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LORENZACCIO ASSASSINO ALLA STRADA CHE PORTO’ IL SUO NOME DI TRADITORE
IL GIALLO del cinquecento che sconvolse Firenze senza spiegazioni
al lettore
io, lorenzo de medici,
sono stato l’assassino
Da poi che io mi partii di Firenze in non ho scritto mai a persona, pensando, come in simili casi sole intervenire, che a certi sia parso bene quel che ho fatto, e a certi altri male però giudicavo con quelli, ai quali ne paresse bene non accadesse giustificarmi con quelli altri e mi pareva tempo perso, perchè non li movendo il fatto non potevo sperar di far frutto colle parole.
Ma sapendario quanto bene mi volete, e quanto potete credere che io ne voglia a voi, in qualunque modo la cosa vi sia referita, mi è parso di farvi intendere l’animo mio perchè voi abbiate questo contento di sapese di avere un amico, al quale non paja di aver fatto niente, nè portato alcun pericolo rispetto a quello, che egli è pronto portare in servizio della patria.
E acciocchè voi mi difendiate contro a quelli, a’ quali gli pare che io abbia fatto bene, ma mi sia mal goverato, e mi davano di poco animo, o di poco giudizio.
Perchè se considereranno bene, vedranno che io non potevo far altro di quello che ho fatto.
Perchè voi vi potrete immaginare che dura cosa sia conferire con persona tali segreti, ma di quelle diligenze che io potevo usare, non ne mancai nessuna, cioè d’intender l’animo di tutti quelli, che mi parevono d’ importanza, e che lo tenevo certo non avessino a mancare in fo tale alla patria, massimamente che lasciandosi intendere sì scopertamente allora, che il tiranno era vivo, non potevo credere che morto avessino a mancare a loro medesimi.
Di averlo, o non averlo fatto in tempo, non mi pare di parlarne, perchè queste sono cose, che bisogna farle quando si può, e non quando si vuole, ancorachè disputandola le ragioni sono per me, perchè il farlo avanti, o adesso, quando le cose di Cesare erano in fiore, e che egli era in Italia, o tornava vincitore d’Africa, pareva il dare occasione a chi non voleva la libertà, servirsi di quella paura per coperta del mal’animo suo.
Nel differire s’incorreva in pericoli infiniti, o piuttosto nella rovina manifesta della Città, che sapete non si pensava ad altro, che a por gravezze, o spender senza profitto alcuno.
E nell’avere eletto altro tempo, che il Sig.Alessandro era fuora, mi pareva aver data grande occasione a quei cittadini di pigliare la superiorità della Città, e di poter pensare di disporre il prefato Signore per qualche verso.
Circa l’essermi fuggito, e non aver chiamato li cittadini, ed aver mancato di una certa diligenza dopo il fatto, che dimostrò, che non solo io non arei giovato alla patria in conto alcuno, ma vi avrei messo la vita, la quale io riservo pur salva per impiegarla un’altra volta in suo, servizio, ancora che io avessi in animo di farlo, ma il sangue che m’usciva in quantità d’una mano che mi era stata morsa, mi, fece temere, che nell’andar attorno non si manifestassi quello che bisognava tener segreto un pezzo, volendo far cosa buona.
E così mi risolvetti ad uscir fuori di Firenze, dove io non mancai di tutte quelle diligenze che io potetti: ma la mia sorte volle che il primo che io riscontrassi non mi credette, e così ebbi da perder tempo, e spingermi pure innanzi per trovare chi mi credesse.
Questi, che non credette, fu Messer Salvestro Aldobrandini in Bologna.
Dipoi me ne andai alla Mirandola per sollecitare, se niente si facesse, e con qualche pericolo mi messi a passare per luoghi sospetti, tenendo sempre ferma speranza, che la cosa non potesse cascare se non in piede, perchè non mi pareva possibile, che dopo tanti mali noi non avessimo da pensare d’avere ad essere uniti.
Massimamente sapendo che li capi tendevono a questo, di vivere in modo, che ognuno avesse il luogo suo, e pareva spenta ogni sospenzione di tirannide, che questo avesse da succedere facilmente.
E certo ne succedeva, se si fosse avuto fede l’uno nell’altro, e pensato che gli uomini da bene vogliono prima che tutte le altre cose, il bene della patria loro, e non ricoprono i loro appetiti con il dire di far quello che fanno per non poter far meglio; nondimeno io ho speranza che un dì meglio informati del vero si abbia per se stesso a medicare questo ulcere, innanzi che egli incancherisca, e che egli abbia bisogno di più gagliardi rimedi, che sapete che le medicine potenti nel levare il tristo menano con loro assai del buono, tanto che io stò in dubbio se io desidero piuttosto il male, che la medicina, attesa la miferia in che è ridotta cotesta povera Città, e il suo Dominio.
Ma con tutte queste cose io non mi dolgo della mia sorte, parendomi aver mostro al mondo quale sia la mia mente, e alla patria in qualche modo soddisfatto.
E non mi pare aver fatto troppa perdita essendo privo d’una patria dove si tiene sì poco conto della libertà, avendo pure questa sodisfazione di sapere, che ella non possa essere sottoposta a più tristo tiranno.
Se io avessi pensato, che questa lettera vi fosse per dare carico alcuno, potete tenere certo, che io non ve l’arei scritta.
Ma non mi pare, che noi siamo in sì tristo termine, che non si possa parlare; imperò letta che l’avrete, ardendola farete sicuro, che ella non vi possa nuocere, perchè ella avrà fatto il corso suo, ogni volta che spiegandomi io vi abbia mostro quella fede, che ho in voi, avendo certo, che in questo grado che io sono voi non abbiate a mancare all’onor mio, anzi mi abbiate a difendere dovunque farà di bisogno, facendo largamente fede dell’animo mio, quale credo che voi abbiate conosciuto prima che adesso, tale e stata l’amicizia nostra.
E senz’altro dirvi, farò qui fine; certificandovi che in questo ed in ogni evento voglio esser vostro, come insin qui sono stato; e a voi, e a vostro padre mi raccomando.
Di Venezia, alli 5 di Febbrajo 1536
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