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RE ALFONSO I DI NAPOLI: TENEREZZE DI UN MAGNANIMO
Lungi dalle intenzioni di noi tutti tracciare un profilo su Alfonso I d’Aragona, conosciuto come il Magnanimo. Questo testo vuole però contribuire a dare il giusto valore alla personalità del reale tanto amato per le sue virtù.
Lo fa rispolverando qualche parabola del sovrano, a tratti intrisa di classicismi, a volte pregna di sarcasmo, ma sicuramente degna di un Re di tal portata. Per questo lo arricchisce l’appendice dedicata alle parabole alfonsine celebrate da uno storico come Domenichi.
L’attenzione è tutta volta a un viaggio interiore, che scruta l’animo di un sovrano, volto alla bellezza e al bello delle cose, amato dalle donne, ma al quale, non sfuggì naturaliter una vera storia d’amore per il suo paggio, elevato a cavaliere, e perfino a nobile possessore terriero, sia per lo splendore del corpo, che per la dolcezza dei suoi modi gentili, propri delle persone che si lasciano amare. Ma a Re Alfonso, a dire di pochi, benché sottaciuto da molti, Gabriele Curiale, era piaciuto in carne e ossa, così come gli apparve, restandone rapito fin dal primo giorno, alla sfilata d’onore dell’entrata in Napoli, folgorato dal luccichìo del carro trionfale.
Quel giorno il corpo di quel paggio divenne per lui un miraggio da vivere, da preservare, da osservare, ogni qual volta ne sentisse l’esigenza; e da amare, al punto da essere considerato un pezzo della propria vita, da cambiargli perfino il cognome di Curiale in Correale, perché Gabriele fu questo: un core-reale, il cuore del suo Re.
Non che si abbiano notizie concrete di altri amori maschili del sovrano, ma alcune spie dell’amore esteso ai suoi sudditi si ritrovano negli scritti a lui dedicati, a volte confondendo l’attento lettore, essendo sempre circondato da giovani e poco da donne, fermo restando il suo grande amore per Lucrezia d’Alagno, che andrà a soppiantare tutti gli altri del ‘giovanil’ furore del neofita.
Che il sovrano fosse attratto anche dalla bellezza maschile, insomma, sembra svelarlo lo stesso biografo Domenichi.
Solo che, volontariamente o involontariamente, egli indica nei suoi scritti tante debolezze umane, in cui traspare da una parte un frenetico amore per i deboli, i povero, gli ammalati, gli emarginati, insomma quasi francescano, e dall’altro l’essere circondato da stretti cavalieri, ritenuti di famiglia, ma spesso ragionando d’amore e di risentimento. Al sovrano insomma non dispiaceva circondarsi d’affetto perché «navigava il Re venendo di Sicilia, e aveva seco alcuni favoriti, che s’avea preso in compagnia; i quali avevano per usanza la mattina d’andare a far riverenza al Re sulla poppa».
E quando s’assentava dal gruppo lo faceva da innamorato della vita, «dove stando egli una volta per un gran pezzo a guardare certi uccellini marini, che volavano intorno alla galea, aspettando che cadesse qualche minuzzolo in acqua, e qual di loro lo pigliava, prestamente se ne fuggiva con esso in bocca, il Re avendo ciò veduto, si rivolse a color ch’eran seco».
E disse: – Simili a questi uccelli sono alcuni favoriti et cortigiani miei, i quali subito che hanno avuto da me qualche ufficio o benificio, mi volgon le spalle.
Né mancavano gli scatti d’ira che appaiono atti morbosi fra giovani, come per il possesso di una tazzina dove egli aveva bevuto. Emblematico l’episodio dello scudiere che appare ingelosito e vendicativo all’arrivo del poeta palermitano Giovanni Aurispa (1394-1471). «Essendo il Re gravemente ammalato di febbre, e andando l’Aurispa uomo vecchio, e molto dotto a visitarlo, subito comandò che fosse messo in camera; e qui ragionò molto a lungo con esso lui di lettere, e di cose gravi e importanti. Aveva il Re comandato che la tazza dov’egli havea bevuto fosse data a un nobilissimo giovane, che aveva nome Guasparri; ma il Pirretto, scudiere nemico di Guasparri, benché gli fosse stato detto due e tre volte, non gliela voleva dare. Onde il Re sdegnato si levò sù, e messo mano al pugnale, raggiunse Pirreto che s’era messo a fuggire. E avendolo già preso, per non ferirlo nel mezzo della collera, trasse via il pugnale».
La pietà per quel corpo nudo rinvenuto privo di vita sulla spiaggia appare quasi il frammento di un discorso amoroso, con uno sconosciuto, e per questo mai nato: «essendo il Re all’assedio di Pozzuoli, e andando ogni dì a spasso lungo la spiaggia, trovò il corpo morto d’un Genovese tratto fuori da una galea dei nemici, e gettato sulla riva. E come l’ebbe veduto, subito scese da cavallo e, fatto scendere anche tutti coloro chr erano qui appresso, ad alcuni commise che facessero una fossa, ad altri che vi coprissero dentro il corpo ignudo. Ed egli, avendo fatto una croce di legno di sua mano, gliela piantò sopra il capo».
Come eccessivamente francescano è l’episodio dell’amore puro nutrito per i poveri affamati di Gaeta, inviati all’esercito nemico dai parenti: «assediava molto ostinatamente il Re Alfonso Gaeta, talché i cittadini, per la grandissima fame, che c’era lì, furono costretti a cacciare fuori i fanciulli, le donne, e tutte le bocche disutili. I quali essendo usciti fuori dalle mura, per passati un poco innanzi, furono costretti poi fermarsi: percioché quelli della città a colpi di sassate li facevano star distanti, ma essi non s’assicuravano neanche d’entrare nel campo nemico del Re. In questo mezzo si poteva vedere quella misera moltitudine scoperta a un tempo ai colpi dei cittadini, e dei nimici; i pianti dei padri e dei figliuoli, i quali si raccomandavano alla fede misericordia del Re, e dei suoi, e in questa erano balzati, pinti, feriti, et morti: allora il Re commandò a suoi soldati che non facessero loro dispiacere, e fece radunare i suoi consiglieri, i quali quasi tutti consigliarono, che non si dovessero accettare, perché se morivano di ferro o di fame, la colpa e il biasimo era dei loro cittadini, non del Re, ne degli buomini suoi. E vi fu anche chi disse che per ragion di guerra non si dovessero rassicurare, perciò che ella obbliga gli assediati, che hanno carestia, a mandare fuori della città le bocche disutili, e per contrario, a coloro che assediano, affinché non li accettino a patto alcuno, ma piuttosto li scaccino. Erano i suoi consiglieri tutti rivolti verso il Re, aspettando con grandissimo desiderio la sua risoluzione».
Disse allora il Re: – Io uoglio piutosto non hauer mai Gaeta, ne i Gaetani, che cosi vituperofamente e crudelmente vincere: io combatto con gli huomini, non con le donne et co’ fanciulli.
Alfonso appare come un sovrano moderno, che ripudia il sangue e la vendetta, che alle guerre preferisce per certo la pace nel mondo. Egli quasi si commuove davanti a quelle che in genere, per un uomo d’armi, sono battaglie quotidiane da affrontare, non da evitare.
«A un amico e familiare suo, il quale confortava il Re, che mentre egli poteva attendesse a pigliarsi piacere, e darsi del tempo, e non mettesse la sua persona in tanti pericoli, rispose che, come meritamente quegli antichi e savi Romani avevano edificato il tempio della Virtù, congiunto con quel dell’Onore, dove niuno poteva entrare, se non per il tempio della Virtù; accioché gli uomini conoscessero, che non si può salire al colmo d’honore per la via dei piaceri, la quale è piena di delizie e di morbidezze, ma per quella della virtù, che è malagevole e aspra».
Le parabole del Magnanino sono un pozzo di aforismi senza fine, il trionfo delle lettere, ma in un contesto secolare complesso, in cui nessuno oserebbe ragionare, sviscerare fatti, cose, avvenimenti e stati d’animo, perché unico scopo era il combattere.
«Avendo il Re chiamato uomo barbaro, un Cavalier Siracusano di costumi molto crudeli, e perché egli era della prima origine greca, mostrando d’avere grandemente per male l’ingiuria, e il nome di barbaro; disse il Re: – Io non soglio difinire i barbari dalla prima origine, ma da costumi loro.
Usò di lasciarsi favellarsi, e diede pazientemente udienza a uomini, anchorché sciocchi e balordi. Ma mentre che li ascoltava, soleva gettar gli occhi addosso a coloro, i quali conosceva che sapevano squadrare e conoscere benissimo la natura e gli umori delle persone, sussurrando così sottovoce quel verso d’Ennio, che dice: – Vultvris in silvis miservm mandebat homonem.
Perché diceva che Ennio haveva benissimo chiamati non uomini coloro, che egli vedeva non avere altra cosa d’uomo che la figura», cioè la sagoma.
E’ da queste considerazioni che fuoriesce l’animo nobile e gentile del sovrano, preso continuamente dallo studio e dall’amore per il bello, per l’ascetico, ma rapito anche dalle bellezze terrene, verso cui nutrire il massimo rispetto.
«Volendo egli rinovare quel bellissimo Castello di Napoli, si fece arrecare il libro di Vitruvio, che tratta d’architettura. Gli fu portato dunque subito Vitruvio, senza asse, e senza alcuno ornamento. Il quale, come il Re ebbe veduto, disse, che ad egli non stesse bene che quel bellissimo libro, il quale con tanta leggiadria insegna come dobbiamo coprirci, andasse scoperto; egli così subito lo fece benissimo coprire».
Bellezza però non è sintomo di scelleratezza, di balli sfrenati alla francese, quella è pazzia, la follia di lasciarsi andare ai sollazzi, mentre la strada della vita resta l’amore, cosa ben diversa.
«Soleva il Re farsi beffe di Scipione, intendendo ch’egli si dilettava e prendeva piacere di ballare. E diceva, che un ballerino non era punto differente da un pazzo, se non che questi lo è mentre balla, e quegli è pazzo mentre vive.
E per questa ragione aveva i Francesi per uomini molto vani e leggieri, i quali quanto erano più attempati, tanto più si dilettavano a ballare, cioè nell’esser pazzi.
Gianozzo Manetti ambasciadore dei Fiorentini, facendo una lunga e bellissima orazione al sovrano, mentre la recitava, si maravigliò molto dell’attenzione e pazienza del Re; che vedendolo recitare non gli havea mai levati pure un poco gl’occhi d’addosso, ne pur mosso le mani.
Ma sopra tutto giudicò degno di memoria questo: ch’essendosi sùbito fermata, fin dal principio de l’oratione, una mosca sul naso al Re, esso non l’havea mai cacciata, finché l’orazione non fu finita.
Io ho voluto far memoria di questa cosa, perché io mi ricordo d’aver letto Omero che, fra le battaglie degli Dei, descrive la improntitudine della mosca».
Il tentativo di Domenichi di spostare l’attenzione del lettore per riportarlo sulla ‘retta’ via dell’amore per il classico.
In realtà egli non fa che accentuare la bonaria ingenuità di Alfonso a favore del piacere di ricevere attenzioni. Proprio come quelle date e ricevute da Manetti in uno scambio di piacevoli convenevoli che meravigliano lo stesso oratore fiorentino, abituato per lavoro alle adulazioni, che però stavolta – a suo stesso dire – gli sono apparse accentuate.
Lo sono per il traboccante interesse posto dal Re, calamitato da quelle belle parole spese in suo favore, tanto da non distogliere mai lo sguardo dalla sua figura, quasi splendente. Non lo fa neppure per allontanare una fastidiosa mosca, posatasi nel punto più cruciale del corpo e per tutto il tempo della orazione, la qual cosa avrebbe infastidito il più paziente dei santi.
Piccoli indizzi che si ricavano dagli aforismi riportati da Domenichi, quale, ricordando che Cosmo de’ Medici «voleua poco bene ad Alfonso», gli aveva donato le Deche di Tito Livio che non toccò perché «sospetto di veleno».
La lite fra i paggi sul chi dovesse possedere la tazza dove bevve il Re e lo scatto sdegnato del sovrano, armato di pugnale nel rincorrere uno di essi, ricordano molto la morbosità amorosa dei fanciulli.
L’eccesso di pietà mostrato per il corpo nudo del soldato genovese spiaggiato a Pozzuoli durante la guerra contribuisce a costruire una figura pia pervasa dai ricordi che esplode, in tutta la sua umana pietà, nel rivedere Sorrento, la patria donata all’amato giovanetto defunto. A questo punto il Re Magnanimo, il conquistatore di Napoli, l’eroe forte con i duri, mostra uno dei suoi lati migliori: il pianto. Alla vista della città più bella del mondo Alfonso non riesce a «guastarla» perché lì sono i suoi ricordi d’amore e lì «fu veduto spesso venirgli perciò le lagrime agli occhi». Ed ecco che il vincitore implora il prossimo vinto a non ostinarsi in atti che la «umanità e misericordia» di un Re non avrebbero potuto «emendare».
E’ su queste considerazioni che può essere letto l’amore sfegatato per un pezzo del suo cuore, quello che egli considerava la miglior parte di sé; quello corrisposto dal suo paggio fin dal giorno del primo incontro.
Gabriele, questo il suo nome, sorrideva e gli sfilava accanto, senza mai mollare gli occhi di dosso. Egli giunse all’improvviso, nel bel mezzo della festa e della storia, proprio come fa solo un vero amore, inaspettato, ma non impossibile.
Era esattamente ciò che piaceva al suo sovrano, come tutte le altre cose di gusto, apprezzate da un Re Magnanimo, colui che dona in continuazione, sapendo di non poter chiedere nulla in cambio.
L’euforia per il manoscritto ritrovato impone questa prima stesura che meriterà i dovuti approfondimenti.
Arturo Bascetta
INDICE
ragionamento dell’autore
re alfonso di napoli: tenerezze di un magnanimo
premessa storica di l.domenichi
il trionfo di re alfonso celebrato da domenichi
introduzione di s.cuttrera-c.rovito
silvio ascanio e i fatti tragici amorosi successi a napoli
Capitolo I.
gabriele ignorato dagli studiosi:
l’amante di re alfonso d’aragona
— Il paggio incontrato il giorno del trionfo
— Qui fuit pars maxima Regis
— La famiglia Curiale divenuta Correale
— Lucrezia messa in relazione alla morte dell’amato
Capitolo II.
LA FIGURA DEL PAGGIO VOLUTAMENTE
CONFUSA COL FRATELLO EREDITIERO
— Gabriele scambiato col fratello Marino
Capitolo III.
CORREALI PADRONI DI MASSA LUBRENSE
MA ANCHE DI ALTRI EX CASALI COSTIERI
— Gli studi di Capasso, benché poco attendibili
— Premiati i familiari dell’amato
— Allo stesso modo gratificati i fratelli di Lucrezia
— La severità di Tristano Caracciolo
— Lo scrittore non ha dubbi: Gabriele era poverissimo
— Re Alfonso, il sovrano col ‘vizio’ delle donazioni
Capitolo IV.
degl’amori d’alfonso Primo
nel i° tomo del cronista corona
— La trascrizione del manoscritto di Silvio Corona
— La trascrizione del manoscritto di Silvio e Ascanio
— L’epilogo nel confronto fra le trascrizioni di A e B
Capitolo V.
la figura femminile di lucrezia
soppianta il soffocante amore
— Il cronista prosegue con l’amore per Lucrezia
— Le amanti di Re Ferdinando: il successore
— I discorsi amorosi del crudele Alfonso II
— Da Gabriele a Lucrezia: amati distanti
appendice documentaria
gli aforismi più belli di alfonso i
celebrati da domenichi
1. Niuno ha acquistato gloria senza fatica
2. Bene le orazioni se son cose vere
3. Uccelli e favoriti, ottenute cose voltano le spalle
4. Gli studi umanistici: la prima lezione di un re
5. Il re ad amatrice da per tranusio o piccinino
6. Vinta per fortuna la guerra di napoli dei 22 anni
7. La tazza dove beve il re è contesa dai paggi
8. Il soldato sciocco di capua
9. Asini che mangiano sono più rispettati dei re
10. Il genovese nudo da lui sepolto a pozzuoli
11. Sfamate donne e ragazzi di gaeta anche se nemici
12. Meglio leggere tito livio che ascoltare musici
13. Il minio conviene solo a bacco
14. La dote per tutte le fanciulle di clausura
15. Fate come i romani: prima la virtù e poi l’onore
16. Se il re va in tribunale è a favore dei poveri
17. Il re piange se rivede sorrento: perché?
18. La pace viene prima di ogni guerra
19. meglio un castelnuovo a napoli
20. l’abito va popolare: l’autorità non è nel vestire
21. Aiutate l’asino, anche se cade all’asinaro di capua
22. Meglio derubati di moglie brutta che dei denari
23. I veneziani debbono chiedere la pace a ginocchioni
24. Se a un re resta solo la calabria, meglio l’esilio
25. Davalo di pescara amante di seneca
26. E’ giusto il sisma che viene mentre leggi didone
27. I giochi cristiani copiati a firenze
28. L’affetto di cosimo dei medici era avvelenato
29. Niente biasimo dai baroni
30. Le scuole vanno curate
31. Caiazzo ci vuole piccinino: lode ai figli dei beccai
32. Il vino è il latte dei vecchi mal costumati
33. Viriato: la medicina portata da panormita
34. Ai francesi piace ballare da pazzi come scipione
35. Se manetti di firenze adula il re non vola una mosca
36. I caetani confondono il sepolcro di vitruvio
37. Ai fiorentini piace seneca e catone
38. Niente arco trionfale all’annunziata di napoli
39. Chi è savio favella poco: i pazzi parlano assai
note bibliografiche
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