Don Michele Grella di Avellino. Il parroco di San Ciro, 10 anni dopo

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IL RICORDO Gennaro Bellizzi

Fissai a lungo quel carro funebre, una Jaguar scura, perché a lungo sostò sul Piazzale di San Ciro e i miei sentimenti erano in lotta tra di loro: volevo che partisse subito e sparisse dai miei occhi, per svegliarmi da quel sogno doloroso che stavo facendo, ma al contempo desideravo che restasse lì ancora un poco, per proseguire un legame anche fisico che, invece, comprendevo ormai essere prossimo alla lacerazione definitiva. Sapevo perfettamente, come in quella vettura, si racchiudessero tante ragioni della mia fede, tante scelte della mia vita, tanti dubbi risolti e che avrebbero potuto, da qual momento, riaffiorare. In quella Jaguar c’era molto del nostro matrimonio, delle scelte che insieme con mia moglie Teresa avevo fatto, dei sei figli che avevamo messo al mondo; in quella bara che appena si intravedeva dietro i vetri bruniti, c’era il tramite di cui Dio stesso si era servito per attrarmi a sé e rendermi figlio suo.
In quel banalissimo involucro di legno lucente, si custodivano le spoglie di quel sacerdote, ormai rilassato nella dolcezza della morte, il volto serenamente abbandonato alla pace di Cristo, il corpo non più segnato dalla crudezza e dalla spietatezza di una malattia, che lo aveva fiaccato, ma mai piegato, prostrato ma mai annullato nella gioia di vivere e donare se stesso agli altri, secondo il modello a cui il Signore lo aveva chiamato. In quella Jaguar stava per chiudersi definitivamente la storia terrena, per cominciare quella Eterna di Don Michele Grella. Avevo pianto ininterrottamente nella Liturgia Eucaristica appena conclusa , avevo fatto fatica ad andare avanti nel donargli , dall’ambone, il mio saluto. Un medico non dovrebbe mai emozionarsi, mai cedere al sentimento, davanti alla morte: perché alla morte ci si dovrebbe abituare, la morte è parte stessa di questa professione ; invece a me era accaduto l’esatto contrario. In quella notte in cui una Parrocchia, una Città, si erano fermate per vegliarlo, avevo rivissuto la mia vita, i giorni in cui quel nostro rapporto crebbe, si rafforzò, per divenire trave portante della mia esistenza.
In quella Jaguar, c’era il Don Michele giovane, amico di mio padre, fin da quando, prete quasi imberbe , aveva esercitato il suo ministero all’orfanotrofio del Carmine, il quartiere in cui papà era vissuto e in cui io stesso ero nato; c’era il sacerdote che vedevo tutto indaffarato, negli anni ’60, davanti San Ciro o che incrociavo in una 500 grigia, mentre sfrecciavo con la mia bicicletta. Eccola lì la Parrocchia di San Ciro, un edificio divenuto mastodontico, appena issatosi al posto di quella chiesetta scarna e minuta che avevo conosciuto al mio arrivo in quel quartiere; un edificio costruito, pietra su pietra , coi sacrifici di tutti, ma soprattutto suoi, e da lì poco distante, la scuola parrocchiale, battezzata col nome “Gioacchino Pedicini”, nel ricordo del Vescovo avellinese che aveva partecipato ai lavori del Concilio Vaticano II.
Entravo raramente in quella Chiesa, giusto a Natale e a Pasqua, quasi sempre costretto dai miei genitori; qualche volta vi giungevo per chiedere al Signore qualche favore spesso banalissimo. Mi ricordo, per esempio, che vi andai una domenica mattina, nel giugno del 1970 (avevo dodici anni) e pregai perché la sera l’Italia battesse il Brasile e vincesse il mondiale di calcio: finì malissimo e questo mi mise parecchio in collera col Padreterno.
Di Don Michele sentivo parlare come di un prete sovversivo e di quella Parrocchia e del suo piano interrato, come di un luogo in cui si annidava la contestazione (termine espresso con un misto di timore e disprezzo dai benpensanti), che in quegli anni si era sviluppata anche ad Avellino alla sequela di quanto cominciato in Francia mesi prima.
Don Michele, in realtà, in maniera profetica, stava guardando al Concilio, alle parole di Giovanni XXIII, il suo Papa, che voleva un Vangelo portato a tutti, fatto comprendere al mondo intero, non più tenuto proprietà di un’èlite. Egli, col dialogo serrato, e soprattutto con la forza del Vangelo stava cercando di sfrondare (e in gran parte ci riuscì) da ogni possibile rischio di violenza fisica e verbale, quel movimento di giovani, ansiosi di partecipare in prima persona alla costruzione di una società migliore: quel Vangelo, se necessario, trasmesso anche attraverso le corde di una chitarra, durante la Santa Messa, il Vangelo che esalta gli “operatori di pace” e condanna la violenza e la guerra.
Don Michele e Don Ferdinando Renzulli, le miti “voci tonanti” che, in parallelo, l’uno attraverso un presepe composto coi fogli di giornali che parlavano della guerra del Vietnam, l’altro attraverso l’affresco della Ferrovia, che chiama ancora oggi, alla fratellanza fra i popoli, invitavano tutti a responsabilità ed amore.
In quella Jaguar c’era il “Correttore” della Misericordia, quel gruppo di volontari toscani, venuti fra i primissimi a soccorrere la nostra gente dopo quella maledetta notte del 23 novembre ’80 e che, chissà poi perché, trovarono approdo ed ospitalità in quella Parrocchia di San Ciro, accolti da quel Sacerdote che in quelle stesse ore stava dando ospitalità in Chiesa a coloro che, da un momento all’altro si erano trovati senza il proprio alloggio e con tante incognite nel proprio futuro
In quella Jaguar c’era la “chiamata” mia e di mia moglie, a un’esperienza che avrebbe segnato profondamente la nostra vita, una chiamata compiutasi in una sera di novembre dell’83; noi, fidanzati insoddisfatti, noi colpiti, in uno di quei rari passaggi in Chiesa, da quella frase del profeta Geremia, affissa sui muri della Parrocchia: “Cambierò le vostre lacrime in gioia!”, noi ci eravamo rivolti a Don Michele , col pretesto di annunciargli la mia recentissima laurea in Medicina: “tu si rrobba bbona !”, mi rispose con quel colpetto sulla testa tipico della sua gestualità, “ma ora venitevi a fare le catechesi!” Gli rassegnammo i nostri peccati, il timore di non essere degni di vivere quello che vedevamo come un impegno molto serio, per eletti, cercavamo probabilmente una soluzione rapida a quel nostro stato d’animo, una specie di tocco magico.
“Fatevi le catechesi e lasciate fare al Signore”, fu la sua risposta senza esitazioni che ci diede. E allora partimmo per quello che, per ventisette anni , sarebbe stato un viaggio senza pause, fatto di momenti di particolare intensità, ma soprattutto, attraverso il quale, il Signore è stato capace di orientare le nostre scelte fondamentali. In quella serata, di un autunno avanzato iniziò anche il nostro rapporto diretto con Don Michele, un rapporto veramente profondo, filiale, con quel sacerdote che sarebbe divenuto guida insostituibile della nostra esistenza.
L’esperienza neocatecumenale – a quella mi sto riferendo – era entrata nella Parrocchia di san Ciro qualche anno prima, per una serie di situazioni particolari, che avevano coinvolto anche la vicina Chiesa del Rosario. Era iniziata, fondamentalmente, in virtù del senso di accoglienza di Don Michele, che aveva dato ospitalità a catechisti e catechizzati, messi alla porta trecento metri più in là. Ma subito egli aveva iniziato a vivere in prima persona quell’esperienza, da cui era rimasto palesemente affascinato: di essa gli piacevano soprattutto il contatto approfondito e quotidiano con la Parola e quello spirito di evangelizzazione , il desiderio di portare, soprattutto ai lontani l’annuncio della Buona Notizia.
Fu per lui naturale passare in pochissimo tempo, da semplice “curatore” esterno, a componente diretto della “Comunità”, maestro e discepolo al tempo stesso. Entrare in condivisione totale del suo ministero, coi laici, rappresentava per lui raggiungere il pieno compimento del Concilio, che molto aveva espresso circa il pieno coinvolgimento dei non consacrati nell’azione della Chiesa. Un modo di pensare, quello di Don Michele, non condiviso da molta parte del Clero avellinese, che più di una perplessità gli ha sollevato nel tempo, circa il suo “farsi prendere” totalmente da questa esperienza di spiccata natura laicale. Rimproveri diretti gli giunsero anche da qualche Vescovo, a cui egli rispose con la piena obbedienza , non disgiunta però dall’amarezza di sentirsi non compreso, come talvolta mi ha confidato e come, di fatto è accaduto.
In realtà egli, pur vivendo con intensità l’esperienza neocatecumenale, ha sempre accolto in Parrocchia qualunque altra realtà di Fede, dagli scout, alla Milizia dell’Immacolata. E poi Don Michele stesso, da uomo libero quale è stato fino alla fine, ha sempre vissuto del Cammino sì la radicalità, ma mai i radicalismi, che pure (come avremmo scoperto in seguito) in esso sono presenti e che spesso gli si sarebbero voluti imporre. Mai, per Don Michele la vita del Cammino si poteva intendere come un pedissequo “timbrare il cartellino” dei singoli appuntamenti o liturgie, elemento peraltro anch’esso presente in maniera diffusa. Per Don Michele il Cammino era soprattutto l’anelito a far conoscere la meraviglia di un Dio che è concretezza, che scende verso l’uomo e si china sulla sua sofferenza e sulla sua miseria, non lo giudica, ma lo ama per come egli è!
Un modo di vivere il Cristianesimo che in fondo era sempre stato il suo; un modo che si rappresentava ogni giorno nell’aprire le porte della Chiesa, ma soprattutto del suo cuore a tutti, anche a chi gli avesse fatto del male: “Il Signore mi ha fatto il dono grande di non scandalizzarmi di nulla”, mi disse un giorno in cui ero rimasto esterrefatto di fronte ad una palese cattiveria che aveva subìto. Da quella sera di novembre, dunque, la vita mia e di mia moglie si legarono per sempre a quell’uomo che fu per noi sacerdote, confessore, ma prima di tutto Padre e guida spirituale: egli era per noi il vero garante dell’esperienza neocatecumenale. In quell’esperienza noi avremmo investito molta parte della nostra vita, vivendola, lo dico oggi, a distanza di anni, senza remore e senza barriere, anche a costo di esporre la nostra vita alla più totale nudità.
Con Don Michele iniziammo così una lunghissima teoria di evangelizzazioni, incontri, catechesi, “passaggi”, annunci. A volte, io e mia moglie, guardandoci indietro, ci chiediamo come sia stato possibile che due persone come noi, fondamentalmente chiuse e discrete, abbiano avuto la capacità di parlare rivolgendosi a consessi spesso molto numerosi. Ma soprattutto guardiamo alla nostra vita e a come essa si sia sviluppata attraverso percorsi da noi mai programmati in precedenza; un solo esempio per tutti, l’accoglienza di molti figli.
Tanti episodi e tanti dialoghi potremmo raccontare fra quelli avuti con Don Michele in questo quarto di secolo della nostra vita, così come tanti sono stati i dubbi e le scelte di coscienza che gli abbiamo rassegnato e per i quali gli abbiamo chiesto consiglio! Tante volte l’integralismo di alcune proposte, che rischiava anche di schiacciarci attraverso il senso di colpa, egli lo ha saputo temperare con il linguaggio dell’amore e della pazienza rendendocelo comprensibile e attuabile nei tempi opportuni. E in mente mi vengono i momenti in cui siamo corsi da lui, convinti di essere al centro di ingiustizie, sciorinandogli le nostre amarezze, mentre egli ci fissava nel suo atteggiamento che esprimeva la massima attenzione, labbra strette e leggermente protese in avanti. Cominciammo con l’annuncio del nostro matrimonio, col corollario delle difficoltà che ci apparivano insormontabili, a partire da quelle economiche. E poi l’attesa dei nostri sei figli, in cui si mescolavano la gioia e la preoccupazione, l’ansia e le paure per il loro futuro. Nulla lo turbava, ma a tutto rispondeva con un fluire di parole di sostegno ed incoraggiamento mescolate a riferimenti della Scrittura, che rappresentavano l’invito che ci rivolgeva a leggere l’intervento di Dio, che sempre è volto al Bene dell’Uomo.
La Croce non lo ha mai impaurito, essendo piuttosto essa, la boa a cui attaccarsi nelle tempeste della vita; “secondo te – fu l’incipit di un suo discorso che mi rivolse in uno di quesi giorni in cui il dolore era particolarmente faticoso da tollerare, uno di quei giorni in cui la luce accesa del suo studio, di sera, bastava a restituirmi sollievo – “ secondo te, se proprio Cristo avesse voluto scegliere di morire, non poteva farlo semplicemente, in maniera diretta , senza subire particolari patimenti?
Invece egli scelse di passare attraverso gli insulti, la flagellazione, la corona di spine, soprattutto attraverso il tradimento degli amici, e infine attraverso i chiodi della croce, affinché tutto venisse santificato”. Già, santificato: il dolore, un evento che comunque fa parte della vita di tutti, l’umiliazione in cui frequentemente ogni uomo può incorrere sono normalmente intesi come avvenimenti che possono distruggere qualunque persona: viceversa per un cristiano illuminato dalla Parola di Dio essi possono diventare via di santità e strumento di salvezza; quante volte ho visto compiersi questa Parola in Don Michele e quante volte mi sono reso conto di come fosse difficile essere cristiani veri!
Ho girato il mondo insieme con lui, dalla Spagna agli Stati Uniti alla Germania e sempre c’era il momento in cui passeggiare insieme, per confidargli, da parte mia perplessità e speranze e dialogare sul Cammino, parte integrante della mia vita ma anche della sua: e scoprirne via via nel corso degli anni anche i limiti che cominciavano ad affiorare, o ancor meglio gli errori e le deviazioni in cui stava cadendo; se ne parlava spesso tra noi e anche con altri fratelli. Egli sentiva come questa esperienza, a cui peraltro avrebbe continuato sempre a guardare con favore, andasse rivitalizzata e soprattutto recuperasse le ragioni delle origini: il percorso di riscoperta del Battesimo, piuttosto che la macchina organizzativa [“Facciamo il Cammino e non pensiamo ad altro!”], amava ripetere; l’evangelizzare gratuito, piuttosto che la ricerca dei numeri da incrementare [“Tanta gente, dopo le catechesi, non è entrata in comunità, ma quel che conta è che abbia ricevuto l’Annuncio!”], affermava spesso; il coinvolgimento di tutti piuttosto che i ruoli granitici e inamovibili; lo sciogliersi, dopo un certo tempo, dentro la Parrocchia e più in generale dentro la Chiesa, per essere quel “lievito” di cui tanto Gesù aveva parlato, piuttosto che arroccarsi in un circolo chiuso e sterile [“Ma questi quando si sciolgono?”], si chiedeva frequentemente; la libertà del Cristiano che si sviluppa attraverso l’ascolto e la meditazione della Parola e, se necessario, anche attraverso gli errori, piuttosto che la dipendenza totale dal catechista e dal sistema stesso [“Voi siete un’altra cosa!”], ribadiva a coloro che intendevano così questo itinerario.
E così, via via, cominciammo a condividere l’idea di operare insieme, nel tentativo di “ritornare alle origini”, quanto meno nella nostra Parrocchia e nella nostra Diocesi, anche se questo, lo sapevamo bene, sarebbe costato contrasti coi “vertici” e con tanti fratelli legati al “sistema” più che a lui e alla Parrocchia. In questo tentativo complesso e difficile, noi, con lui , ci sentivamo tranquilli, perché confidavamo nella forza creatrice dello Spirito che sempre lo aveva guidato in tutta la sua vita, uno Spirito “impregnato” della Profezia di Cristo, della Profezia del Vangelo, di quella Profezia che, non di rado e quasi inevitabilmente, lo portava ad andare, senza timore, controcorrente, scegliendo la posizione più scomoda: non era forse accaduto questo, quando aveva sposato appieno, anzi talvolta addirittura anticipato, le conclusioni del Concilio, applicandole immediatamente?
E quando si era speso per i “poveretti” delle casupole di S.Antonio Abate, non era forse andato controvento? E quando aveva difeso i ragazzi occupanti lo Scientifico, non aveva forse rischiato in proprio, la disapprovazione anche dura? Ma lo Spirito che lo ha costantemente animato lo portava sempre a guardare un metro oltre, piuttosto che piantarsi in terra, come un mulo, a difendere l’esistente o, ancor peggio, qualche privilegio personale.
Quello Spirito avrebbe sempre impedito a Don Michele di chiudersi “a riccio” nelle quattro mura della Parrocchia, senza occuparsi anche di altro. Egli, per esempio, amava la Politica, quella buona, anche qui come espressione del Vangelo, che si traduce in azione concreta, in servizio per gli altri e non temeva di “schierarsi” quando si convinceva della bontà di un progetto: non svelo segreti inconfessabili, nel ricordare il suo convinto sostegno ad Antonio Di Nunno, che con lui aveva condiviso dei momenti, anni prima, nel percorso dell’Azione Cattolica; me la ricordo bene quella sera del giugno del ’95, quando, passeggiando a braccetto in attesa dei risultati elettorali, ci incoraggiavamo a vicenda sull’esito, perché entrambi confidavamo nelle doti politiche, tecniche e soprattutto umane di “Tonino”, che, sapevamo, sarebbe stato un buon Sindaco per la nostra Città.
Ma la vera azione politica di Don Michele è stata quella quotidiana, di vicinanza ai deboli e agli indifesi, agli ultimi, agli “scartati”; un’azione fatta di porte fisicamente e perennemente aperte per ricevere ogni persona e ogni richiesta, sia quelle da soddisfare direttamente che quelle di cui farsi portavoce presso chi potesse dare un aiuto.
Ogni mattina in cui potevo, mi recavo in Parrocchia verso le 9, per prendere un caffè insieme e la scena era sempre la stessa: quella di decine di persone, povera gente che lo attendeva davanti al suo ufficio, zingari o abitanti del quartiere e oltre, con la mano stesa a prendere tutto quanto egli tirasse fuori dalle tasche o dal cestino della colletta appena effettuata nella prima Messa del giorno; ogni volta che lo accompagnavo all’ufficio postale di Valle dal nostro amico Enzo che ne era il Direttore, eccolo tirare fuori un fascio di bollette da pagare, per chi non poteva, con molti dei presenti pronti ad integrare quello che mancava, perché talora le richieste superavano le sue possibilità. La sua azione politica è stata anche la Scuola “Gioacchino Pedicini”, dapprima semplice Scuola dell’infanzia, poi anche Scuola primaria: un modo anche questo di evangelizzare , come amava ripetere, “i bambini e con loro i genitori”; anche un modo per offrire un’opportunità di lavoro a tante operatrici, che, nel tempo, hanno contribuito a tenere aperta questa struttura.
Certo, una gestione , la sua, formalmente non ortodossa, che talora gli ha causato anche dolorose e pesanti conseguenze economiche per le quali, spesso, molti di noi, suoi collaboratori, intervenivamo per dare una mano a risolverle; ma come avrebbe potuto essere diversamente, vista la retta bassissima richiesta, una retta che poi, tante volte, di fronte alla manifestazione di difficoltà economiche delle famiglie dei bambini (vere o anche pretestuose), non veniva neanche riscossa? Ricordo un dialogo che, su questo argomento, Don Michele ebbe col suo amico di sempre, Ciriaco De Mita; questi gli domandò quale fosse il costo della retta della scuola e Don Michele glielo disse.
De Mita rimase profondamente stupìto per l’irrisorietà della cifra e gli spiegò che sua figlia pagava quasi quattro volte tanto per un suo bambino; a questo punto intervenni io per aggiungere come, molto spesso, neppure questa cifra irrisoria venisse pagata da tutti. A quel punto la contestazione dell’ex premier divenne ancora più vivace (“Michele, ma questo è assurdo!”). Don Michele senza scomporsi gli rispose: – “Ciriaco, a me dicono che non hanno soldi e io non mi sento di dubitare: non hanno soldi!”…

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QUESTA PUBBLICAZIONE

Dieci anni fa, il 20 febbraio 2009, si spegneva ad Avellino la nobile e caritatevole figura del parroco della Chiesa di San Ciro, don Michele Grella, testimone di un tempo di straordinario interesse per l’Irpinia e Avellino. Con la sua missione la chiesa si apriva alla realtà sociale e civile. Indimenticabili gli esempi che hanno illuminato il suo percorso di fede. Con questa pubblicazione abbiamo ritenuto ricordarne le virtù, l’opera e l’impegno perchè possano diventare solco nel quale seminare prospettive di riconquista della speranza. Un vivo ringraziamento va a Giovanni “Nino” Aloisio per la sua opera di attenta ricerca di vecchie testimonianze su Don Michele in gioventù.

Nacque a Sturno il 29 settembre del 1929 da mamma Maria Rosaria e papà Antonio. Aveva due fratelli (Luigi e Giuseppe) e una sorella (Elena). Frequentò le scuole elementari a Sturno, e, al termine, si trasferì ad Avellino per iniziare le scuole medie presso il Seminario Diocesano di Avellino, sotto la guida, tra l’altro dello zio, Don Luigi Abbondandolo. Con lui anche dei cugini, che poi rinunciarono a proseguire il percorso verso il sacerdozio. Don Michele invece, successivamente si trasferì presso il Seminario di Benevento e a 22 anni, nella Parrocchia di Sturno venne ordinato sacerdote.
Fu insegnante nel Seminario Diocesano , assistente diocesano GIAC e dei laureati di Azione Cattolica e, nel 1960, divenne Parroco della Chiesa intitolata a San Ciro Martire.
Abitò nei pressi dell’Ospedale di Viale Italia, sempre accompagnato dalla mamma e dal papà che, a turno si trasferivano a casa sua. Dopo la morte del padre la mamma non lo lasciò mai, fino al giorno della sua morte avvenuta all’inizio del 1980. A quel punto Don Michele chiese a sua sorella e alla sua famiglia di andare a vivere con lui nell’appartamento della canonica (altrimenti dovrò cercarmi un altro luogo perché non posso stare da solo, altrimenti avrei difficoltà nel vivere pienamente la mia vocazione). Ottenutone il consenso, Don Michele, avrebbe vissuto fino alla sua morte (20 febbraio 2009) in famiglia, con la sorella, suo marito e i tre figli.

L’UNIONE CONIUGALE. «La spiritualità coniugale cristiana non è quella dell’Adamo vecchio, ma quella dell’Adamo nuovo che è Gesù Cristo. Il vecchio Adamo uomo prende la Creazione per assoggettarla a sé e dominarla; l’Adamo Cristo invece ne è custode e cultore. L’Adamo uomo prende la donna senza custodirla, l’Adamo Cristo invece la nutre e ne ha cura. Il nutrire indica tutta la positività di questa relazione unica e l’averne cura , l’aspetto di difesa che è segno dolce , umanizzato dell’impegno di nutrire. Nutrire vuol dire aumentare la vita in tutti i sensi, tonificarla, arricchirla, non certamente toglierla. Pensata a questo livello, la spiritualità coniugale, come offra prospettive grandi. Certo, il matrimonio è orientato a riempire la terra di uomini, ma il rispetto verso la vita non nasce al momento del parto bensì nell’intenzione di generare. Se l’uomo non ama la propria vita nella sposa, non può amarla nei figli, che vengono dopo di lei e vengono da lei; deve amarla nella sua realtà, che è quella della moglie, per poterla poi amare anche nei figli!».

LA CROCE. «La Croce è dono di Dio, un regalo che il Signore ci fa per illuminare il senso della nostra sofferenza, per trasformarla in segno di vittoria sulla morte, per tirarci fuori dalla morte. Cristo non ci invita a soffrire in questa vita, per ottenere l’Altra, non ci dice questo. Egli si è fatto crocifiggere al posto mio affinché non fossi crocifisso io. La gente desidera conoscere Gesù Cristo, sentirsi amata da Lui, vuole ascoltare l’Annuncio del Vangelo della Croce, essere illuminata sulla preziosità della malattia, della sofferenza, della vittoria sulla morte! La Croce è la vera distruzione di quanto cerchiamo di costruirci da soli, secondo la nostra logica miope. Essa è la vera esperienza Cristiana, il punto di avvio, la fonte di ogni professione di Fede in Cristo! Cristo avrebbe potuto anche decidere di morire senza particolari tormenti, ma egli ha scelto di passare attraverso il tradimento, gli sputi, gli insulti, le spine, le percosse, perché tutte le sofferenze dell’uomo fossero santificate. Cristo nella Croce raggiunge la sua Gloria e dunque non va compatito. Il suo corpo esangue e trafitto è la sorgente della vita e piuttosto dobbiamo rivolgergli lo sguardo della speranza!».

ESSERE SACERDOTE. «Sento l’esigenza di lodare il Padre Celeste, di magnificare la sua misericordia, per le meraviglie che ha operato in me, al fine di rendermi conforme al suo Figlio Gesù Cristo. Mi sembra di essere sulle montagne vicino alla Terra Promessa e dall’alto vedere l’itinerario che il Signore mi ha fatto percorrere. Il Signore mi ha abituato gradualmente ad abbandonare ogni sostegno umano per affidarmi totalmente a Lui, al suo progetto di salvezza, ai suoi doni. Vivo il mio cammino di conversione in un rapporto mio personale e distinto dal servizio per la Comunità Parrocchiale come Presbitero e sperimento così le parole di S. Agostino: “Sono Cristiano con voi, Presbitero per voi !” Sento la gioia di essere presbitero sempre, ma soprattutto nel nostro tempo in cui sembra oscurarsi la tenerezza della chiamata alla vocazione sacra. Sento il privilegio di partecipare al sacerdozio del Signore, e le motivazioni profonde, capaci di farmi superare gli inevitabili, frequenti scoraggiamenti, di fronte alle difficoltà, alle incomprensioni, all’indifferenza. Scopro ogni giorno che in me, Presbitero, agisce Gesù Cristo, per cui il presiedere la liturgia della Pasqua del Signore, non è solo un servizio, ma significa essere radicato in Gesù Cristo, nel Mistero della mia configurazione a Lui, sacerdote e, come tale, chiamato a pormi per primo e in maniera esemplare, nell’attitudine a cogliere il Dono di Dio, prima di tutto per me!».
Con affetto, Don Michele

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Editorial Review

Dalla Parte Giusta di Gianni Festa

 

 

 

 

 

 

 

 

Dalla parte giusta di Gianni Festa

Guardava oltre. Con uno sguardo che era insieme sorpresa e riflessione. Don Michele è stato gran parte della mia formazione. Un brano intenso di un percorso tra speranza e fede, impegno civile e riscatto sociale. Sì, un sacerdote dalla parte degli ultimi per capirne i bisogni, alleviarne le sofferenze, rigoroso prima con la sua missione, poi contro le ingiustizie. Con quegli occhi spiritati scrutava dentro l’animo umano per consegnare sempre una buona parola, un messaggio di fiducia. La sua meraviglia di fronte ad alcuni avvenimenti ne faceva una personalità solo apparentemente ingenua. Non giudicava, comprendeva. Don Michele non è stato mai neutrale, sempre protagonista del fare in una incessante ricerca del bene comune.
La sua Avellino era insieme tormento e speranza. Il tormento veniva dall’esperienza fatta tra i poveri, gli esclusi, gli emarginati. La sua tempra si era forgiata in quella zona della città in cui convivevano uomini e topi: Sant’Antonio Abate, Fornelle, Fosso Santa Lucia, San Leonardo.
In questo rione, dalle case cadenti senza servizi igienici e dalla povertà ingombrante, don Michele, alla stregua di don Lorenzo Milani, viaggiava tra le tante chiesette storiche diventate il solo riferimento di una umanità dimenticata. Lo Stato, scrivevo negli anni Sessanta sul Corriere dell’Irpinia, dopo il cataclisma che inondò l’intero quartiere costringendo la popolazione alla deportazione nell’anonimo rione Parco, si presentava solo con le manette: per arrestare microicriminali o prostitute senza fissa dimora. Ripercorrendo quel tempo, credo di non enfatizzare il ruolo svolto dal sacerdote dei poveri se oggi affermo che egli fu anticipatore di tanti di quei preti che si sono poi aperti al sociale, penso a don Benzi e a tanti come lui che hanno squarciato il velo dell’ipocrisia di una chiesa aggrovigliata nel suo potere temporale.
Il ricordo di quell’esperienza ha sempre sostenuto il suo impegno. Da ciò nasce, con la grande comprensione del vescovo di Avellino, mons. Pasquale Venezia, la sua attiva partecipazione alla contestazione studentesca che in Irpinia, ma soprattutto ad Avellino, ebbe origine partendo dalla denuncia dell’abbandono dei quartieri poveri della città. E fu quella una pagina nobile della storia civile di Avellino, con le contrapposte ideologie accomunate dal desiderio del cambiamento delle condizioni di vita. Allora non sembrò strano che figure solo apparentemente distanti tra di loro si trovassero nella stessa trincea dell’impegno civile, dal parroco di San Ciro don Michele Grella, ai fratelli Biondi, Enrico e Federico, comunisti di orgoglio e di prestigio, ai rappresentanti di quella classe dirigente democristiana che sarebbe diventata nel futuro dialogante e competitiva con la sinistra nel Paese, fino ai tanti gruppi spontanei che davano vita ai collettivi nelle scuole del capoluogo e dai quali nasceva la scintilla per una scuola democratica.
E’ in questo percorso che don Michele, che intanto aveva aperto la sua parrocchia alle forze sociali e democratiche della città, incontra la figura di padre Pio Falcolini, un francescano di grande umiltà, protagonista indomito della civiltà del pensiero ispirato al Concilio Vaticano II. Tra don Michele e padre Pio la solidarietà non ha limiti. Le battaglie sono comuni, eguale il sentire, anche se diverso appare l’atteggiamento di fronte alla realtà. E’ allora che la chiesa irpina diventa riferimento delle lotte sociali, avversate da una informazione conservatrice che non lesina ingiurie e vendette mostrando l’altra parte del volto di una città soffocata dal desiderio egemonico del controllo sociale. Ma non passa il tentativo di contrapporre le due personalità che si completano nell’agire, consolidando un’amicizia senza confini, resistendo ad insulti grotteschi e a prese di posizioni ecclesiastiche che dividono scuola e società. Il parroco di San Ciro è con quanti he sottoscrivono il Manifesto dei docenti a difesa del frate di Serino, Pio Falcolini, che si tenta di mettere all’indice, penalizzandolo anche nella sua scelta di vita. La sospensione “a divinis” nei confronti di Pio non fa indietreggiare don Michele. Anzi, almeno nel mio ricordo, alimentò il suo desiderio di credere in una chiesa con lo sguardo rivolto oltre, così come la concepiva il frate di Serino, scomparso giovane aggredito da un male incurabile.
Quanto quelle intelligenze risultassero utili, e a volte determinanti, per dare un senso alla vita sociale di Avellino lo si può comprendere solo oggi, in questo tempo che ci è dato vivere in cui il confronto e il dialogo sono sommersi da un populismo accattivante, per la modesta capacità di riflessione e l’obiettivo della conquista del potere con la mortificazione delle migliori intelligenze. Qui, sia pure con un pizzico di nostalgia e recuperando dalla memoria lotte ed esempi di un tempo andato, credo sia doveroso consegnare oggi alle future generazioni testimonianze di grande nobiltà civile di questa piccola città di provincia. Che, per tornare a don Michele Grella, ha avuto risalto nazionale non solo per il presepe “provocatorio” allestito nella chiesa di s.Ciro, e del quale si parlò nel mondo intero, ma anche per il rilievo assunto in Italia della classe dirigente politica, nel passaggio tra il dominio di Fiorentino Sullo, grande statista, e l’avvento di Ciriaco De Mita e del gruppo dirigente che avrebbe avuto nel futuro le redini del Paese nelle proprie mani.
E’ di questi tempi il confronto che don Michele Grella ebbe con il giornalista-partigiano Giorgio Bocca, inviato dal direttore de IL GIORNO di Milano, diretto allora da Italo Pietra, a curiosare nella vicenda elettorale politica nel capoluogo avellinese, nello scontro del tramonto di Sullo e il nuovo potere di De Mita che si affacciava alla ribalta. Ero allora corrispondente del quotidiano milanese e la segreteria di redazione mi invitò ad accogliere in città Giorgio Bocca, presentandogli alcune personalità della realtà avellinese. Tra queste ritenni utile fare incontrare Bocca con don Michele. Era una mattina di sole e la città da qualche ora aveva ripreso il suo ritmo quotidiano.
Ci presentammo nella sacrestia della parrocchia di s.Ciro dove ci attendeva don Michele, Fui testimone del colloquio che si protrasse per oltre un’ora tra due personalità accomunate da quella straordinaria capacità dialettica, mai banale, sempre dentro i fatti, alimentata dal desiderio di conoscenza di una realtà che diventava in quel tempo lettura di fenomeni di crescita democratica, tra la suggestione del potere e la volontà di riscatto. Quando il colloquio ebbe termine e con Giorgio Bocca mi soffermai per chiedere che impressione aveva ricevuto dal colloquio con don Michele la sua risposta fu di quelle che difficilmente si dimenticano. Vado a memoria: “è un sacerdote di quelli che sarebbero stati ottimi protagonista nella Resistenza, un militante umile e onesto, che ti fa capire come si può essere importante nella formazione della classe dirigente”, sentenziò lo “spretato” inviato della testata milanese, amato e odiato per la sua capacità di narrazione dei grandi fatti.
Aveva ragione: Don Michele Grella, nel suo impegno ecclesiale e sociale, è andato sempre oltre, rendendomi fiero della sua amicizia, che mi affidò anche nell’intervista concessa al Corriere che qui di seguito ripropongo.

Don Michele, che cosa è un miracolo?
“E’ una sospensione dalla legge naturale”.

E le visioni?
“Molte sono inventate. Spesso sono riconducibili a debolezze mentali”.

Ma ci sono anche quelle dei tre pastorali di Fatima.
“E’ tutt’altra cosa. HAnno forti testimonianze e non solo di fede”.

Le chiedo: il terzo mistero svelato dal Santo Padre a Fatima rivela l’attentato nei suoi confronti. Perché non pensare a mons. Romero, vescovo di San Salvador, ucciso sull’altare della sua chiesa?
“Probabilmente il riferimento è più preciso perché il Papa veste di bianco, mentre il colore dei vescovi è rosso porpora. Ma Romero può essere associato a Giovanni Paolo II. La sua scelta di vita, l’impronta che egli ha dato alla chiesa dell’America latina, il martirio subito ne fanno una grande figura della Chiesa”.

Pastore di tante generazioni, come è cambiata la fede?
“E’ scaduta dal punto di vista quantitativo. Lo dicono i numeri, la crisi delle vocazioni. Ma è aumentata la qualità dei cristiani”.

In che senso?
“Prima l’Azione cattolica svolgeva un ruolo fondamentale per l’indirizzo delle coscienze, mantenendo ben salda la barriera dei valori. Questo ruolo, per molti motivi, si è esaurito.
E così i valori sono stati insidiati da una cultura superficiale che ha prodotto molti danni. Cinema , tv, letteratura e filosofia non spiegano, consumano. Essi o prescindono dalla visione cristiana della fede o addirittura ne sono in contrasto. Spesso non condividono i grandi valori del cristianesimo. Gli stessi giovani ormai si organizzano per loro conto”.

E’ per questo che lei ha scelto l’impegno per le comunità neocatecumenali?
“ Si. Ogni anno ce ne organizza una. Siamo già a sedici. Sono sorte dopo il Concilio Vaticano II e propongono un itinerario di vita cristiana che attinge alle sorgenti, alla BIbbia, alla patristica, alla teologia. Oggi siamo in mille. Sono laici e di tutte le estrazioni”.

Non ritiene che la crisi dipenda anche dalla qualità diversa dei preti? Di don Milani, don Mazzolari, Dossetti, per fare dei nomi, ce n’è poco in giro. O no?
“Non lo so”.

E la stessa difficoltà della Chiesa di fare autocritica in che misura ha inciso?
“E che cosa è la purificazione della memoria compiuta da Giovanni Paolo II e la richiesta di perdono per gli errori compiuti? Wojtyla ha fatto acquistare prestigio alla Chiesa come nessun altro Papa aveva mai fatto”.

Fede e società: mezzo secolo vissuto da un osservatorio particolare come il suo, sono anche preziosi per capire come è cambiata la città di Avellino.
“Posso dire che cinquanta anni fa essa era molto provinciale, oggi si avvia a diventare una città moderna. Credo che i cittadini oggi siano migliori, anche se gli interessi culturali e la capacità di riflessione non sono più quelli degli anni Settanta”.

Già, gli anni settanta. La sua parrocchia fu al centro della contestazione giovanile. Divenne riferimento nazionale dei moti di ribellione dei giovani. Che cosa rimane di quegli anni?
“Tanta delusione. Molti dei protagonisti di quell’evento non si sono dimostrati coerenti.
Non hanno prodotto quei risultati che erano attesi. Anche ad Avellino quello fu un tempo di rottura con il passato: un desiderio di aprirsi al nuovo”.

Fra i promotori del movimento ci fu padre Pio Falcolini.
“Persona sincera e buona, di grandissimo spessore culturale. Qualcuno ci qualificò come preti vogliosi di protagonismo. Non avevamo nessuna voglia di esserlo. Incontrammo non poche difficoltà. Per nostra fortuna fummo capiti sia dal vescovo Pasquale Venezia che dal vicario don Ferdinando Renzulli. Furono loro a risoparmiarci gratuite accuse”.

Poi, però, si disse che si creò una rottura tra lei a padre Pio Falcolini. LEi più cauto, il frate di Serino più barricadero.
“Non ci fu mai divisione. Prevalse in noi il rispetto per le persone che non condividevano, non sapevano spingersi con coraggio verso il futuro. Gli anziani, soprattutto”.

Lei è stato testimone dei processi politici di questa provincia. Ha accompagnato classi dirigenti. Oggi che cos’è la politica?
“Solo individualismo. C’è assenza di impegno, di disegno. Prendo in prestito le parole dette da De Mita in un recente consiglio nazionale del Ppi: facciamo cronaca e non politica”.

Che cosa rimprovera al Ppi?
“Di non aver saputo difendere la grande tradizione degasperiana: un centro che guarda a sinistra. Di non saper difendere nella coalizione di centrosinistra la propria identità. Di aver perduto l’orgoglio dei grandi temi su cui la Dc si era spesa: la scuola, la famiglia, l’etica. Dissente anche, ma finisce per convalidare tutto”.

Conseguenza della fine dell’unità politica dei cattolici?
“No, la fine è stata un bene ed un male. Spesso è stata usata contro gli stessi cattolici per mire egemoniche”.

 

 

 

Indice del testo a cura di Bellizzi e Festa
- Biografia di Don Michele
- Le sue «RifLessioni»
L’UNIONE CONIUGALE - LA CROCE - ESSERE SACERDOTE

testimonianze

1. IL RICORDO
Gennaro Bellizzi Medico

2. NON SOLO UN AMICO
Arcangelo D’Ambrosio Giovane Azione Cattolica

3. UNA GUIDA
Renato Guarino Giovane Azione Cattolica

4. DALLA PARTE DEI GIOVANI
5. NOI, RAGAZZI DEL CAMBIAMENTO
Franco Festa Scrittore

6. IL VUOTO
Carmine Malzoni Medico

7. LA NOSTRA CHIESA
Andrea Massaro Storico

8. LA NASCITA DELLA MISERICORDIA
Carmine Galietta Fondatore Misericordia

9. UNA VITA PER I POVERI
Ciriaco De Mita Ex Presidente del Consiglio

10. UNA TESTIMONIANZA CORAGGIOSA
Don Sergio Melillo Vescovo Ariano-Lacedonia

11. NEL SOLCO DELLA CONTINUITA’
Don Luciano Gubitosa Parroco di San Ciro
12. ERA IL SOSTEGNO DI TUTTI
Don Antonio Dente Già Vicario Diocesanio

13. COME DON BOSCO!
Don Franco Ausania Sacerdote Missionario

14. «SIATE LIBERI DA LEGACCI»
Enzo Grimaldi Parrocchia San Ciro

15. «NON BADARE ALLE OFFESE»
Enza Cogliano Parrocchia San Ciro

16. SOLO UN RICORDO
Brigida, Tina e Gerarda Parrocchia San Ciro

17. UN PRETE SCOMODO PER I POTENTI
Antonio Tozza Parrocchia San Ciro

18.CREDERE NELLA PROVVIDENZA
Nicola e Paola Festa Parrocchia San Ciro

19. IL CAMMINO VERSO LA PAROLA DI DIO
Mimma Rotondi Parrocchia San Ciro

20. IL PARROCO DEGLI ANEDDOTI
Paolo Spagnuolo Parrocchia San Ciro

21. DAL LIBRO «UN GIORNO IN DIREZIONE»
Donato Orefice Parrocchia San Ciro

22. IL VUOTO INCOLMABILE
Giovanni e Giulia Petrone Parrocchia Don Bosco

23. LE EMOZIONI CONDIVISE
Maria Teresa Pascucci Nipote di Don Michele

24. Dalla contestazione al cammino
Aurelio Mele Parrocchia San Ciro

25. Dalla parte giusta
Gianni Festa Giornalista