a me, che l’ho veduti dal principio al fine, e trattati con pericoli della vita e perdita della roba, narrar la verità, incominciando l’istoria dalla sua propria origine; che sarà principio chiaro e manifesto, e questo e quello.
A suo dire Napoli sbottò perché «l’eresia luterana in quel tempo avea occupato tutta Lamagna, Inghilterra, Boemia, Frigia, Svizzeri e parte di Francia, e incominciatasi a distendere segretamente per tutta l’Italia: e già in Napoli erano molti segreti eretici, uccellati da fra Bernardino Ochino, da Pietro Martire, da Valdes Spagnolo, e da altri predicatori; che, come di sopra è stato detto, cominciavano a seminare tale eresia in Napoli. Per lo che, Papa Paolo III, con intelligenza dell’ Imperatore, mandò Commissarii dell’ Inquisizione per tutte le provincie d’Italia; i quali furono accettati, con condizione che procedessero per via ordinaria; cioè con manifestazione di testimonii, e senza la confiscazione della roba. E dicono che, nel medesimo tempo, l’Imperatore tentò di metterla in Fiandra: ma perchè tutta si disabitava per fuggir così dura legge, si contentò di levarlà».
Secondo alcuni pare che lo stesso Carlo V «avesse scritto al Vicerè, che se avesse potuto introdurla nel Regno di Napoli senza alterazione de’populi, che lo facesse ; e che il Vicerè, da sè stesso ancora, da molto l’aveva già pensato di fare, per estremo rimedio di quella ruina: ma perchè sapeva che l’Inquisizione era molto in odio a quel Regno, e che più volte era stato tentato dalli Vicerè passati d’introdurla, e che non furono mai bastanti a farlo, si riteneva di parlarne».
Così Miccio: — E stando in questo, li fu presentato il breve del Papa dal Commissario dell’Inquisizione: del che il Vicerè venne in gran travaglio di mente; imperochè, dall’una parte, li pareva essere costretto di obbedire al breve del Papa e alla volontà dell’Imperatore; e dall’altra, giudicava essere cosa pericolosa di acquistare appresso l’Imperatore odio universale di tutto il Regno, in quel tempo che il Re di Francia si apparecchiava per racquistarlo, e che, a sua richiesta, l’armata turchesca si aspettava per quelle marine: e sapeva bene, che quel Regno per nessuna altra cagione averia fatta revoluzione, se non per conto della Inquisizione; e per questo si ritenne certi giorni di non farne parlare. Ma, a l’ultimo, sollecitato strettamente dal detto Commissario, ne fece parola nel Consiglio Collaterale: ove fu decretato, che se li dovesse prestare il braccio secolare; e che in questo ragionevolmente la Città non si poteva rammaricare del Vicerè, poichè veneva dalla provisione del Papa.
Commenta Palermo che «il papa avea concesso l’editto dell’Inquisizione, intercedendolo il Cardinal di Burgos il quale era mosso dal Vicerè. E non mancarono alcuni poi di dire, che Paolo III pontefice massimo, prieghi del cardinal di Burgos, fratello del Vicerè, avea concesso quell’editto tanto più volentieri, quanto che giudicava da quello doversi cagionare alterazione ne’ popoli del Regno, odiosi dell’ Inquisizione: e questo per odio occulto verso l’imperadore, per cagion della morte di Pier Luigi suo figlio».1
Così Miccio: — Ma volse il Vicerè usare un’atto d’amorevolezza verso la Città; e questo fu che, chiamatosi gli Eletti, li palesò il breve, e volse che lo facessero vedere e considerare dagli Avvocati della Città; li quali, indi a pochi giorni, risposero, che essi non potevano lasciare di obbedire al Papa, come che era giudice competente in quella causa; ma che non consentivano per modo alcuno, che si procedesse all’usanza di Spagna. Onde il Vicerè concesse il braccio secolare; e non volse che si pubblicasse per la Città con trombe nè con prediche, ma solamente per cartone affisso nella porta dell’arcivescovato; per timore di qualche sollevamento di populo. E più, ordinò a Domenico Terracina, allora Eletto del popolo; e ad alcuni altri officiali della Città, di che egli si fidava; che dovessero con dolci parole persuadere alle loro Piazze a star quieti sotto quella provvisione, poichè non era fatta ad uso di Spagna.
Ma, con tutta quella diligenza, subito che si sparse fama che il Vicerè aveva consentito a tal cosa, si turbò il tutto, a modo del mare turbato da contrarii venti: onde nacque un terribile tumulto; e senza rispetto biasimavano e maledicevano il Vicerè, che l’avesse sottoposti all’ Inquisizione per rovinargli affatto. Furono fatti molti consigli nella Città sopra di ciò, e furono creati Deputati; alli quali fu ordinato, che non attendessero ad altra cosa che a procurare che l’ officio dell’Inquisizione si discacciasse dalla Città: e quelli attendevano a farlo maturamente, tenendo mira a non incorrere in qualche specie di ribellione. E, con ogni sommissione, andorno dal Vicerè, pregandolo che li levasse da sopra quella dura legge della Inquisizione; chè, altrimente, sarebbe un annichilar tutti li beneficii che egli per lo passato avea fatto. Rispondeva il Vicerè a questo, dicendo che non era volontà dell’Imperatore nè sua di mettere Inquisizione: ma che il Papa per moto proprio lo faceva; acciò che, se quella Città fosse in qualche parte contaminata d’eresia, se ne avesse da purgare; e non essendo, se ne fosse con questa paura preservata e che egli non potea, con buona conscienza, non prestarli il braccio secolare. Tornando li Deputati con questa risposta alla Città, fu fatto più volte conseglio; e fu determinato che non si accettasse l’Inquisizione, ancorchè il Vicerè li promettesse non volerla mettere all’ usanza di Spagna; tenendo ognuno per certo, che il Vicerè dissegnava d’ingannarli. Onde fu determinato che li Deputati dovessero tornare al Vicerè; con dirli che essi, con ogni riverenza del lor Principe, avevano determinato di contrastare sino alla morte, che non s’ introducesse nella loro patria l’Inquisizione, nè dell’ una nè dell’altra maniera: e facendoli i Deputati questa imbasciata, il Vicerè rispose, che si meravigliava di questi loro motivi, poichè li giorni poco avanti si erano contentati di obbedire alla provisione del Papa; e che egli già l’aveva detto, che non voleva mettere altra Inquisizione di quella. Fu uno di quelli che ebbe ardire a dirli: « Signore, la Città dice, che ancorchè Vostra Eccellenza la voglia mettere, ella non la vôle consentire »; del che il Vicerè ne prese ira, e licenziolli mal soddisfatti. E tornati alla Città, furono causa di molto maggiore rumore e sollevamento del popolo; e tutti corsero contro Domenico Terracina, allora Eletto del popolo, e l’altri sospetti; con dirli, che se l’intendessero col Vicerè ; facendo émpito di volerli occidere nelle loro proprie case. Il Vicerè subito venne a Napoli, alli 11 di Maggio, per vedere di racquetarli ma nel di seguente, Don Geronimo Fonseca, all’ora Reggente della Vicaría, fece chiamare (Per ordine del Vicerè, dice il Castaldo) tutt’ i Capitani delle Piazze in Vicaria, e cominciò ad esaminarli ; e licenziati gli altri, ritenne prigione Tomaso Aniello, della Piazza del Mercato. Per lo che, la Città se mise in romore e mandorno il Principe di Bisignano al Vicerè, che volesse fare liberare il detto Tomaso Aniello, Sorrentino: lo che ricusando, il dì seguente vi andorno tutti li Eletti e li Deputati, protestandosi che lo liberasse; altrimente, si escusavano d’ogni scandalo che di ciò soccedesse. E in quel mezzo, fu incontrato il detto Don Geronimo nell’ Incoronata da molti nobili e popolari; li quali lo ritennero dentro Santo Joacchino, con dirli che li dovesse restituire il priggione; altrimente, la cosa andava a male termine: e così fu restituito il prigione, e relassato il detto Don Geronimo. Il Vicerè dissimulò, e se ne ritornò a Pozzuolo».2
Commenta il Palermo che «gli abitanti della città di Napoli eran distinti in nobili e popolo, oltre la plebe: il popolo avea i suoi proprii uffiziali, che eleggeva da sé, dai quali era rappresentato e guardato: si divideva in ventinove parti, che qui l’a. chiama piazze, dalla piazza in cui ogni parte si radunava, e che gli antichi dicevano oltine, dall’eleggere ognuna otto uomini al suo governo. Ora ciascuna oltina o piazza avea il suo capo, col nome di capitano. I nobili, come abbiam mostrato al suo luogo, aveano altra distinzione e altri nomi».
E sul «Masaniello» di un secolo prima, aggiunge che «questo Tommaso Aniello Sorrentino era della piazza del Mercato; e costrinse il Capitano della sua piazza a dichiarare, per atto di notajo, di non voler inquisizione. Chiamato dinanzi a’ giudici, si presentò con molto seguito di nobili e popolani: i giudici impauriti, dopo una finta disamina, lo consegnaron libero al marchese Ferrante Carrafa, il quale era assai in grazia al popolo. Costui lo prese in groppa del suo cavallo, e lo portò mostrando per tutte le piazze, e poi lo condusse a casa sua. È maraviglioso che, nel seguente secolo, un altro Tommaso Aniello, plebeo della medesima piazza Mercato (creduto erroneamente di Amalfi, laddove era il suo casato Amalfi), che quest’altro Tommaso Aniello abbia avuto, simile al primo, tanta popolarità da muovere o farsi capo di una sollevazione di non picciol conto.
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