IL RICORDO Gennaro Bellizzi

Fissai a lungo quel carro funebre, una Jaguar scura, perché a lungo sostò sul Piazzale di San Ciro e i miei sentimenti erano in lotta tra di loro: volevo che partisse subito e sparisse dai miei occhi, per svegliarmi da quel sogno doloroso che stavo facendo, ma al contempo desideravo che restasse lì ancora un poco, per proseguire un legame anche fisico che, invece, comprendevo ormai essere prossimo alla lacerazione definitiva. Sapevo perfettamente, come in quella vettura, si racchiudessero tante ragioni della mia fede, tante scelte della mia vita, tanti dubbi risolti e che avrebbero potuto, da qual momento, riaffiorare. In quella Jaguar c’era molto del nostro matrimonio, delle scelte che insieme con mia moglie Teresa avevo fatto, dei sei figli che avevamo messo al mondo; in quella bara che appena si intravedeva dietro i vetri bruniti, c’era il tramite di cui Dio stesso si era servito per attrarmi a sé e rendermi figlio suo.
In quel banalissimo involucro di legno lucente, si custodivano le spoglie di quel sacerdote, ormai rilassato nella dolcezza della morte, il volto serenamente abbandonato alla pace di Cristo, il corpo non più segnato dalla crudezza e dalla spietatezza di una malattia, che lo aveva fiaccato, ma mai piegato, prostrato ma mai annullato nella gioia di vivere e donare se stesso agli altri, secondo il modello a cui il Signore lo aveva chiamato. In quella Jaguar stava per chiudersi definitivamente la storia terrena, per cominciare quella Eterna di Don Michele Grella. Avevo pianto ininterrottamente nella Liturgia Eucaristica appena conclusa , avevo fatto fatica ad andare avanti nel donargli , dall’ambone, il mio saluto. Un medico non dovrebbe mai emozionarsi, mai cedere al sentimento, davanti alla morte: perché alla morte ci si dovrebbe abituare, la morte è parte stessa di questa professione ; invece a me era accaduto l’esatto contrario. In quella notte in cui una Parrocchia, una Città, si erano fermate per vegliarlo, avevo rivissuto la mia vita, i giorni in cui quel nostro rapporto crebbe, si rafforzò, per divenire trave portante della mia esistenza.
In quella Jaguar, c’era il Don Michele giovane, amico di mio padre, fin da quando, prete quasi imberbe , aveva esercitato il suo ministero all’orfanotrofio del Carmine, il quartiere in cui papà era vissuto e in cui io stesso ero nato; c’era il sacerdote che vedevo tutto indaffarato, negli anni ’60, davanti San Ciro o che incrociavo in una 500 grigia, mentre sfrecciavo con la mia bicicletta. Eccola lì la Parrocchia di San Ciro, un edificio divenuto mastodontico, appena issatosi al posto di quella chiesetta scarna e minuta che avevo conosciuto al mio arrivo in quel quartiere; un edificio costruito, pietra su pietra , coi sacrifici di tutti, ma soprattutto suoi, e da lì poco distante, la scuola parrocchiale, battezzata col nome “Gioacchino Pedicini”, nel ricordo del Vescovo avellinese che aveva partecipato ai lavori del Concilio Vaticano II.
Entravo raramente in quella Chiesa, giusto a Natale e a Pasqua, quasi sempre costretto dai miei genitori; qualche volta vi giungevo per chiedere al Signore qualche favore spesso banalissimo. Mi ricordo, per esempio, che vi andai una domenica mattina, nel giugno del 1970 (avevo dodici anni) e pregai perché la sera l’Italia battesse il Brasile e vincesse il mondiale di calcio: finì malissimo e questo mi mise parecchio in collera col Padreterno.
Di Don Michele sentivo parlare come di un prete sovversivo e di quella Parrocchia e del suo piano interrato, come di un luogo in cui si annidava la contestazione (termine espresso con un misto di timore e disprezzo dai benpensanti), che in quegli anni si era sviluppata anche ad Avellino alla sequela di quanto cominciato in Francia mesi prima.
Don Michele, in realtà, in maniera profetica, stava guardando al Concilio, alle parole di Giovanni XXIII, il suo Papa, che voleva un Vangelo portato a tutti, fatto comprendere al mondo intero, non più tenuto proprietà di un’èlite. Egli, col dialogo serrato, e soprattutto con la forza del Vangelo stava cercando di sfrondare (e in gran parte ci riuscì) da ogni possibile rischio di violenza fisica e verbale, quel movimento di giovani, ansiosi di partecipare in prima persona alla costruzione di una società migliore: quel Vangelo, se necessario, trasmesso anche attraverso le corde di una chitarra, durante la Santa Messa, il Vangelo che esalta gli “operatori di pace” e condanna la violenza e la guerra.
Don Michele e Don Ferdinando Renzulli, le miti “voci tonanti” che, in parallelo, l’uno attraverso un presepe composto coi fogli di giornali che parlavano della guerra del Vietnam, l’altro attraverso l’affresco della Ferrovia, che chiama ancora oggi, alla fratellanza fra i popoli, invitavano tutti a responsabilità ed amore.
In quella Jaguar c’era il “Correttore” della Misericordia, quel gruppo di volontari toscani, venuti fra i primissimi a soccorrere la nostra gente dopo quella maledetta notte del 23 novembre ’80 e che, chissà poi perché, trovarono approdo ed ospitalità in quella Parrocchia di San Ciro, accolti da quel Sacerdote che in quelle stesse ore stava dando ospitalità in Chiesa a coloro che, da un momento all’altro si erano trovati senza il proprio alloggio e con tante incognite nel proprio futuro
In quella Jaguar c’era la “chiamata” mia e di mia moglie, a un’esperienza che avrebbe segnato profondamente la nostra vita, una chiamata compiutasi in una sera di novembre dell’83; noi, fidanzati insoddisfatti, noi colpiti, in uno di quei rari passaggi in Chiesa, da quella frase del profeta Geremia, affissa sui muri della Parrocchia: “Cambierò le vostre lacrime in gioia!”, noi ci eravamo rivolti a Don Michele , col pretesto di annunciargli la mia recentissima laurea in Medicina: “tu si rrobba bbona !”, mi rispose con quel colpetto sulla testa tipico della sua gestualità, “ma ora venitevi a fare le catechesi!” Gli rassegnammo i nostri peccati, il timore di non essere degni di vivere quello che vedevamo come un impegno molto serio, per eletti, cercavamo probabilmente una soluzione rapida a quel nostro stato d’animo, una specie di tocco magico.
“Fatevi le catechesi e lasciate fare al Signore”, fu la sua risposta senza esitazioni che ci diede. E allora partimmo per quello che, per ventisette anni , sarebbe stato un viaggio senza pause, fatto di momenti di particolare intensità, ma soprattutto, attraverso il quale, il Signore è stato capace di orientare le nostre scelte fondamentali. In quella serata, di un autunno avanzato iniziò anche il nostro rapporto diretto con Don Michele, un rapporto veramente profondo, filiale, con quel sacerdote che sarebbe divenuto guida insostituibile della nostra esistenza.
L’esperienza neocatecumenale – a quella mi sto riferendo – era entrata nella Parrocchia di san Ciro qualche anno prima, per una serie di situazioni particolari, che avevano coinvolto anche la vicina Chiesa del Rosario. Era iniziata, fondamentalmente, in virtù del senso di accoglienza di Don Michele, che aveva dato ospitalità a catechisti e catechizzati, messi alla porta trecento metri più in là. Ma subito egli aveva iniziato a vivere in prima persona quell’esperienza, da cui era rimasto palesemente affascinato: di essa gli piacevano soprattutto il contatto approfondito e quotidiano con la Parola e quello spirito di evangelizzazione , il desiderio di portare, soprattutto ai lontani l’annuncio della Buona Notizia.
Fu per lui naturale passare in pochissimo tempo, da semplice “curatore” esterno, a componente diretto della “Comunità”, maestro e discepolo al tempo stesso. Entrare in condivisione totale del suo ministero, coi laici, rappresentava per lui raggiungere il pieno compimento del Concilio, che molto aveva espresso circa il pieno coinvolgimento dei non consacrati nell’azione della Chiesa. Un modo di pensare, quello di Don Michele, non condiviso da molta parte del Clero avellinese, che più di una perplessità gli ha sollevato nel tempo, circa il suo “farsi prendere” totalmente da questa esperienza di spiccata natura laicale. Rimproveri diretti gli giunsero anche da qualche Vescovo, a cui egli rispose con la piena obbedienza , non disgiunta però dall’amarezza di sentirsi non compreso, come talvolta mi ha confidato e come, di fatto è accaduto.
In realtà egli, pur vivendo con intensità l’esperienza neocatecumenale, ha sempre accolto in Parrocchia qualunque altra realtà di Fede, dagli scout, alla Milizia dell’Immacolata. E poi Don Michele stesso, da uomo libero quale è stato fino alla fine, ha sempre vissuto del Cammino sì la radicalità, ma mai i radicalismi, che pure (come avremmo scoperto in seguito) in esso sono presenti e che spesso gli si sarebbero voluti imporre. Mai, per Don Michele la vita del Cammino si poteva intendere come un pedissequo “timbrare il cartellino” dei singoli appuntamenti o liturgie, elemento peraltro anch’esso presente in maniera diffusa. Per Don Michele il Cammino era soprattutto l’anelito a far conoscere la meraviglia di un Dio che è concretezza, che scende verso l’uomo e si china sulla sua sofferenza e sulla sua miseria, non lo giudica, ma lo ama per come egli è!
Un modo di vivere il Cristianesimo che in fondo era sempre stato il suo; un modo che si rappresentava ogni giorno nell’aprire le porte della Chiesa, ma soprattutto del suo cuore a tutti, anche a chi gli avesse fatto del male: “Il Signore mi ha fatto il dono grande di non scandalizzarmi di nulla”, mi disse un giorno in cui ero rimasto esterrefatto di fronte ad una palese cattiveria che aveva subìto. Da quella sera di novembre, dunque, la vita mia e di mia moglie si legarono per sempre a quell’uomo che fu per noi sacerdote, confessore, ma prima di tutto Padre e guida spirituale: egli era per noi il vero garante dell’esperienza neocatecumenale. In quell’esperienza noi avremmo investito molta parte della nostra vita, vivendola, lo dico oggi, a distanza di anni, senza remore e senza barriere, anche a costo di esporre la nostra vita alla più totale nudità.
Con Don Michele iniziammo così una lunghissima teoria di evangelizzazioni, incontri, catechesi, “passaggi”, annunci. A volte, io e mia moglie, guardandoci indietro, ci chiediamo come sia stato possibile che due persone come noi, fondamentalmente chiuse e discrete, abbiano avuto la capacità di parlare rivolgendosi a consessi spesso molto numerosi. Ma soprattutto guardiamo alla nostra vita e a come essa si sia sviluppata attraverso percorsi da noi mai programmati in precedenza; un solo esempio per tutti, l’accoglienza di molti figli.
Tanti episodi e tanti dialoghi potremmo raccontare fra quelli avuti con Don Michele in questo quarto di secolo della nostra vita, così come tanti sono stati i dubbi e le scelte di coscienza che gli abbiamo rassegnato e per i quali gli abbiamo chiesto consiglio! Tante volte l’integralismo di alcune proposte, che rischiava anche di schiacciarci attraverso il senso di colpa, egli lo ha saputo temperare con il linguaggio dell’amore e della pazienza rendendocelo comprensibile e attuabile nei tempi opportuni. E in mente mi vengono i momenti in cui siamo corsi da lui, convinti di essere al centro di ingiustizie, sciorinandogli le nostre amarezze, mentre egli ci fissava nel suo atteggiamento che esprimeva la massima attenzione, labbra strette e leggermente protese in avanti. Cominciammo con l’annuncio del nostro matrimonio, col corollario delle difficoltà che ci apparivano insormontabili, a partire da quelle economiche. E poi l’attesa dei nostri sei figli, in cui si mescolavano la gioia e la preoccupazione, l’ansia e le paure per il loro futuro. Nulla lo turbava, ma a tutto rispondeva con un fluire di parole di sostegno ed incoraggiamento mescolate a riferimenti della Scrittura, che rappresentavano l’invito che ci rivolgeva a leggere l’intervento di Dio, che sempre è volto al Bene dell’Uomo.
La Croce non lo ha mai impaurito, essendo piuttosto essa, la boa a cui attaccarsi nelle tempeste della vita; “secondo te – fu l’incipit di un suo discorso che mi rivolse in uno di quesi giorni in cui il dolore era particolarmente faticoso da tollerare, uno di quei giorni in cui la luce accesa del suo studio, di sera, bastava a restituirmi sollievo – “ secondo te, se proprio Cristo avesse voluto scegliere di morire, non poteva farlo semplicemente, in maniera diretta , senza subire particolari patimenti?
Invece egli scelse di passare attraverso gli insulti, la flagellazione, la corona di spine, soprattutto attraverso il tradimento degli amici, e infine attraverso i chiodi della croce, affinché tutto venisse santificato”. Già, santificato: il dolore, un evento che comunque fa parte della vita di tutti, l’umiliazione in cui frequentemente ogni uomo può incorrere sono normalmente intesi come avvenimenti che possono distruggere qualunque persona: viceversa per un cristiano illuminato dalla Parola di Dio essi possono diventare via di santità e strumento di salvezza; quante volte ho visto compiersi questa Parola in Don Michele e quante volte mi sono reso conto di come fosse difficile essere cristiani veri!
Ho girato il mondo insieme con lui, dalla Spagna agli Stati Uniti alla Germania e sempre c’era il momento in cui passeggiare insieme, per confidargli, da parte mia perplessità e speranze e dialogare sul Cammino, parte integrante della mia vita ma anche della sua: e scoprirne via via nel corso degli anni anche i limiti che cominciavano ad affiorare, o ancor meglio gli errori e le deviazioni in cui stava cadendo; se ne parlava spesso tra noi e anche con altri fratelli. Egli sentiva come questa esperienza, a cui peraltro avrebbe continuato sempre a guardare con favore, andasse rivitalizzata e soprattutto recuperasse le ragioni delle origini: il percorso di riscoperta del Battesimo, piuttosto che la macchina organizzativa [“Facciamo il Cammino e non pensiamo ad altro!”], amava ripetere; l’evangelizzare gratuito, piuttosto che la ricerca dei numeri da incrementare [“Tanta gente, dopo le catechesi, non è entrata in comunità, ma quel che conta è che abbia ricevuto l’Annuncio!”], affermava spesso; il coinvolgimento di tutti piuttosto che i ruoli granitici e inamovibili; lo sciogliersi, dopo un certo tempo, dentro la Parrocchia e più in generale dentro la Chiesa, per essere quel “lievito” di cui tanto Gesù aveva parlato, piuttosto che arroccarsi in un circolo chiuso e sterile [“Ma questi quando si sciolgono?”], si chiedeva frequentemente; la libertà del Cristiano che si sviluppa attraverso l’ascolto e la meditazione della Parola e, se necessario, anche attraverso gli errori, piuttosto che la dipendenza totale dal catechista e dal sistema stesso [“Voi siete un’altra cosa!”], ribadiva a coloro che intendevano così questo itinerario.
E così, via via, cominciammo a condividere l’idea di operare insieme, nel tentativo di “ritornare alle origini”, quanto meno nella nostra Parrocchia e nella nostra Diocesi, anche se questo, lo sapevamo bene, sarebbe costato contrasti coi “vertici” e con tanti fratelli legati al “sistema” più che a lui e alla Parrocchia. In questo tentativo complesso e difficile, noi, con lui , ci sentivamo tranquilli, perché confidavamo nella forza creatrice dello Spirito che sempre lo aveva guidato in tutta la sua vita, uno Spirito “impregnato” della Profezia di Cristo, della Profezia del Vangelo, di quella Profezia che, non di rado e quasi inevitabilmente, lo portava ad andare, senza timore, controcorrente, scegliendo la posizione più scomoda: non era forse accaduto questo, quando aveva sposato appieno, anzi talvolta addirittura anticipato, le conclusioni del Concilio, applicandole immediatamente?
E quando si era speso per i “poveretti” delle casupole di S.Antonio Abate, non era forse andato controvento? E quando aveva difeso i ragazzi occupanti lo Scientifico, non aveva forse rischiato in proprio, la disapprovazione anche dura? Ma lo Spirito che lo ha costantemente animato lo portava sempre a guardare un metro oltre, piuttosto che piantarsi in terra, come un mulo, a difendere l’esistente o, ancor peggio, qualche privilegio personale.
Quello Spirito avrebbe sempre impedito a Don Michele di chiudersi “a riccio” nelle quattro mura della Parrocchia, senza occuparsi anche di altro. Egli, per esempio, amava la Politica, quella buona, anche qui come espressione del Vangelo, che si traduce in azione concreta, in servizio per gli altri e non temeva di “schierarsi” quando si convinceva della bontà di un progetto: non svelo segreti inconfessabili, nel ricordare il suo convinto sostegno ad Antonio Di Nunno, che con lui aveva condiviso dei momenti, anni prima, nel percorso dell’Azione Cattolica; me la ricordo bene quella sera del giugno del ’95, quando, passeggiando a braccetto in attesa dei risultati elettorali, ci incoraggiavamo a vicenda sull’esito, perché entrambi confidavamo nelle doti politiche, tecniche e soprattutto umane di “Tonino”, che, sapevamo, sarebbe stato un buon Sindaco per la nostra Città.
Ma la vera azione politica di Don Michele è stata quella quotidiana, di vicinanza ai deboli e agli indifesi, agli ultimi, agli “scartati”; un’azione fatta di porte fisicamente e perennemente aperte per ricevere ogni persona e ogni richiesta, sia quelle da soddisfare direttamente che quelle di cui farsi portavoce presso chi potesse dare un aiuto.
Ogni mattina in cui potevo, mi recavo in Parrocchia verso le 9, per prendere un caffè insieme e la scena era sempre la stessa: quella di decine di persone, povera gente che lo attendeva davanti al suo ufficio, zingari o abitanti del quartiere e oltre, con la mano stesa a prendere tutto quanto egli tirasse fuori dalle tasche o dal cestino della colletta appena effettuata nella prima Messa del giorno; ogni volta che lo accompagnavo all’ufficio postale di Valle dal nostro amico Enzo che ne era il Direttore, eccolo tirare fuori un fascio di bollette da pagare, per chi non poteva, con molti dei presenti pronti ad integrare quello che mancava, perché talora le richieste superavano le sue possibilità. La sua azione politica è stata anche la Scuola “Gioacchino Pedicini”, dapprima semplice Scuola dell’infanzia, poi anche Scuola primaria: un modo anche questo di evangelizzare , come amava ripetere, “i bambini e con loro i genitori”; anche un modo per offrire un’opportunità di lavoro a tante operatrici, che, nel tempo, hanno contribuito a tenere aperta questa struttura.
Certo, una gestione , la sua, formalmente non ortodossa, che talora gli ha causato anche dolorose e pesanti conseguenze economiche per le quali, spesso, molti di noi, suoi collaboratori, intervenivamo per dare una mano a risolverle; ma come avrebbe potuto essere diversamente, vista la retta bassissima richiesta, una retta che poi, tante volte, di fronte alla manifestazione di difficoltà economiche delle famiglie dei bambini (vere o anche pretestuose), non veniva neanche riscossa? Ricordo un dialogo che, su questo argomento, Don Michele ebbe col suo amico di sempre, Ciriaco De Mita; questi gli domandò quale fosse il costo della retta della scuola e Don Michele glielo disse.
De Mita rimase profondamente stupìto per l’irrisorietà della cifra e gli spiegò che sua figlia pagava quasi quattro volte tanto per un suo bambino; a questo punto intervenni io per aggiungere come, molto spesso, neppure questa cifra irrisoria venisse pagata da tutti. A quel punto la contestazione dell’ex premier divenne ancora più vivace (“Michele, ma questo è assurdo!”). Don Michele senza scomporsi gli rispose: – “Ciriaco, a me dicono che non hanno soldi e io non mi sento di dubitare: non hanno soldi!”…
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