Edizione cartonata IL PAGGIO DI SORRENTO: Gabriele Correale, l’amante di Re Alfonso d’Aragona EAN 9788872970652

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Copertina posteriore

IL TRIONFO DI RE ALFONSO

«Da poi che i baroni del regno deliberarono di fare la raunanza a Napoli, lasciato Benevento, prima giunsero ad Auersa, dipoi alla chiesa di Santo Antonio fuor delle mura di Napoli: et quivi si fermarono tanto che si mettessero in punto le cose, che apparteneuano allo spettacolo del trionfo.
Percioche i cittadini Napoletani tutti insieme d’accordo haueuano deliberato di ricevere il Re trionfante si per la mirabile uittoria, et si per la inaudita clemenza del Re.
A 26 dunque di Febrato il Re co baroni si presentò alla porta del Carmino, appresso alla quale era ruinata gran par te delle mura da cittadini, et aperta in honore del uincitore che v’entraua, et quiui apparecchiato uno alto carro trionfale indorato.
Nella cui cima era un seggio ornato d’oro et di scarlatto. Alla caretta erano legati quattro caualli bianchi, i quali haueuano a tirare altrettante ruote, molto braui con redine di feta, et brighe d’oro.
Era ancho nella corte contra il feggio del Re, quella sedia pericolosa, la quale parue che mettesse fuori una gran fiamma tra larme del Re.
Erano intorno alla carretta senti gentilihuomini, ciascuno di loro con una hasta in mano, alle quali era legato il baldacchino d’oro, che non ne fu mai più ueduto altroue un di tanta valuta in tal misterio; dalle cui linee estreme della cima molto gentilmente fvolazzavano l’armi del Re, del regno, & della città.
Sotto questo baldacchino staua a sedere il Re, il quale haueua da esser portato trionfando.
Ma prima ch’egli salisse ful carro, deliberò di dire o di fare alcuna cosa degna di lui.
Chiamato dunque prima a se Gherardo Gasparo d’Aquino, gli disse:
– Io per li meriti et seruigi di tuo padre ti faccio & eleggo Marchese di Pescara, et similmente ti conforto alla fede, costanza, e integrità di lui, a cui honore noi hoggi t’honoriamo di così sublime dignità; la quale essendo acquistata, per benificio di tuo padre, da hora innanzi ti sforzerai di conseruare, & d’accrescere col tuo proprio valore.
– Te ancho, o Nicolò Cantelmo, per la fede osseruanza tua facciamo duca della città di Sora; et te, o Alfonso Cardona, per le tue honorate prodezze et singolar uirtù di guerra, facciamo conte di Rheggio.
Con queste quasi medesime parole, et con la medesima gratitudine d’animo fece molti altri conti, Francesco Pandone di Venafro, Giouanni Sansuerino di Norcia, Francesco della medesima famiglia di Maracia, & Amerigo di Capaccio.
Fece poi caualieri quasi infiniti gentilihuomini benemeriti di lui, i quali lascierò di ricordare, per passare ad altre molto maggiori & più diletteuoli cose.
Dopo questo nel nome del uero Dio et nostro Signor Giesu Christo, a cui egli sempre, et molto uolentieri uolle che s’attribuisse tutta la laude et la gloria della uittoria, salì sul carro con una ueste indosso di uelluto paonazzo lunga fino a piedi, et foderata di zibellini.
Ne fu possibil mai persuaderlo, anchor ch’egli fosse a ciò consigliato da molti et ueramete huomini grandi, ch’egli accettasse la corona dell’alloro, secondo l’ufanza de trionfanti.
Credo che ciò facesse, perch’egli per la sua singolar modestia religione attribuiua piu tosto la corona a Dio, ch’ad alcuna persona del mondo.
Ma poich’egli fu ueduto alto sulla carretta, fubito si leuò così gran grido & festa d’huomini e di donne, ch’erano a uedere su tetti delle case, che per lo grande strepito et romore non si poteuano pure udire ne il suon delle trombe, ne de pifferi, bench’eglino fossero quasi infiniti.
In questo mezzo si uedeuano le perfone parte piangere, & parte ridere per l’allegrezza, et parte marauigliarfi per nouità della cofa.
Passato poi innanzi si fermò un poco, finche s’auuiaua la schiera di coloro, che gli andauano auanti.
Tra iquali i Fiorentini primi di tutti fecero diuersi giuochi imaginati con singolare industria, et fatti con grande spesa in questo modo.
Andauano innanzi fubito dopo i pifferi e i trombetti dieci giouanetti per lungo ordine in roba & giubbon di feta et di scarlatto, ornata d’argento, e di perle, secondo l’inuentione e ‘l disegno di ciascuno, con calze similmente di scarlatto, fornite anch’effe di molto argento, et di gioie; i quali caualcauano tutti bellissimi caualli, forniti con di molti sonagli, i quali faceuano grandissimo romore, ritti sulle staffe, talché se alcun di loro si fermaua pure un poco a federe sulla sella, n’arrosiva, come s’egli hauesse fatto qualche gran uillania, con la man ritta leuata in alta maneggiauano una lancia dipinta, & sparsa di diuersi fiori; la quale ciafcun di loro hor s’aggraua intorno alla testa, hora la distendeua per fare un colpo, et hora la maneggiva, secondo che pareua a ciascun di loro.
Haueua ogniun d’essi una ghirlanda in capo distinta con certe lame d’oro, la quale però passando dinnanzi al Re lasciando la briglia con la man manca se la leuauano di testa, et faceuano riuerenza a sua Maestà.
Dopo questi seguiua la Fortuna Signora del mondo sopra un palco fornito di finssimi tapeti, la quale era portata sopra un’alto carro, co’ capegli lunghi et distesi dinanzi la fronte, et dalla parte di dietro calua, fotto i cui piedi era una gran palla d’oro, la quale era alzata fu da un certo bambino in guisa d’angelo con le braccia distese: ma questo angelo haueua fermi i piedi fotto acqua.
Poco discosto dalla Fortuna ueniuano sei virtù sopra sei bellissimi et bene adobbati caualli, con un’habito molto honesto et antico.
Et accioche potessero esser conosciute, ciascuna portaua innanzi la fua insegna.
Prima di tutte era la Speranza, che mostraua una corona, dipoi la Fede un calice, poi la Carità un bambino ignudo.
La quarta era la Fortezza, che sosteneua con le mani una colonna di marmo.
La quinta era la Temperanza, che haueua in mano due guastade, e mescolana il vino con l’acqua.
L’ultima era la Prudentia, la quale nella man ritta mostraua al popolo uno specchio & nella manca un serpente.
Restaua la Giustitia, la quale come reina dell’altre contenta d’un modo ragioneuole, era portata sotto un certo ornatissimo pergamo; molto leggiadramente essendo addobbata nella man ritta haueua una pada ignuda, & nella manca una bilancia, quasi ch’ella fosse per dare imperio, et maggioranza a coloro che la seguiuano et honorauano.
Dietro alle spalle sue in luogo piurileuato haueua posto un seggio, tutto ornato d’oro e di seta, sopra il quale tre angeli, i quali pareua quasi che scendeffero di cielo, ciascuno mostrana di promettergli la sua corona, a colui che per la giustitia meritaua questo tal seggio.
Dopo questa bellissima sedia ueniua una grandissima turba di caualieri in habito et forma di diuerse nationi, principi, & baroni.
Et si come questi seguiuano la sedia, cosi ancho andauano innanzi il carro di Cesare.
Percioche ne ueniua poi Cesare portato sopra un certo eminentissimo & ornatissimo seggio, al quale si saliua per iscaglioni tutti forniti di tapeti. Haueua Cesare la corona dello alloro in testa, armato, et col paludamento indosso, portando nella man ritta lo scettro, et nella manca la palla d’oro.
Sotto i cui piedi il mondo in forma ritonda di continuo si moueua.
Fermossi dunque Cesare dinanzi Alfonso, et gli ragionò quasi di questo tenore, e in rime Toscane.
– Io, o eccellentissimo Re Alfonso, ti conforto che tu mantenga teco fino all’ultimo queste sette uirtù, le quali hora hai veduto passarti innanzi, & le quali perpetuamente hai osseruate.
La qual cosa se farai, come so certo che farai, quelle che hora ti mostrano trionfante al popolo, ti faranno quando che sia degno di quella sedia imperiale, la quale hora veggendola passare, hai desiderata.
Con la quale, come tu hai veduto, era menata anchora la Giustitia, accioche tu conoscessi, che senza la Giustitia niuno è per acquistare la uera gloria.
Ma non ti confidare gia punto nella fortuna, la quale poco dianzi pareua che ti porgesse il crin d’oro; percioch’ella è instabile & leggiera.
Ecco chel mondo ancho è uolubile, et tutte le cose, fuor che la uirtù, sono incerte.
Honorerai dunque religiosissimamente, come tu fai, questa.
Et io pregherò l’ottimo grandissimo Iddio, che ti conserui in prosperità, et Fiorenza nella libertà sua.
Poiche Cefare hebbe dette queste parole, si mescolò nella schiera, et dopo lui seguirono a due a due da 60 Fiorentini tutti uestiti di scarlatto e di pagonazzo.
Dopo questi ueniuano gli Spagnuoli, Catelani, i quali anch’essi faceuano giuo chi et spettacoli con grandissima festa; percioch’essi conducessero alcuni caualli contrafatti, e simili a ueri et vivi, i quali erano caualcati da giouani, che haueuano le uesti lunghe fino in terra, mentre che i giouani si moueuano co’ piedi loro, i caualli pareua che hora corressero, hora si maneggiassero, hora spignessero innanzi, et hora si fuggissero indietro.
Haueuano i Caualieri uno scudo nella manca dipinto con l’armi del Re, nella man ritta una spada ignuda.
Contra di questi caualieri u’erano alcuni pedoni uestiti alla Persiana e alla Turchesca, con turbanti in capo, et scimitarre in mano che faceuano bellissimo uedere.
Moueuansi prima i caualieri e i fanti a piedi piaceuolmente al suono, & faceuano una bellissima danza Moresca.
Di poi ristringendosi a poco a poco il canto e ‘l fuono, anch’essi parimente s’infiammauano, et ueniuano fra loro a battaglia.
Et cosi con grandissimo grido de’ foldati, & con gran riso di coloro ch’eran quiui, combatteuano un gran pezzo, finche gli Spagnuoli uincitori metteuano tutti i Barbari in fuga, gli rompeuano, et faceuano prigioni.
Dopo questi era portata una gra[n] torre di legno mirabilmente ornata, la cui entrata era guardata da un Angelo con la spada ignuda.
Percioche sopra essa erano portate quattro uirtù, cioè, la Magnanimità, la Costanza, la Clemenza, et la Liberalità.
Et queste haueuano innanzi la sedia pericolosa, cioè quella insegna Reale, ciascuno cantando la sua canzone con bellissimi uersi.
Et fu l’Angelo il primo di tutti, che disse i suoi uersi al Re, quasi di questo tenore.
– Re Alfonso, io ti presento questo castello della pace, et ti do di mia mano anchora queste quattro honorate uirtù, che ui son sopra, le quali si come sempre tu hai honorate e amate, hora amoreuolmente t’hanno uoluto accompagnare trionfante.
La Magnanimità, la quale era appresso all’Angelo, confortaua il Re alla eccellenza del l’animo, e poi gli mostraua quei Barbari uinti et posti in fuga dagli Spagnuoli, per far conoscere al Re, che ogni uolta ch’egli fosse per muouer guerra contra gl’infedeli, et nimici di Christo, gli Spagnuoli erano pronti a seruirlo, et fenza dubbio alcuno sarebbono riusciti uittoriosi.
La terza era la Costanza condimento di tutte le uirtù, la quale anch’essa auisaua il Re, che con animo armato & costante sopportasse i cafi di questo mondo, ogni volta ch’essi auuengono; ne per alcuna sciagura si stogliesse dal fuo honorato et glorioso proponimento.
Percioche ogni fortuna si uince con la patienza. Dipoi la Clemenza molto piu allegra in uiso che l’altre, quasi ch’ella uedesse fe medesima nel Re, come in uno specchio, disse:
– Queste altre mie forelle, o Re, ueramente ti fanno eccellentissimo fra le persone del mondo, ma io ti faccio eguale non pure a gli huomini, ma a gli Dei immortali.
Perche quelle t’hanno insegnato a uincere, et io t’ho mostrato a perdonare a uinti, e a fartigli amici.
Dette queste poche parole si tacque.
Ultimamente la Liberalità gettaua denari al popolo, uolendo mostrare, come il Re contentandosi folamente della gloria delle sue attioni, tutte l’altre cose era per donare a suoi uassalli.
Effendo dunque molto gentilmente ordinate tutte queste pompe, le quali andauano innanzi al carro, ueniuano poi cinque personaggi nobili uestiti con robe di uelluto pauonazzo, d’ogni seggio uno.
Percioche tutta la città di Napoli è diuisa in cinque theatri, i quali essi chiamano feggi.
Haveuano questi cura di far dirizzare il carro, d’addestrare i cavalli, et finalmente d’ordinare tutta la schiera di coloro che andauano innanzi; et co’ bastoni, ch’essi haueuano in mano, et con l’auttorità loro erano molto ripettati & temuti.
Gia passaua innanzi Alfonso con bellissima maestà e presenza degno d’ogni riuerenza & honore.
Et quiui di nuouo le grida di coloro, che faceuano festa, andauano fino al cielo.
Ogniuno andaua a piedi dietro alla carretta, e i baroni et principi del Regno a quattro a quattro; de quali erano i primi Don Fernando figliuolo del Re Alfonfo trionfatore, fanciullo di grandissima speranza, Gio. Antonio principe di Taranto, et questi erano in mezzo, da man ritta loro era Ramondo Principe di Salerno, a man manca Abranio luogotenente del Re.
Dipoi il grandissimo huomo, et per la fua fede et costanza degno di sempiterna memoria Gio. Antonio Duca di Sessa, Honorato conte di Fundi, et Pietro ambasciadore del Duca di Milano.
Nel terzo ordine erano Antonio Duca di San Marco, Traiano Duca di Melfi, Ant. Santillia Marchese di Cotrone, e ‘l conte Iacopo figliuolo di Nicolò Piccinino buomo fortissimo.
Dipoi secondo l’ordine loro trent’otto fra duchi & conti, da cento fra signori et baroni, quasi infiniti caualieri, & infinita moltitudine anchora di perfonaggi grandi, di vesconi et prelati, et d’huomini litteratissimi.
Poteua dire chi uedeua la frequenza delle perfone, ch’erano dietro la carretta, che nella città non fossero huomini altroue.
Ma oltra cio quella grandissima piazza, i tetti di tutti i palazzi, le finestre, le porte, le loggie, le uie, i seggi, tutti luoghi, erano tanto pieni di perfone, cosi di tutti forestieri, che d’ogni parte concorreuano a quella festa, come ancho de cittadini iftessi; che chi non hauesse anchora ueduto dietro alla caretta, haurebbe detto, che non ui fossero piu perfone.
Passaua gia Alfonso per mezzo i fondamenti incominciati del suo arco trionfale: et hauendo cosi un poco guardato le memorie delle cose sue, s’auuio uerso Banchi, doue tutte le uie erano sparse di fiori e di frondi.
Ma quel che non fu mai piu ueduto, ne letto in luogo alcuno, tutte le finestre delle case erano apparate di ricchissimi drappi, et di finissimi tapeti d’oro e di seta.
Sotto questo quasi aureo cielo Alfonso con grande allegrezza e festa di tutti i banchieri, et mercatanti, & ancho con nuouo apparato di giuochi, e incredibile piacere passando, giunse subito al feggio di Porta nuoua, doue con grandissima allegrezza staua aspettandolo quasi infinita moltitudine d’huomini e di bellissime fanciulle, che danzauano, e cantauano.
Erano in questo, come negli altri feggi, le mura fontuofissimamente fornite di bellissimi panni d’arazzo, et le donne addobbate di ricchissimi uestimenti d’oro, et di seta, et di preciosissime gioie et ueramente quelle che piu sfoggiavano n’erano piu lodate; percioche tutta la pompa, et l’ornamento, che si faceua, era in honore del Re loro Signore, padre, & benefattore.
Quando egli dunque giunse quiui, tutte le fanciulle inginocchiate, et con le mani giunte, lasciando, o piu tosto intramettendo i balli, e i canti, lo adorarono, come qualche Dio custode dell’honestà loro.
Il medesimo faceuano gli huomini, a cui erano state saluate le facultà, et la uita.
Et quindi partendo trouò similmente il seggio di Porto, doue si danzaua, & cantava, et u’erano anchora di molte bellissime, e ricchissimamente uestite, et ornate fanciulle; le quali con la medesima gratitudine e riuerenza riceuettero il Re loro conseruatore.
Fu poi menato al terzo seggio, nobile e antico, il quale non era punto inferiore a niuno degli altri detti di sopra, o vivogli d’ornamenti di mura, & di uarietà di pittura, o di bellezza & di leggiadria di donne, o fe pure altri si piglia piacere di balli, di canti, et di suoni. Et quiui tutti resero gratie immortali al piissimo et clementissimo Re; il quale andò poi all’antichissimo seggio della Montagna: doue con simil pompa, fimile allegrezza, et ogni simile affettione, fu ricevuto dagli huomini e dalle fanciulle.
Quindi partendo scefe giu del carro alle scale di marmo della Chiesa Maggiore, et entrato dentro con la pompa de principi baroni, che lo seguitauano, humilissimamente fece oratione al nostro uerissimo Dio et Signore Giesu Christo, dando a lui la lode della vittoria, la gloria del trionfo, gli honori le gratie di tutte le uirtù.
Fece poi caualiere M. Giannoto Riccio, persona molto benemerita di lui, et rimontò sul carro, con grande, & quasi incredibile allegrezza et festa delle fanciulle, le quali aspettauano il Re nel seggio di Capouana.
Non s’era fatto in niuno altro luogo maggiore apparato, ne magnificenza di cose, ne allegrezza d’animi, ne finalmente pompa di persone.
Di quivi dunque passando il Re fu alla fine condotto, essendo hoggimai presso a sera nel Castello di Capovana vicino a questo splendidissimo seggio».*
Lodovico Domenichi

Description

RE ALFONSO I DI NAPOLI: TENEREZZE DI UN MAGNANIMO

Lungi dalle intenzioni di noi tutti tracciare un profilo su Alfonso I d’Aragona, conosciuto come il Magnanimo. Questo testo vuole però contribuire a dare il giusto valore alla personalità del reale tanto amato per le sue virtù.
Lo fa rispolverando qualche parabola del sovrano, a tratti intrisa di classicismi, a volte pregna di sarcasmo, ma sicuramente degna di un Re di tal portata. Per questo lo arricchisce l’appendice dedicata alle parabole alfonsine celebrate da uno storico come Domenichi.
L’attenzione è tutta volta a un viaggio interiore, che scruta l’animo di un sovrano, volto alla bellezza e al bello delle cose, amato dalle donne, ma al quale, non sfuggì naturaliter una vera storia d’amore per il suo paggio, elevato a cavaliere, e perfino a nobile possessore terriero, sia per lo splendore del corpo, che per la dolcezza dei suoi modi gentili, propri delle persone che si lasciano amare. Ma a Re Alfonso, a dire di pochi, benché sottaciuto da molti, Gabriele Curiale, era piaciuto in carne e ossa, così come gli apparve, restandone rapito fin dal primo giorno, alla sfilata d’onore dell’entrata in Napoli, folgorato dal luccichìo del carro trionfale.
Quel giorno il corpo di quel paggio divenne per lui un miraggio da vivere, da preservare, da osservare, ogni qual volta ne sentisse l’esigenza; e da amare, al punto da essere considerato un pezzo della propria vita, da cambiargli perfino il cognome di Curiale in Correale, perché Gabriele fu questo: un core-reale, il cuore del suo Re.
Non che si abbiano notizie concrete di altri amori maschili del sovrano, ma alcune spie dell’amore esteso ai suoi sudditi si ritrovano negli scritti a lui dedicati, a volte confondendo l’attento lettore, essendo sempre circondato da giovani e poco da donne, fermo restando il suo grande amore per Lucrezia d’Alagno, che andrà a soppiantare tutti gli altri del ‘giovanil’ furore del neofita.
Che il sovrano fosse attratto anche dalla bellezza maschile, insomma, sembra svelarlo lo stesso biografo Domenichi.
Solo che, volontariamente o involontariamente, egli indica nei suoi scritti tante debolezze umane, in cui traspare da una parte un frenetico amore per i deboli, i povero, gli ammalati, gli emarginati, insomma quasi francescano, e dall’altro l’essere circondato da stretti cavalieri, ritenuti di famiglia, ma spesso ragionando d’amore e di risentimento. Al sovrano insomma non dispiaceva circondarsi d’affetto perché «navigava il Re venendo di Sicilia, e aveva seco alcuni favoriti, che s’avea preso in compagnia; i quali avevano per usanza la mattina d’andare a far riverenza al Re sulla poppa».
E quando s’assentava dal gruppo lo faceva da innamorato della vita, «dove stando egli una volta per un gran pezzo a guardare certi uccellini marini, che volavano intorno alla galea, aspettando che cadesse qualche minuzzolo in acqua, e qual di loro lo pigliava, prestamente se ne fuggiva con esso in bocca, il Re avendo ciò veduto, si rivolse a color ch’eran seco».
E disse: – Simili a questi uccelli sono alcuni favoriti et cortigiani miei, i quali subito che hanno avuto da me qualche ufficio o benificio, mi volgon le spalle.
Né mancavano gli scatti d’ira che appaiono atti morbosi fra giovani, come per il possesso di una tazzina dove egli aveva bevuto. Emblematico l’episodio dello scudiere che appare ingelosito e vendicativo all’arrivo del poeta palermitano Giovanni Aurispa (1394-1471). «Essendo il Re gravemente ammalato di febbre, e andando l’Aurispa uomo vecchio, e molto dotto a visitarlo, subito comandò che fosse messo in camera; e qui ragionò molto a lungo con esso lui di lettere, e di cose gravi e importanti. Aveva il Re comandato che la tazza dov’egli havea bevuto fosse data a un nobilissimo giovane, che aveva nome Guasparri; ma il Pirretto, scudiere nemico di Guasparri, benché gli fosse stato detto due e tre volte, non gliela voleva dare. Onde il Re sdegnato si levò sù, e messo mano al pugnale, raggiunse Pirreto che s’era messo a fuggire. E avendolo già preso, per non ferirlo nel mezzo della collera, trasse via il pugnale».
La pietà per quel corpo nudo rinvenuto privo di vita sulla spiaggia appare quasi il frammento di un discorso amoroso, con uno sconosciuto, e per questo mai nato: «essendo il Re all’assedio di Pozzuoli, e andando ogni dì a spasso lungo la spiaggia, trovò il corpo morto d’un Genovese tratto fuori da una galea dei nemici, e gettato sulla riva. E come l’ebbe veduto, subito scese da cavallo e, fatto scendere anche tutti coloro chr erano qui appresso, ad alcuni commise che facessero una fossa, ad altri che vi coprissero dentro il corpo ignudo. Ed egli, avendo fatto una croce di legno di sua mano, gliela piantò sopra il capo».
Come eccessivamente francescano è l’episodio dell’amore puro nutrito per i poveri affamati di Gaeta, inviati all’esercito nemico dai parenti: «assediava molto ostinatamente il Re Alfonso Gaeta, talché i cittadini, per la grandissima fame, che c’era lì, furono costretti a cacciare fuori i fanciulli, le donne, e tutte le bocche disutili. I quali essendo usciti fuori dalle mura, per passati un poco innanzi, furono costretti poi fermarsi: percioché quelli della città a colpi di sassate li facevano star distanti, ma essi non s’assicuravano neanche d’entrare nel campo nemico del Re. In questo mezzo si poteva vedere quella misera moltitudine scoperta a un tempo ai colpi dei cittadini, e dei nimici; i pianti dei padri e dei figliuoli, i quali si raccomandavano alla fede misericordia del Re, e dei suoi, e in questa erano balzati, pinti, feriti, et morti: allora il Re commandò a suoi soldati che non facessero loro dispiacere, e fece radunare i suoi consiglieri, i quali quasi tutti consigliarono, che non si dovessero accettare, perché se morivano di ferro o di fame, la colpa e il biasimo era dei loro cittadini, non del Re, ne degli buomini suoi. E vi fu anche chi disse che per ragion di guerra non si dovessero rassicurare, perciò che ella obbliga gli assediati, che hanno carestia, a mandare fuori della città le bocche disutili, e per contrario, a coloro che assediano, affinché non li accettino a patto alcuno, ma piuttosto li scaccino. Erano i suoi consiglieri tutti rivolti verso il Re, aspettando con grandissimo desiderio la sua risoluzione».
Disse allora il Re: – Io uoglio piutosto non hauer mai Gaeta, ne i Gaetani, che cosi vituperofamente e crudelmente vincere: io combatto con gli huomini, non con le donne et co’ fanciulli.
Alfonso appare come un sovrano moderno, che ripudia il sangue e la vendetta, che alle guerre preferisce per certo la pace nel mondo. Egli quasi si commuove davanti a quelle che in genere, per un uomo d’armi, sono battaglie quotidiane da affrontare, non da evitare.
«A un amico e familiare suo, il quale confortava il Re, che mentre egli poteva attendesse a pigliarsi piacere, e darsi del tempo, e non mettesse la sua persona in tanti pericoli, rispose che, come meritamente quegli antichi e savi Romani avevano edificato il tempio della Virtù, congiunto con quel dell’Onore, dove niuno poteva entrare, se non per il tempio della Virtù; accioché gli uomini conoscessero, che non si può salire al colmo d’honore per la via dei piaceri, la quale è piena di delizie e di morbidezze, ma per quella della virtù, che è malagevole e aspra».
Le parabole del Magnanino sono un pozzo di aforismi senza fine, il trionfo delle lettere, ma in un contesto secolare complesso, in cui nessuno oserebbe ragionare, sviscerare fatti, cose, avvenimenti e stati d’animo, perché unico scopo era il combattere.
«Avendo il Re chiamato uomo barbaro, un Cavalier Siracusano di costumi molto crudeli, e perché egli era della prima origine greca, mostrando d’avere grandemente per male l’ingiuria, e il nome di barbaro; disse il Re: – Io non soglio difinire i barbari dalla prima origine, ma da costumi loro.
Usò di lasciarsi favellarsi, e diede pazientemente udienza a uomini, anchorché sciocchi e balordi. Ma mentre che li ascoltava, soleva gettar gli occhi addosso a coloro, i quali conosceva che sapevano squadrare e conoscere benissimo la natura e gli umori delle persone, sussurrando così sottovoce quel verso d’Ennio, che dice: – Vultvris in silvis miservm mandebat homonem.
Perché diceva che Ennio haveva benissimo chiamati non uomini coloro, che egli vedeva non avere altra cosa d’uomo che la figura», cioè la sagoma.
E’ da queste considerazioni che fuoriesce l’animo nobile e gentile del sovrano, preso continuamente dallo studio e dall’amore per il bello, per l’ascetico, ma rapito anche dalle bellezze terrene, verso cui nutrire il massimo rispetto.
«Volendo egli rinovare quel bellissimo Castello di Napoli, si fece arrecare il libro di Vitruvio, che tratta d’architettura. Gli fu portato dunque subito Vitruvio, senza asse, e senza alcuno ornamento. Il quale, come il Re ebbe veduto, disse, che ad egli non stesse bene che quel bellissimo libro, il quale con tanta leggiadria insegna come dobbiamo coprirci, andasse scoperto; egli così subito lo fece benissimo coprire».
Bellezza però non è sintomo di scelleratezza, di balli sfrenati alla francese, quella è pazzia, la follia di lasciarsi andare ai sollazzi, mentre la strada della vita resta l’amore, cosa ben diversa.
«Soleva il Re farsi beffe di Scipione, intendendo ch’egli si dilettava e prendeva piacere di ballare. E diceva, che un ballerino non era punto differente da un pazzo, se non che questi lo è mentre balla, e quegli è pazzo mentre vive.
E per questa ragione aveva i Francesi per uomini molto vani e leggieri, i quali quanto erano più attempati, tanto più si dilettavano a ballare, cioè nell’esser pazzi.
Gianozzo Manetti ambasciadore dei Fiorentini, facendo una lunga e bellissima orazione al sovrano, mentre la recitava, si maravigliò molto dell’attenzione e pazienza del Re; che vedendolo recitare non gli havea mai levati pure un poco gl’occhi d’addosso, ne pur mosso le mani.
Ma sopra tutto giudicò degno di memoria questo: ch’essendosi sùbito fermata, fin dal principio de l’oratione, una mosca sul naso al Re, esso non l’havea mai cacciata, finché l’orazione non fu finita.
Io ho voluto far memoria di questa cosa, perché io mi ricordo d’aver letto Omero che, fra le battaglie degli Dei, descrive la improntitudine della mosca».
Il tentativo di Domenichi di spostare l’attenzione del lettore per riportarlo sulla ‘retta’ via dell’amore per il classico.
In realtà egli non fa che accentuare la bonaria ingenuità di Alfonso a favore del piacere di ricevere attenzioni. Proprio come quelle date e ricevute da Manetti in uno scambio di piacevoli convenevoli che meravigliano lo stesso oratore fiorentino, abituato per lavoro alle adulazioni, che però stavolta – a suo stesso dire – gli sono apparse accentuate.
Lo sono per il traboccante interesse posto dal Re, calamitato da quelle belle parole spese in suo favore, tanto da non distogliere mai lo sguardo dalla sua figura, quasi splendente. Non lo fa neppure per allontanare una fastidiosa mosca, posatasi nel punto più cruciale del corpo e per tutto il tempo della orazione, la qual cosa avrebbe infastidito il più paziente dei santi.
Piccoli indizzi che si ricavano dagli aforismi riportati da Domenichi, quale, ricordando che Cosmo de’ Medici «voleua poco bene ad Alfonso», gli aveva donato le Deche di Tito Livio che non toccò perché «sospetto di veleno».
La lite fra i paggi sul chi dovesse possedere la tazza dove bevve il Re e lo scatto sdegnato del sovrano, armato di pugnale nel rincorrere uno di essi, ricordano molto la morbosità amorosa dei fanciulli.
L’eccesso di pietà mostrato per il corpo nudo del soldato genovese spiaggiato a Pozzuoli durante la guerra contribuisce a costruire una figura pia pervasa dai ricordi che esplode, in tutta la sua umana pietà, nel rivedere Sorrento, la patria donata all’amato giovanetto defunto. A questo punto il Re Magnanimo, il conquistatore di Napoli, l’eroe forte con i duri, mostra uno dei suoi lati migliori: il pianto. Alla vista della città più bella del mondo Alfonso non riesce a «guastarla» perché lì sono i suoi ricordi d’amore e lì «fu veduto spesso venirgli perciò le lagrime agli occhi». Ed ecco che il vincitore implora il prossimo vinto a non ostinarsi in atti che la «umanità e misericordia» di un Re non avrebbero potuto «emendare».
E’ su queste considerazioni che può essere letto l’amore sfegatato per un pezzo del suo cuore, quello che egli considerava la miglior parte di sé; quello corrisposto dal suo paggio fin dal giorno del primo incontro.
Gabriele, questo il suo nome, sorrideva e gli sfilava accanto, senza mai mollare gli occhi di dosso. Egli giunse all’improvviso, nel bel mezzo della festa e della storia, proprio come fa solo un vero amore, inaspettato, ma non impossibile.
Era esattamente ciò che piaceva al suo sovrano, come tutte le altre cose di gusto, apprezzate da un Re Magnanimo, colui che dona in continuazione, sapendo di non poter chiedere nulla in cambio.
L’euforia per il manoscritto ritrovato impone questa prima stesura che meriterà i dovuti approfondimenti.
Arturo Bascetta

INDICE

ragionamento dell’autore
re alfonso di napoli: tenerezze di un magnanimo
premessa storica di l.domenichi
il trionfo di re alfonso celebrato da domenichi
introduzione di s.cuttrera-c.rovito
silvio ascanio e i fatti tragici amorosi successi a napoli

Capitolo I.
gabriele ignorato dagli studiosi:
l’amante di re alfonso d’aragona
— Il paggio incontrato il giorno del trionfo
— Qui fuit pars maxima Regis
— La famiglia Curiale divenuta Correale
— Lucrezia messa in relazione alla morte dell’amato

Capitolo II.
LA FIGURA DEL PAGGIO VOLUTAMENTE
CONFUSA COL FRATELLO EREDITIERO
— Gabriele scambiato col fratello Marino

Capitolo III.
CORREALI PADRONI DI MASSA LUBRENSE
MA ANCHE DI ALTRI EX CASALI COSTIERI
— Gli studi di Capasso, benché poco attendibili
— Premiati i familiari dell’amato
— Allo stesso modo gratificati i fratelli di Lucrezia
— La severità di Tristano Caracciolo
— Lo scrittore non ha dubbi: Gabriele era poverissimo
— Re Alfonso, il sovrano col ‘vizio’ delle donazioni

Capitolo IV.
degl’amori d’alfonso Primo
nel i° tomo del cronista corona
— La trascrizione del manoscritto di Silvio Corona
— La trascrizione del manoscritto di Silvio e Ascanio
— L’epilogo nel confronto fra le trascrizioni di A e B

Capitolo V.
la figura femminile di lucrezia
soppianta il soffocante amore
— Il cronista prosegue con l’amore per Lucrezia
— Le amanti di Re Ferdinando: il successore
— I discorsi amorosi del crudele Alfonso II
— Da Gabriele a Lucrezia: amati distanti

appendice documentaria
gli aforismi più belli di alfonso i
celebrati da domenichi

1. Niuno ha acquistato gloria senza fatica
2. Bene le orazioni se son cose vere
3. Uccelli e favoriti, ottenute cose voltano le spalle
4. Gli studi umanistici: la prima lezione di un re
5. Il re ad amatrice da per tranusio o piccinino
6. Vinta per fortuna la guerra di napoli dei 22 anni
7. La tazza dove beve il re è contesa dai paggi
8. Il soldato sciocco di capua
9. Asini che mangiano sono più rispettati dei re
10. Il genovese nudo da lui sepolto a pozzuoli

11. Sfamate donne e ragazzi di gaeta anche se nemici
12. Meglio leggere tito livio che ascoltare musici
13. Il minio conviene solo a bacco
14. La dote per tutte le fanciulle di clausura
15. Fate come i romani: prima la virtù e poi l’onore
16. Se il re va in tribunale è a favore dei poveri
17. Il re piange se rivede sorrento: perché?
18. La pace viene prima di ogni guerra
19. meglio un castelnuovo a napoli
20. l’abito va popolare: l’autorità non è nel vestire

21. Aiutate l’asino, anche se cade all’asinaro di capua
22. Meglio derubati di moglie brutta che dei denari
23. I veneziani debbono chiedere la pace a ginocchioni
24. Se a un re resta solo la calabria, meglio l’esilio
25. Davalo di pescara amante di seneca
26. E’ giusto il sisma che viene mentre leggi didone
27. I giochi cristiani copiati a firenze
28. L’affetto di cosimo dei medici era avvelenato
29. Niente biasimo dai baroni
30. Le scuole vanno curate

31. Caiazzo ci vuole piccinino: lode ai figli dei beccai
32. Il vino è il latte dei vecchi mal costumati
33. Viriato: la medicina portata da panormita
34. Ai francesi piace ballare da pazzi come scipione
35. Se manetti di firenze adula il re non vola una mosca
36. I caetani confondono il sepolcro di vitruvio
37. Ai fiorentini piace seneca e catone
38. Niente arco trionfale all’annunziata di napoli
39. Chi è savio favella poco: i pazzi parlano assai

note bibliografiche

Dettagli

EAN

9788872970133

ISBN

887297013X

Pagine

96

Autore

Bascetta

Recensioni

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Editorial Review

THE DAUGHTER OF CHARLES OF
VALOIS MARRIES THE HEIR OF NAPLES

 

Inde

introduzione

silvio, ascanio e i fatti tragici amorosi successi a napoli

Rititolato con l’abbreviazione di «Vari successi accorsi a Napoli», in realtà questo manoscritto reca sul frontespizio il titolo completo di «La verità svelata da Silvio et Ascanio Corona in Vari successi occorsi in Napoli»
Scriveva Minieri Riccio che era trascorso molto tempo da quando decise di voler «formare il Catalogo della mia Biblioteca tanto di opere a stampa, che manoscritte; ma costretto da varie circostanze e da gravi sventure familiari di non più potermi dedicare a'miei prediletti studi, ne abbandonai il pensiero. Ora volendo alienare i MSS., avendo già venduto i libri, ò dovuto in fretta, non avendone il tempo opportuno, compilarne il Catalogo, il quale è ben diverso da quello io designava».
Egli voleva che «il primo dovea esser fatto su carta e con tipi eleganti, con tutta la dottrina bigliografica, disposto per ordine di materie, e corredato di fac-simili e di pubblicazioni di interi trattati. In vece questo è compilato sul tamburo e confusamente, dandovi solamente un ordine di alfabeto, con numeri progressivi, con brevi descrizioni e pubblicando qualche opuscoletto o qualche brano di maggiore interesse. Per qualche tempo fui indeciso alla esecuzione di esso, ma poi vi ò messo mano considerando che l'ottimo è il più fiero nemico del buono, e che spessissimo o quasi sempre per siffatte circostanze molte opere interessanti sono andate perdute o dimenticate. Se non altro, il presente Catalogo darà una breve nozione di tutte quelle opere, che forse sarebbero rimaste affatto ignorate, e che con grande probabilità nella maggior parte andranno smarrite».
Egli riuscì a trascrivere i sunti di tutti quei libri permettendo ai tanti studiosi di poter accedere a preziose informazioni, sconosciute ai più. Proprio come è accaduto a noi di ABE, quando, leggendo i suoi commenti è arrivato al 33° volume della sua collezione scritto da Silvio Ascanio Corona.
Fatti tragici amorosi successi in Napoli, e altrove ai napoletani, diceva Minieri Riccio, è una «copia esemplata nel 1728. In fol. leg. in perg. di p. 330 numerate, di carattere uniforme dell'anno 1728; oltre del frontispizio e di due fogli bianchi in fine. Seguono altre p. 56, delle quali le prime 52 numerate e le ultime quattro s. n., che formano l'indice di tutto il volume. Queste p. 56 sono di carattere anche uniforme, ma del presente secolo; il titolo leggesi nella prima pagina ed è così: Supplemento al presente volume, fr.50. Tanto il Supplemento, che parte dagli ultimi racconti non sono scritti dallo stesso autore, come rilevasi da' medesimi. Quasi tutti, meno pochi, di que' contenuti nelle prime 330 pagine, si appartengono al Corona, il quale incominciò a scriverli nella seconda metà del secolo XVI, come chiaramente rilevasi dalla narrazione del proseguimento della storia di Bona Sforza, alla p. 93 ed alla p. 217 nel successo amoroso di Fabrizio Muscettola. Ivi si parla di Filippo 2° vivente e di Carlo V già morto, e dell'anno 1556 come di qualche anno decorso; per la qual cosa è certo che scriveva dopo l'anno 1558, epoca della morte di Carlo V. ed innanzi al 1598 anno in cui si morì Filippo 2°. Fino a qual epoca poi egli terminasse, e dove principiasse il suo continuatore, è diflicile il fissarlo, perchè vi sono de' racconti degli anni 1601. 1615. 1642. 1644. 1647. 1656. 1657 e 1672, tutti contemporanei a colui che li narra. Però gli ultimi, benchè nello stile si è avuta la cura di imitare i precedenti, sono molto inferiori a' primi, i quali contengono ampie, esatte ed interessanti notizie intorno alla storia di Napoli ed alla genealogia delle famiglie patrizie napoletane».
Fin qua, insomma, le notizie di carattere tecnico sul libro che, subito dopo, il brillante storico, marchia come il libro degli amori della famiglia reale generata da Re Alfonso d’Aragona.
E così, senza peli sulla lingua, senza scandalizzarsi e senza commenti, opportuni e inopportuni, Minieri Riccio prosegue la sua analisi del testo, capitolo per capitolo. Converrà lasciare la parola direttamente allo storico che così descrive i contenuti dei Fatti tragici amori di Silvio Ascanio Corona.

Il 1° fatto «racchiude la narrazione degli amori di Alfonso I. di Aragona col bellissimo giovanetto Gabriele Correale di Sorrento, cui donò le città di Sorrento, di Vico, di Massa e di Castellammare di Stabia, e che avrebbe fatto il più grande e potente feudatario del reame, se non si fosse morto nella età di appena 19 anni; Alfonso pel dolore fu quasi per impazzirne e fattigli celebrare solenni funerali, egli stesso gli compose l'epitaffio per la sua tomba in Monteoliveto, che è questo:

Qui fuit Alphonsi quondam pars maxima Regis
Gabriel hac modica contumulatur humo.

L'altro amore di Alfonso è con la bella e vezzosa Lucrezia d'Alache avrebbe menata in moglie se il pontefice Callisto fosse stato pieghevole alle sue istanze, dichiarando sciolto il suo matrimonio con Maria di Castiglia donna di innocenti costumi. Questa Lucrezia però fu ricolma di ricchezze e di feudi, essendo stata investita della signoria dell'isola d'Ischia, e della città di Venosa, di Caiazzo, di Somma, della terra di Putignano e di altre terre e castella; suo fratello Ugo fu creato gran cancelliere del regno ed investito della contea di Borrello, ed a Mariano altro suo fratello fu donato Bucchianico col titolo di Conte.
Alla morte di Alfonso, Lucrezia temendo di essere spogliata di tutti i feudi da Ferrante 1., si diede a seguire le parti di Gio. d'Angiò e fuggì da Napoli portandosi presso Giacomo Piccinino che militava per l'Angioino, e con lui visse in concubinato fino a che quel famoso capitano fu fatto morire da Ferrante 1.
Allora Lucrezia unitasi in amore con Ranieri Coscia figliuolo di Giovanni conte di Troia, passò in Dalmazia, dove visse allegramente finchè non furono dissipate tutte le sue ricchezze; incominciata ad invecchire e mancandogli i danari fu abbandonata dall' amante. Non rimanendole altra speranza che ricuperare i suoi feudi colla venuta di Carlo 8° nel reame di Napoli, passò a Roma dove si morì e fu sepolta nella chiesa della Minerva.

Il 2° racconto contiene gli amori di Ferrante I. di Aragona, il quale amò prima Diana Guardato patrizia sorrentina, con la quale procreò Maria, che della età di anni 18 maritò con Antonio Piccolomini nipote del pontefice Pio 2°, dandole in dote il ducato di Amalfi; Lucrezia, che diede in moglie al principe di Altamura, e dopo la morte di costui rimaritò con Onorato Gaetani duca di Traetto; Ilaria poi moglie di Giovanni del Tevere nipote di Sisto IV, e prefetto di Roma, a costei il padre donò in dote il ducato di Sora; l'ultima prole che Diana diede a Ferrante, e dopo del quale parto si morì, fu Errico creato dal padre marchese di Gerace, che nel 1473 menò in moglie Pollicena Centiglia. Morta Diana amò Piscicella Piscicelli del seggio di Capuana, con la quale procreati Cesare ed Alfonso, la maritò a Giovanni Lagni, dandole in dote molti feudi, fra quali il castello di Civitavecchia ed il castello di S. Angelo.
Dopo la Piscicelli amò Giovannella Caracciolo la più bella delle figliuole di Giacomo conte di Brienza e gran cancelliere del regno e di Lucrezia del Balzo. Con Giovannella ebbe Ferrante che creò duca di Montalto, Maria. la più bella giovane de' suoi tempi, che sposò Alfonso d'Avalos marchese del Vasto, e Giovanna che fu menata in moglie da Ascanio Colonna. Finalmente Ferrante maritò questa ultima sua amante con Angelo di Monforte figliuolo di Niccola conte di Campobasso, il quale Niccola per avere seguito le parti di Gio. d'Angiò era stato dichiarato ribelle e privato di tutti i feudi, e fuggito era in Francia; quindi Ferrante in occasione di questo matrimonio investi Angelo della Contea di Campobasso e di tutti gli altri feudi tolti a suo padre.

I1 3° discorso è intorno agli amori di Alfonso 2° di Aragona. La sua prima amante fu Isabella Stanza nobile cremonese damigella della regina Isabella di Chiaromonte sua madre, la quale essendo donna d'incorrotti costumi, subito che ne ebbe sentore volle togliere tanto scandalo dalla sua corte e maritò la donzella con Gio. Batt. Rota nobile e valoroso uomo e molto affezionato alla fazione aragonese.
Allora Alfonso amò Frussia Gazzella figliuola di Antonio nobile di Gaeta; da costei ebbe due figliuoli, cioè Alfonso e Sancia; ad Alfonso che creò duca di Bisceglia, diede in moglie Lucrezia Borgia figliuola di Rodrigo Borgia poi papa col nome di Alessandro VI, ed a Sancia che portò in dote il principato di Squillace, diede per marito Goffredo Borgia figliuolo terzogenito dello stesso Alessandro VI. Satollo di Frussia, maritolla con Antonio Carbone cavaliere del Seggio di Capuana, e costui morto in seconde nozze la fece sposare con Cesare Gesualdo signore di Paterno cavaliere del Seggio di Nido figliuolo del conte di Consa, da cui sono discesi i principi di Venosa.
Francesca Caracciolo detta Ceccarella giovane bellissima ed onesta moglie di Riccardo Capece, fu sollecitata inutilmente da Alfonso, e per isfuggire alle sue violenze, indusse il suo marito a ritirarsi sul villaggio dell' Arenella; ma Alfonso vieppiù acceso di amore, a viva forza la fece rapire e per più giorni la tenne a suo piacere non ostante le ripulse della infelice giovane. Il padre Muzio Caracciolo ed il marito ricorsero a re Ferrante, e costui fece rilasciare la Ceccarella, che tosto si ritirò nel monastero di S. Sebastiano, dove per cordoglio si morì poco tempo dopo. Alfonso preso da sdegno fece trucidare Muzio Caracciolo mentre ritornava in sua casa, e Riccardo temendo per la sua vita si ritirò in Montecasino, e vi prese l'abito monastico dopo la morte della moglie.
Dopo Alfonso prese ad amare Maria d'Avellanedo nobile spagnuola damigella della regina Giovanna sua madrigna; costei dopo avergli partoriti due figliuoli Francesco e Carlo, che morirono in età puerile, fu maritata ad Alfonso Caracciolo cavaliere del Seggio di Capuana. Successe a costei una nobile donzella della famiglia Montefuscolo, che fu poi maritata a Galeotto Pagano gentiluomo del Seggio di Porto.
Indi amò una bellissima giovanetta della famiglia Crispano nobile del Seggio di Capuana, vi procreò una bambina morta poco dappoi, e quindi la maritò con Angelo Crivelli nobile milanese suo cameriere.
Amò pure i belli giovani, cioè Diego Cavaniglia (che fece poi morire facendogli avvelenare le ferite ricevute nell'assedio di Otranto, e ciò perchè ebbe commercio amoroso con Eleonora sorella di esso Alfonso, poi duchessa di Ferrara), Giovanni Piscicelli, Onorato Gaetano duca di Traetto nipote di Onorato conte di Fondi; e di molti altri.

Il 4° racconto è degli amori di D. Alfonso e D.a Sancia d'Aragona, del duca Valentino.
Il 5° di quelli di D. Gio. Ventimiglia e D.a Eleonora Macedonio.
Il 6° di D. Eleonora di Aragona figliuola di Ferrante 1° maritata ad Ercole 1° d'Este duca di Ferrara, e D. Diego Cavaniglia.
Il 7° di Beatrice d'Aragona.
L'8° d'Isabella d'Aragona duchessa di Milano e di Bari, e di Bona Sforza sua figlia.
Il 9° il proseguimento della istoria di Bona Sforza.
Il 10° di Ercole d'Este, poi secondo duca di Ferrara e primo di tal nome, con Costanza di Capua.
L’11° di Gio. Ant. Tomacello.

Il 12° della origine delle grandezze della famiglia Farnese, la quale benchè avesse vissuto alquanto nobilmente e fatto parentali nobili, pure restò sempre in istato privato, e solamente salì in grandezza per Giovanna Farnese detta Vannozza, figliuola di Ranuccio gentiluomo romano di mediocre fortuna.
Costei fu amata alla follia dal Cardinale Rodrigo Borgia, poi papa col nome di Alessandro VI, e gli partorì 4 figliuoli che furono Francesco, Cesare, Goffredo e Lucrezia. Alessandro Farnese nipote di Vaunozza per i suoi corrotti costumi fu querelato e per ordine di papa Innocenzo VIII fu cacciato in carcere in castel S. Angelo ed avrebbe sofferto l'ultimo supplizio se il cardinal Borgia non lo avesse salvato; e poco dappoi per opera dello stesso porporato fuggì dal carcere e riparò nella città di Aquila, dove rimase fino alla morte di Innocenzo VIII. Assunto al pontificato il Borgia, Alessandro Farnese tosto ritornò a Roma; e quando il nuovo pontefice fece la prima promozione de' cardinali, ad istanza di sua zia Vannozza fu assunto a quella dignità essendo di pochi mesi oltre i 24 anni di età, e quindi ottenne ricchi benefizi ed alti uffizi. Nel 1534 poi successe a Clemente VII nel pontificato ed assunto il nome di Paolo III, innalzò a' più alti onori ed in grande potenza i suoi parenti. Perciò a Pier Luigi suo figliuolo sacrilego, procreato con Clelia sua amante, donò Parma e Piacenza, ed Alessandro e Ranuccio Farnese suoi nipoti e figliuoli del detto Pier Luigi, creò cardinali, al terzogenito poi per nome Orazio donò il ducato di Castro e ad Ottavio primogenito fece menare in moglie Margherita d'Austria vedova di Alessandro de Medici duca di Firenze figliuola naturale di Carlo V. con la dote di duc. 250mila, il quale fu poi duca di Parma e Piacenza.

Il 13° racconto è intorno agli amori di Antonio di Bologna e della duchessa di Amalfi.

Il 14° della morte di Jacopo Sanseverino conte della Saponara e suoi fratelli Ascanio e Gismondo, de' quali osservansi i tre magnifici sepolcri lavorati dal celebre Gio. da Nola nella chiesa di S. Severino in Napoli. Questi giovani mal soffrendo le lascivie di Lancia Dentice moglie di Girolamo Sanseverino loro zio, fecero ammazzare un suo drudo, per la qual cosa la Dentice irata giurò vendicarsi, e tanto seppe operare, che indusse il marito a fare avvelenare i tre nipoti. Di fatti nel mattino del 5 di novembre del 1516 i tre fratelli si portarono alla caccia e quando la servitù apprestò loro il pranzo, due servi siciliani, sedotti dallo zio Girolamo, li avvelenarono col vino. Tosto il veleno produsse l'effetto, per la qual cosa ritornati a casa furono inutilmente prodigati loro tutti i rimedi, ed alla fine si morirono nel termine di quattro giorni.

Il 15° tratta degli amori di Giulia Caracciolo.
Il 16° del vicerè D. Pietro di Toledo e Vincenza Spinelli.
Il 17° di Carlantonio Brancaccio.
Il 18° di Paolo Poderico.
Il 19° di Violante Diaz Carlona duchessa di Palliano e di Marcello Capece e di Diana Brancaccio.
Il 20° di Fabrizio Muscettola.
Il 21° di Marco Ant. Palagano.
Il 22° degli amori di D. Giovanni d' Austria in Napoli.
Il 23° di Giacomo Caracciolo.
Il 24° di Carlo Tocco conte di Montemiletto.
Il 25° di Gio. Batt. Lomellino.
Il 26° di Antonio della Quadra.
Il 27° di Maria d' Avalos principessa di Venosa e di Fabrizio Carafa duca di Andria.
Il 28° di Elena del Tufo.
Il 29° di Beatrice Moccia.
Il 30° di alcuni della famiglia Vargas, Gaetani ed altri.
Il 31° di Odoardo Vaaz conte di Mola.
Il 32° della morte di Ciccio Coppola.
Il 33° di Marcello Grasso.
Il 34° di Peppa Zambrano.
Il 35° di Filippo Dura.

Il 36° di Gaspare Sersale, e con questo termina l'opera. Il supplemento poi contiene gli altri 14 racconti, che riguardano Giovan Battista Carafa signor di Castelvetere e della Roccella-Laura Crispano-Maria Sanseverino contessa di Nola-Caterina Sanseverino figliuola del principe di Bisignano-Isabella Acquaviva figliuola del marchese di BitontoPietro Antonio Lanario- Isabella Colonna principessa di Solmona-Diana de Luna-Diana Brancaccio Diana MastrogiudiceIsabella Gonzaga moglie di Ferrante Francesco Avalos marchese di Pescara Ferrante Carafa e Faustina Capecelatro Diana de Cadenars-e Gio. Francesco Diaz y Carlon-L'autore narra ratti di donzelle, amori turpi, adulteri, ferimenti ed omicidi non per lo scopo di depravare il costume, anzi per correggerlo, facendo palesi i vizi di uomini nobilissimi e potenti, i quali rotti ad ogni bruttura e giovandosi della forza, che loro dava il potere, met. tevano il disonore e la vergogna nelle oneste famiglie, e poi sdegnando che altri usasse delle loro donne, si davano ad atroci delitti».
Lasciamo quindi la nostra guida, soddisfatti per le tante notizie apprese, che indirizzano lo studioso su questa fonte coeva al fine di tracciare prima un profilo sugli amori dei membri delle famiglie dei sovrani Aragonesi e poi su quella che fu la Corte dell’amore della casa reale del Regno di Napoli.
Il testo, rinvenuto dopo vani tentativi, si presenta leggibile in ogni sua parte e, proprio come preannunciato dallo storico, è un vero e proprio racconto di fatti da chi li conosce bene per averli vissuto e raccontati nell’arco massimo di 20/30 anni dopo la morte del vecchio sovrano.
In questa prima fase ci siamo occupati perciò degli amori del capostipite dei reali Aragonesi di Napoli, Re Alfonso I, detto il Magnanimo, e in particolare, di un giovane da lui amato alla follia e chiamato Gabriele».**
C’è da dire che la scrittura del libro posseduto da Camillo Minieri Riccio, trascritta a nome di Silvio Ascanio Corona, e titolata Fatti tragici amorosi successi in Napoli, e altrove ai napoletani, a suo dire era una «copia esemplata nel 1728». E’ stato pertanto necessario il confronto con un altro testo rinvenuto e titolato Discorsi diversi tragici et amorosi, che ha sempre inizio con il primo di essi su Re Alfonso, dopo avere il trascrittore precisato il titolo apposto sul frontespizio interiore: «Successi diversi traggici, et amorosi occorsi in Napoli, et altrove a Napol[lita]ni, composti dà Silvio Corona cominciando prima dalli Re Aragonesi», e alla pagina 1 il titolo del Discorso Primo: D’Alfonso Primo Ré di Napoli.***
[Aggiunte o modifiche di questa trascrizione all’interno della precendete saranno a volte riportate col nome dell’autore e a volte semplicemente in parentesi quadra con la lettera b, intendendosi con essa il secondo manoscritto consultato.****]
Claudio Rovito
Sabato Cuttrera

 

note bibliografiche

1. Niccola Morelli, Vite de' re di Napoli, con lo stato delle scienze, delle arti, Volumi 1-2, Nobile, Napoli 1849.
2. Ivi.
3. Carlo Tito Dalbono, Vizi e virtu d'illustri famiglie, Tipografia dell’Industria, Napoli 1874.
4. Ivi. Cfr. Arturo Bascetta, Amanti e meticci di Re Roberto il Saggio, ABE Napoli 2020.
5. Ivi
6. Ivi. Cfr. Sabato Cuttrera, Il vedovo allegro: amanti e bastardi di re Ferrate I, ABE Napoli 2022.
7. Ivi.
8. Ivi.
9. Ivi.
10. Carlo Tito Dalbono, Vizi e virtu d'illustri famiglie, Tipografia dell’Industria, Napoli 1874.
11. Ivi.
12. Giacomo Della Morte, Cronica di Napoli di Notar Giacomo, pubblicata a cura di Paolo Garzilli, dalla Stamperia Reale, Napoli 1845.
13. Ivi.
14. Ivi.
15. Ivi.
16. Bonaventura da Sorrento, Sorrento sacra e Sorrento illustre. Epitome, Tipografia San Francesco, S.Agnello di Sorrento, 1877.
17. Ivi.
18. Biagio Aldimari, nelle Memorie historiche di diverse famiglie nobili, Tipografia Raillard, Napoli 1691, pagg.279 e segg..
19. Ivi.
20. Ivi.
21. Ivi.
22. Ivi.
23. Enrico Detken, L'araldo: almanacco nobiliare del Napoletano, Detken, Napoli 1894, pagg.91 e segg.
24. Ivi.
25. Pietro Anello Persico, Descrittione della citta di Massa Lubrense mandata in luce da Giovanni Battista Persico, Savio della Corte Arciu, Napoli 1646, pagg. 62 e segg.
26. Paolo Regio, Dialogi della felicità, cit. Cfr. Giuseppe Castaldi, Francesco Castaldi, Storia de Torre del Greco, cap.xviii, Tip.Elzeviriana, Torre del Greco - Napoli 1880.
27. Ivi.
28. Tristano Caracciolo, De varietate fortunae. In: Rerum Italicarum scriptores. Raccolta degli storici italiani dal cinquecento al millecinquecento, ordinata da L.A. Muratori, nuova edizione riveduta, ampliata e corretta con la direzione di Giosué Carducci, Città di Castello, Coi tipi dell’editore Scipione Lapi; [poi] Bologna, Nicola Zanichelli, 1900-1975.
29. S.G., Quello che si fa ora in Roma, ovvero le magagne papaline e borboniche, Napoli 1862.
30. Tristano Caracciolo, De varietate fortunae. In: Rerum Italicarum scriptores. Raccolta degli storici italiani dal cinquecento al millecinquecento, ordinata da L.A. Muratori, nuova edizione riveduta, ampliata e corretta con la direzione di Giosué Carducci, Città di Castello, Coi tipi dell’editore Scipione Lapi; [poi] Bologna, Nicola Zanichelli, 1900-1975.
31. Ivi.
32. Ivi.
33. Ivi.
34. S.Gatti, Museo di letteratura e filosofia, per cura di S.Gatti, 17, 6, Androsio, Napoli 1859.
35. Camillo Minieri Riccio, Catalogo di mss. della Biblioteca di Camillo Minieri Riccio, Volume 1, Giuseppe Dura, Napoli 1868. Contenuti relativi al libro n.33.
36. Ivi.
37. S.Gatti, Museo di letteratura e filosofia, per cura di S.Gatti, 17, 6, Androsio, Napoli 1859.
38. Ms A da: Silvio Corona, Successi diversi traggici, et amorosi occorsi in Napoli, et altrove a Napol[lita]ni, composti dà Silvio Corona cominciando prima dalli Re Aragonesi; Discorso Primo: D’Alfonso Primo Ré di Napoli, pag.1.
39. Ms B., probabile copia del ms di Silvio-Ascanio Corona, Fatti tragici amorosi successi in Napoli, e altrove ai napoletani, Napoli 1728, a suo tempo posseduta da da: Minieri Riccio, cit.
40. Ms A da: Silvio Corona, Successi diversi traggici, et amorosi occorsi in Napoli, et altrove a Napol[lita]ni, composti dà Silvio Corona cominciando prima dalli Re Aragonesi; Discorso Primo: D’Alfonso Primo Ré di Napoli, pag.1.
41. Ivi.
42. Ivi.
43. Ivi.
44. Benedetto Croce, Storie e Leggende Napoletane, II Ediz. riveduta, Laterza, Bari 1923, Lucrezia d’Alagno, pag.87.
45. Ivi.
46. In: V.Iandiorio, Lucrezia d’Alagno: un’amante per Regina, ABE Napoli 2023.
47. Libero adattamento da: Lodovico Domenichi, Historia di m. Lodouico Domenichi, di detti et fatti notabili di diuersi principi, et huomini privati moderni, Gabriel Giolito de Ferrari, Venezia 1556.
48. Fine libero adattamento da: Lodovico Domenichi, Historia, cit.