DETTI E FATTI DI NAPOLI ARAGONESE: DICTIS ET FACTIS, RE ALFONSO RACCONTATO DA PANORMITA (1421-1435) – I PARTE

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1421 – 1435 (I Parte)

I 14 anni del primo periodo aragonese


GLI AFORISMI DI RE ALFONSO RACCONTATI DAL PANORMITA

Nell’Italia del XV secolo il nome di Antonio Beccadelli divenne celebre in seguito alla pubblicazione nel 1425 del libro Hermaphroditus, una collezione di epigrammi latini, di tema amoroso ed encomiastico, in due libri. L’autore era nato a Palermo (e di qui il suo appellativo di Panormita) nel 1384, ma a vent’anni lasciò la città siciliana e frequentò gli ambienti cittadini delle città italiane: Firenze, Siena, Bologna, Roma, Genova, Pavia.
Nel 1434 incontrò Alfonso V d’Aragona, futuro re di Napoli, e con lui rimase alla sua corte. «Si avviava così il Beccadelli a ottenere quel posto preminente presso la corte alfonsina che in seguito, nella lunga dimora napoletana, gli consentirà di svolgere una sua particolare e insostituibile funzione nella diffusione della cultura umanistica nel Mezzogiorno, e quindi di sostenere una parte importante nella penetrazione del rinnovato clima di studi in quelle regioni, che vivevano stancamente in un marginale silenzio».1
Nella città partenopea egli fondò la prima Accademia italiana, chiamata Antoniana, ma poi in omaggio al Pontano sarà detta e conosciuta come Accademia Pontaniana. A Napoli restò fino alla sua morte, avvenuta nel 1471.
Rapporti di affettuosa amicizia mantenne anche con altri dotti umanisti presenti nello stesso ambiente della corte, come il Facio, l’Aurispa, il Gaza, il Calcidio, il Curlo, il Bracciolini e soprattutto il Pontano, il cui nome, assieme a quello del Panormita, è legato alla fondazione dell’Accademia.
«Spinto da molti a comporre in onore di Alfonso un poema glorificatorio, alieno per temperamento dall’impostazione di opere di vasto respiro, dall’ampia e architettonica narrazione, seguendo, invece, l’intima sua vena “bozzettistica” e arguta, la sua fantasia vivace e impressionistica, la disposizione naturale per l’immagine fuggevole e lapidaria, nel 1455 compose il De dictis et factis Alphonsi regis, ove, rispondendo alla sua congeniale ispirazione, sciolto da schemi e limiti strutturali, riuscì a innalzare un vero monumento a esaltazione e trionfo del sovrano aragonese… Pertanto, pur sotto il frizzante abito dell’aneddoto o della sentenza i quattro libri del De dictis (i cui capitoli sono individualizzati dagli avverbi iuste, modeste, fortiter…), lungi dal respirare lo stesso spirito della storiografia umanistica, ricchi come sono di un linguaggio concreto e pittoresco, ci offrono un profilo del re Alfonso che, spogliato di ogni patina laudatoria, non è lontano dalla realtà storica. Comunque il De dictis, subito ampiamente diffuso e tradotto in varie lingue volgari, contribuì, forse più di qualunque altra opera, a creare e diffondere la fama di Alfonso grande mecenate e principe ideale».2
La più antica edizione del De dictis et factis Alphonsi regis è quella a cura di Felino Sandeo, pubblicata a Pisa da Gregorius de Gentis nel 1485. Per la traduzione, che qui appresso presento, ho seguito l’edizione fatta a Basilea nel 1538.
Segue in appendice la cronologia della vita di Alfonso d’Aragona, tratta, e tradotta, da CRHONOLOGIA VITÆ ET RERVM GESTARVM ALFONSI REGIS ARAGONIÆ ET NEAPOLIS: ex Bartholemæi Facij historiarum libris, et his Antonij Panormitae Apomnemonéumasi. Coagmentata. Il testo della biografia di Alfonso d’Aragona è inserito nell’edizione De dictis et factis Alphonsi Regis Aragonum et Neapolis libri IV Antonii Panormitae cum respondentibus Regum ac Principum illius aetatis, Germanicorum potissime dictis et factis similibus, ad Aenea Sylvio collectis…, Studio Davidis Chitraei, Rostochii (oggi Rostock) anno 1589. Questa edizione viene citata da Lorenzo Giustiniani, La Biblioteca storica, e topografica del Regno di Napoli, in Napoli 1793, p.155.
Negli aforismi che il Panormita fa pronunciare ad Alfonso d’Aragona ci sono notizie di prima mano su avvenimenti storici e fatti a cui l’autore è stato presente ed ha partecipato. L’assedio di Gaeta, per esempio, o l’assedio dell’isola di Gerba in Tunisia, sono raccontati con una dovizia di particolari, come da chi vi ha preso parte. Che dire poi della colonia di Catalani impiantata ad Ischia, allo scopo di favorire unioni e matrimoni per ridare vita alla comunità isolana che si era ridotta molto di numero per le guerre.
Loise De Rosa un contemporaneo del Panormita, vissuto anche lui a corte, ma con altre mansioni, che non quelle di uomo di lettere, così esprime il suo entusiasmo per il Re Alfonso:
«Il Re Alfonso fu il Re più dotato di virtù, quante la natura ne avesse create. Lui era sapientissimo, clementissimo, generosissimo, cattolico cristiano. Ma a mio parere commise un errore, perché quando si accampò a Napoli fece un bando ordinando che quanti napoletani venissero fatti prigionieri, tutti fossero venduti, quelli presi al di là del fiume di Capua (il Volturno), a cinque carlini l’uno, tanto maschi quanto femmine, affinché non potessero fare ritorno a Napoli. E ne furono venduti anche molti. Chi potrebbe dire, non enumerare, le cortesie e le largizioni del Re Alfonso? Né la lingua saprebbe dirle, né il cuore saprebbe pensarle. Volete che ve lo provi? Quel signore aveva grandi entrate dirette, indirette e (derivanti) da altre attività produttive. L’illustrissimo signore aveva le entrate di sette Reami e aveva altre attività produttive: mandrie di giumente, mandrie di mucche, mandrie di scrofe. Per le attività marinare aveva navi e galee. Prese una nave che aveva il valore di centomila ducati, e un’altra volta fu presa una galeazza dei veneziani che valeva centomila ducati. Aveva poderi con masserie, faceva seminare il grano in Puglia e in Calabria e in molte altre parti. Faceva scavare sotto la terra. Aveva molti negromanti che andavano trovando i tesori, e alla fine non si trovò un carlino. Quando morì, ogni cosa donò. Non sapeva dire se non “mi fa piacere”. Una volta gli chiesero della Regina e non seppe dire di non (sapere dove fosse), e allora disse che chiedeva troppo. Disse in catalano mas chiere (chiedi troppo). Lui ti avrebbe dato l’anima, se avessi avuto in animo di chiederla».3
I Detti e i fatti di Alfonso d’Aragona narrati dal Panormita potranno risultare più o meno piacevoli e gustosi al nostro palato di lettori del ventunesimo secolo; ma sono il segno tangibile della fiorente vita culturale napoletana nel secolo XV. Le storie che il Panormita racconta di Alfonso d’Aragona, coinvolgono sia l’attore di esse, il sovrano napoletano, sia chi le ha scritte, il nostro autore. Si commetterebbe un errore a tenere separati i due soggetti, perché la narrazione del Panormita è molto libera da pregiudizi. Il nostro autore sa bene che corre il rischio di sembrare encomiastico e che lodare un sovrano, che ha anche dei nemici notevoli, si può incorrere in giudizi severi. Il Panormita è consapevole del valore non accessorio della cultura nel governo del regno, e lo fa ripetere spesso proprio dal sovrano. Possiamo essere d’accordo o non esserlo con quanto detto e fatto dal re; ma un libro è interessante proprio quando ci induce al dibattito, quando evita le secche dell’appiattimento su preconcetti letterari e ideologici. E noi oggi sappiamo bene come sia facile, in base a dei canoni di correttezza stabiliti, si è portati ad esprimere giudizi su di un libro prima ancora di leggerlo.
Nella traduzione i vari aforismi del primo libro sono contrassegnati da un numero progressivo, che non è nell’edizione originale; si vuole rendere più agevole un controllo del testo e richiamarlo quando se ne avesse la voglia e l’opportunità. I proemi ai libri non vengono qui riportati, perché si vuole dedicare ad essi, come a quelli degli altri libri, la dovuta attenzione per comprendere il ruolo avuto dal Panormita in quest’opera, che è certamente riduttivo definire encomiastica.

V.I.

Description

IL LIBRO TRADOTTO PER LA PRIMA VOLTA DAL LATINO IN MANIERA ESAUSTIVA E COMPLETA

Virgilio Iandiorio traduce per intero e per la prima volta il libro di Antonio Beccadelli detto Panormita. 1. IN AIUTO DI GIOVANNA II 2. UN CAVALIERE PAGA ANCHE COL CORPO 3. L’ELOGIO DEL MEDICO SENZA DUBBI 4. LA SCALTREZZA DEI CORTIGIANI 5. LA CULTURA CAMBIA I ROZZI SPAGNOLI 6. IL RE DI SPAGNA: UN BUE CONTRO I COLTI 7. SFORZA O PICCININO? SFIDA A AMATRICE 8. CURIA ROMANA: LE ARPIE DELLE ISOLE 9. LA PAZIENZA CONTRO LA SFORTUNA 10. LA MALATTIA NON FERMA I LETTATI 11. L’IRA REGIA SE NON ESEGUI GLI ORDINI 12. L’INUTILE SFIDA DEL MILITE DI CAPUA 13. L’ASINO MANGIA SOLO, SENZA LA CORTE 14. PIETÀ AI GENOVESI TRATTI A POZZUOLI 15. GAETA: CONTRO UOMINI, NON BAMBINI 16. L’ARMONIA DI LIVIO PIU’ DELLA MUSICA 17. UN VERO RE TRIONFA SENZA PIOMBO 18. UNA DOTE REGALE ALLE NOVIZIE 19. PRIMA LA VIRTÙ POI L’ONORE: I ROMANI 20. RICCHI O POVERI, GIUSTIZIA EQUA 21. SORRENTIni DI PICENTIA COSì SCORRETTI 22. CONSIGLIERE ISOLATO NUOCE A TUTTI 23. LA NUOVA ROCCA RIFONDATA DAL RE 24. LE VESTI DEL RE NON FANNO LA CORONA 25. UN RE SOCCORRE ANCHE I SUOI ASINI 26. GAETA ARRESA PER PIETÀ DEI BAMBINI 27. MEGLIO DOTATA CHE MOGLIE BRUTTA 28. VENETI E FIORENTINI SONO PER LA PACE 29. MEGLIO BATTERE E VINCERE, POI LA PACE 30. I CALABRESI DA PREFERIRE AI BELLI 31. DA DIO SI RAGIONA COME DA SENECA 32. LEGGI LA MORTE DI DIDONE E TREMA 33. I SUDDITI MOLESTI SONO INOPPORTUNI 34. NON IN CORTEO DA VINTI MA DI FIANCO 35. GIOCHI A NAPOLI MEGLIO DELL’ETRURIA 36. LIBRO AL VELENO DI COSIMO DEI MEDICI 37. LE CRITICHE ALIMENTANO UN BUON RE 38. SUPERBI E’ PEGGIO DI ESSERE IPOCRITI 39. DAI CONSIGLIERI SI VA SENZA DIADEMI 40. AMERICO SANSEVERINO BATTE CAIAZZO 41. PICCININO: VALOROSO DI UMILI ORIGINI 42. LATTE PER I VECCHI, GLORIA CIBO DI RE 43. DURREA E I DISCORSI SOTTO CAIAZZO 44. UNA LETTURA DI RUFO CURA I MALANNI 45. UN «VITRUVIO» PER COSTRUIR CASTELLI 46. I FRANCESI PAZZI COME I BALLERINI 47. MANETTI IL FIORENTINO E LA MOSCA 48. FORMIA: TOMBA DI TULLIO O VITRUVIO? 49. SALVARE LA VILLA DI CICERONE A GAETA 50. LUIGI CARDONA E SACCHETTI A CORTE 51. NO ALL’ARCO DI TRIONFO SULLA CHIESA 52. IL SILENZIO APPARTIENE AI SAGGI 53. GEMMA GUARISCE IL FLUSSO DI SANGUE 54. CAVALIERE A SIRACUSA, MODI BARBARI 55. BALORDI E OTTUSI, UOMINI D’ASPETTO 56. GIUSTIZIA CIBO DELL’ANIMA 57. JACOPO TEDESCO E IL S.GIOVANNI D’ORO 58. GIOVANNI «FORTE» SENZA L’OPPIDO 59. PAROLE E GIURAMENTI 60. CICCO IL VINAIO UCCISO DA UN TRALCIO 61. CONOSCERE E’ MEGLIO D’ESSER RICCHI 62. LA BUONA BONIFICA SI FA SENZA TASSE

Dettagli

EAN

9788872970362

ISBN

8872970369

Pagine

144

Autore

Iandiorio

Editore

ABE Napoli,

ABE Torino

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Editorial Review

DICTIS ET FACTIS DAL LATINO PER VOI

 

Della regina, come richiede la narrazione, dirò poche parole. Il padre di Isabella era Tristano conte di Copertino della famiglia Chiaromonte, che nella Gallia Ulteriore veniva considerata nobilissima; sua madre era Caterina, sorella carnale di Giovanni Antonio Orsino, il Tarantino, quello che ha suscitato questa guerra. Morto il padre, Giovanni Antonio la fece allevare, era infatti in tenera età, ed educare con quattro sue sorelle in Lecce (Lipium), nei Salentini. Collocate in matrimonio le sorelle, e dopo la vittoria di Alfonso, per opera dello zio, ma anche con la condiscendenza di Alfonso, fu data in matrimonio a Ferdinando, che il padre aveva istituito erede del regno di Napoli.
Mostrò costei subito dai primi anni mirabile disposizione alla modestia e alla continenza: in casa sobria, ma non desiderosa di quello degli altri, attenta all’aspetto della sua persona per quanto lo chiedeva la dignità, dedita alla religione non senza superstizione, affabile, schietta, piuttosto che aspra, nel rispondere, di grande animo, di grande consiglio, costante nelle avversità, non superba nelle prospere cose, alla mano nel parlare mostrando niente di finto o di ricercato, amando il giusto e l’onesto fino alla veemenza. La morte impedì che potesse esercitare la gratitudine e la liberalità. Terminata la guerra, non ancora pianamente ricomposta la situazione del regno, morì in Napoli, avendo dato alla luce sei figli. La sua morte fu pianta dal popolo, in particolare le persone buone ritenevano che la sua vita fosse stata di gran lunga molto utile.
Il re, ricomposte alcune compagnie di cavalieri, richiamati anche i soldati della flotta, verso il 15 di ottobre si mosse in direzione di Capua. Distrutta Formicoli (Formicoli), e accettata la resa di alcuni castelli vicini, marciò contro il conte di Cerreto. Subito lo costrinse alla resa, avendo accettato come ostaggio il figlio maggiore Carlo. Di là fu chiamato dai Torrecusani. In un solo giorno riconquistò tutti i castelli dei Caudini, posto l’assedio alla rocca di Airola (Aerola), in cui molti uomini si erano rifugiati, vi lasciò Alfonso Davalo con un presidio, affidandogli la conduzione dell’impresa. Subito si diresse contro Francesco conte di Caserta; distrusse Dugenta (Ducenta), incendiò Maddaloni/Montedecoro (Munditianum), costrinse alla resa Valle (Vallis), e poco dopo la sottomissione di Francesco, riprese Pomigliano, assediò Arienzo, ma il cattivo tempo impedì che il Re si impadronisse con la forza dell’oppido. Infatti, all’ approssimarsi dell’ inverno, si fece più inclemente il cattivo tempo tanto, che molte tende militari vennero strappate o vennero trascinate dai torrenti che scendevano precipitosi dai monti vicini; i cavalli, gli uomini insieme vennero sommersi, insomma tutto andato in rovina; anche le baracche dei soldati, che in quel tempo erano state costruite con paglia, si vedevano galleggiare qua e là. Di giorni il tempo era brutto, ma di notte di gran lunga peggiore.
Matteo Stendardo, saputo ciò, differiva il tempo della sua resa, perché sperava nell’arrivo di Orso, che il Tarantino, andando via dalla Campania, aveva lasciato in Nola con quattrocento cavalieri, il quale, raccolti gli aiuti, sarebbe dovuto venire in soccorso. Tuttavia conosciuta la costanza del Re, l’animo pertinace dei soldati, si diede in potere di Ferdinando. La stessa cosa fece dopo pochi giorni Jacopo Galeota, che controllava Arpaia (Harpadium) con un presidio. Infatti anche Iacopo era passato agli Angioini, dopo che nei Bruzi si metteva bene per i rivoltosi.
Intanto quelli che erano assediati nella rocca di Airola si sentivano perduti, perché si vedevano circondati da ogni parte. Scarseggiavano i rifornimenti né speranza di un aiuto da parte di Orso. Il Re, ormai, era presente con tutte le sue soldatesche. Gli assediati patteggiarono l’incolumità personale e consegnarono la rocca. Conquistata Airola, Ferdinando, poiché la violenza delle precipitazioni non poteva essere più oltre sopportata, andò a svernare nei villaggi di Montefusco. Giacché il Tarantino e Giovanni, lasciata la Lucania e la Campania, si erano portati negli Irpini prima a Gesualdo (Iesualdum) poi a Vallata (Vallata) e Carife (Charifrae), infine erano passati in Puglia e nei luoghi vicini.
E’ risaputo che il Tarantino vedendo che le cose per Ferdinando avevano preso una mala piega, e che il Francese guardava ai suoi interessi, cambiò parere. Lasciata la Campania, cominciò a pensare alle cose sue tanto da invitare Ferdinando, quasi assediato, a venir fuori per rompere l’accerchiamento; di nascosto poi mandò degli ambasciatori a Isabella, che le dicessero di stare di buon animo e rassicurasse il re. Fece questo o perché avesse intuito o perché avesse avuto dei sospetti, per il timore che in lui era molto grande, che quelli, che erano intenti solamente al bene di Giovanni, avessero deciso di pensare a sé. In quegli stessi giorni, dopo che erano state abbattute le mura di Arienzo (Argentium), Roberto Sanseverino conte di Caiazzo (Comes Calatinus), mandato da Francesco (Sforza) con l’esercito dalla Gallia citeriore, per il suo singolare valore e la disciplina militare, sbarcò al porto di Formia e venne con pochi dei suoi dal Re. La sua venuta non solo fu gradita al Re ma anche attesa; sia perché soldato valoroso, pugnace e avvezzo alle vittorie, sia perché essendo figlio della sorella di Francesco suscitò grande speranza nel popolo e maggiore arditezza nel re. A lui che scendeva dalla nave, subito il Re si avvicinò sul lido, e lo informò di come stessero le cose sue e dei nemici; tutto gli espose: che cosa volesse fare, che cosa stava preparando. Per prima cosa il Re lo esortò di caricare la cavalleria sulle navi, e di trasferire tutto l’esercito da Formia (Formianus ager) e Fondi(Fundanus ager) a Pozzuoli (Puteolanus ager). Questi fatti si compirono quasi in due anni.