Editorial Review
La silloge poetica di Anna Maria Parente
La presentazione della silloge poetica di A. M. Parente è per me innanzitutto un atto di amicizia nei suoi confronti, nel ricordo degli anni di studio che abbiamo condiviso, e del comune e costante cammino di fede. Leggere i suoi versi è scoprire e riconoscere il valore della nostra amicizia, rileggere e ritrovare la nostra identità cristiana e cattolica. Il substrato culturale soggiacente alle sue poesie è infatti, profondamente cattolico, e non poteva essere altrimenti, vista la sua formazione. E per questo motivo, nella mia breve presentazione, approfondisco alcuni tratti distintamente teologici.
Sottolineo però che la pista teologica è solo uno degli aspetti su cui si può focalizzare l’attenzione, perché la silloge, si presta a vari percorsi interpretativi, sia per ampiezza di contenuti, che per il simbolismo figurativo di cui Anna Maria fa largo uso. In lei scopro e riconosco una naturale e sorprendente vena poetica. La sua capacità di fare poesia, si sprigiona come arte pura e semplice di cantare la vita nel suo continuo divenire, attraverso una padronanza di linguaggio non comune. Leggendo le sue poesie si evidenzia una elevata estensione linguistica, una grande ricchezza terminologica, una ricercatezza accurata dei vocaboli, quasi un cesellamento delle parole, perché ogni parola sembra una perla incastonata nel punto esatto dove può riflettere maggiore luce, può meglio rendere il significato. Perché tutte le sue poesie sono una continua ricerca di senso, un senso profondo che prende vita dalle sue parole e spinge alla riflessione, orientando il cuore e la mente del lettore verso sentieri e orizzonti diversi, a seconda delle proprie particolari esperienze di vita, ma sicuramente rintracciando degli stati d’animo, dei pensieri, dei valori comuni e condivisibili.
I suoi versi sono un concentrato, sono come un nucleo che prende forma, prende vita, ed espandendosi porta con sé un continuo lievitare di contenuti, un continuo fluire di pensieri che progressivamente allargano lo sguardo sul mondo, e che hanno come filo conduttore un punto di incontro tra il finito e l’infinito. Ricorre spesso nella silloge il concetto di finito e di infinito in relazione tra loro. E sembra proprio che questi versi, pregni del ricorrente senso di dolore che affligge l’uomo provato dall’esperienza e dalla durezza della vita, e dallo smarrimento e sconcerto per la presenza del male, trovino poi nell’Essere Infinito di Dio, la ragione delle cose, una plausibile spiegazione al dolore che accompagna l’esistenza, un anelito di speranza.
Spesso, Anna Maria, esprime la drammaticità del vivere in toni esistenzialistici. In “Oblio”, ad esempio, è presente il tema della sofferenza, non solo quella fisica ma anche quella dell’anima, non solo il male fisico ma anche quello morale che destabilizza l’uomo, disintegra la sua personalità fino alla dimenticanza assoluta del suo essere, della sua identità, in un andare cieco, vuoto, senza senso (E poi i corpi lambiti curvi / Pronano alle sferze del tempo / che lancia ricordi per saette. / E le anime schiantate al suolo / di un vivere errabondo). In “Pozzi scoperti”, tra i versi affiora il tema dell’isolamento esistenziale dovuto al dilagante uso del web (Il web è ormai solo cervello / E l’occhio d’acciaio / Osserva nemico e muto), che porta alla destrutturazione dell’uomo, alla privazione, al venir meno di quella parte di sentimenti e di reciprocità che si può cogliere solo negli sguardi in un incontro “vis à vis”. O ancora, si può cogliere lo smarrimento e lo sconcerto per la presenza del male, della cattiveria, della guerra, in “Noi non c’eravamo”. I versi, in un “continuum” crescendo, dipingono la vita snaturata di Auschwitz, esprimono tutta la crudeltà di cui è capace l’uomo che si abbandona all’odio. L’autrice impegna qui tutta la sua capacità descrittiva per denunciare l’orrendo quadro di Auschwitz, per presentare le varie facce della morte, della desolazione, della deportazione di esseri umani, causata dall’odio razziale, e dalla volontà distruttiva di una guerra crudele dove l’uomo, armato contro l’altro uomo si rende responsabile di violenze inaudite, e disprezzo senza limiti della vita altrui.
Altra nota caratteristica di A. M. Parente è la plasticità con la quale rappresenta la realtà così come è drammaticamente vissuta. L’impatto con la realtà è molto diretto, senza preclusione verso ciò che inevitabilmente accade. E, nel fondo delle sue poesie, emerge la possibilità di accettazione della triste vicenda umana come fattore imprescindibile ed identificativo della stessa natura umana, e su questa accettazione si staglia la possibilità dell’incontro con un Dio che salva, che lenisce le nostre ferite, che ci conduce oltre la realtà visibile ai nostri occhi. Ad esempio, in “Come le Stagioni” è molto evidente che il cammino dell’uomo, scandito dal tempo che passa inesorabile, è un continuo pellegrinare verso un mondo di pace eterna, dove le nostre imperfezioni potranno essere colmate nella salvezza delle nostre anime, che liberate dal peccato, dalla cattiveria, potranno godere pienamente della vita eterna (Come lente le stagioni / Saranno passate. / Liberando le anime incorrotte / Inalterate e pie.). In “Abbà”, si mostra la possibilità di superamento del dolore e della morte nell’amore dell’Abbà Padre, nell’orientare la propria vita verso di Lui, relazionandosi a Lui nell’Amore, e con la preghiera intesa come momento mistico per eccellenza (Alzai al mistero / Le mani giunte / E ti amai Padre / E amandoti ti conservai). Qui, i versi sono da meditare, perché nel fondo emerge il dualismo tra la morte e la vita che vengono poste in antitesi per la scoperta di Dio Padre. In “Pensieri Chiusi”, con l’espressione “Aprimi”, tra le resistenze interiori che pur ci sono e appesantiscono il cammino, si può scorgere l’invocazione ad un Dio Infinito. La preghiera è un mezzo per interloquire con Dio, per conoscerLo, per riempire sé stessi di quella pace divina a cui aneliamo, una richiesta di significato che solo Dio può esaudire. (I miei pensieri / Sono fioretti di preghiere. / Preghiere e lacci stretti / Di resistenze e voglia di gridare. / Aprimi.).
Il riferimento all’incontro tra il finito dell’uomo e l’Infinito di Dio è molto palese in “Mezzogiorno” (Mentre s’accoppiano indecenti / il finito e l’infinito). Questi versi esprimono, nei confronti di quest’incontro, l’amarezza dell’uomo, che per sua parte, non può alimentarlo in egual maniera. Il termine “indecente”, vuol dire sconveniente, non conforme al pudore, per inadeguatezza dell’uomo, per il suo limite affettivo. Si sente il peso della propria pochezza! L’anima, solo nell’Amore può armonizzarsi con l’Infinito, e Amore vuol dire innanzitutto volersi bene, conoscersi e riconoscersi come Bene, perché se mi voglio bene mi relaziono nel bene. L’anima che non si vuole bene non creerà un grande incontro, non avrà un grande rapporto con l’Infinito Amore di Dio, vivrà l’assenza di Dio nella monotonia di una vita vuota, e a poco serve, e poco prende vita nel suo cuore, la grazia del Battesimo o il valore di un Avemaria, di una preghiera. (Negli occhi morti / Un’anima / Che non si vuole bene. / … Il mattino stenta un sorriso / Baciato da miserere. / Ora religiosa monda e pia / Altri tocchi battezzati / Afflati di Avemarie).
Tutta la positività e la bellezza di un’anima che cerca di porsi in sintonia con Dio, la troviamo espressa in “Non fermarti Primavera”. Qui c’è l’esplosione della primavera, che in senso figurato rappresenta l’esplosione dell’anima che va alla ricerca di Dio, abbandona il grigiore pesante della monotonia, si libra leggiadra sulla vita che accade, si libera delle catene interiori della tristezza, e fiduciosa e speranzosa volge lo sguardo sulla bellezza dell’Universo, che presuppone necessariamente un Dio creatore. È un’anima raggiante di felicità perché si trova sulle tracce di Dio (Lascio la buiaggine. Vado. / Esplodo la felicità / Verso la vitalità rosa / Nascosta nell’Universo / È mia. E la troverò.).
Una descrizione estatica della libertà, intesa come volo verso l’Infinito, la troviamo in “Io e la Libertà”. La libertà è “cammino” dal finito all’Infinito, la libertà è incontro con l’Infinito, con Dio, è avere la possibilità di contemplare la Bellezza dell’Amore di Dio planando sulle cose del mondo, la libertà è poter usare la fantasia, l’immaginazione, la meraviglia, la libertà è forza creatrice di sé stessi all’interno di un quadro di valori moralmente sgombro dal peso della cattiveria, del male (Riflessi di misteri / Salire salire col filo finito / che nell’infinito si perde.).
In “Dalla Vite alla Vita” traspare il vivificante il richiamo all’Ultima Cena, quando Gesù consacrò il pane e il vino. Evidente il riferimento alla Comunione eucaristica sotto la specie del vino, mediante la quale Gesù attualizza la Sua presenza fra noi e libera l’uomo dal peccato, dal sonno del male. La consacrazione del vino è preludio del mistero divino che ci compenetra e viene ad abitare in noi dandoci la vita nuova (E cuori di anime e corpi / Inviolabili / Che nel Sonno del male / Il disegno divino / Nel peccato sconsacra.).
In “Gote di Fuoco”, si rivive l’odore, il profumo, l’armonia, l’atmosfera del Natale. L’attesa del Signore che viene scandita dalle domeniche di Avvento che orientano l’uomo ad accogliere Gesù Bambino, incarnato e venuto al mondo per noi. Qui c’è lo svelamento del mistero del Natale di Gesù in quella piccola ed umile stalla. Dio si incarna, e nasce Uomo, s’immerge nel finito dell’uomo per redimerlo e renderlo partecipe del Suo Amore divino. Se pensiamo a quante barriere attanagliano la nostra vita, vediamo nel mondo tanta miseria e sofferenza (Ho visto la sofferenza / Battere i chiodi della vita.), ma i versi di “Sogno d’Amore” rappresentano la prefigurazione della Croce di Cristo, che assume su di Sé tutta la sofferenza del mondo (Ho baciato il dolore di chi in silenzio muore.), e la redime (E non ho più paura /). L’arrivo del Bambino Gesù illumina il mondo, getta luce sui mali della Terra. Gesù ci mostra che per amore bisogna chinarsi sul dolore dell’altro, senza paura, e farsi piccoli per comprendere il dolore dell’altro. A Natale nasce Colui che dissipa le tenebre, sana il dolore, colma di grazia il limite dell’uomo (Nel silenzio di Natale stellato / Stanotte è nato l’amore).
Come si può notare sono tanti i riferimenti al sacro, al divino, che richiamano alla presenza costante e salvifica di Dio, come unico baluardo di pace, di speranza, di libertà, di felicità. La silloge di A. M. Parente canta la vittoria di Dio sul male del mondo che affligge l’uomo. In “Occhi Miei Vedetta” l’espressione “Non posso prenderti / Spirito eterno / Eppure ho le mani dell’anima. /”, sta proprio a significare che la nostra anima orienta e dirige il corpo, che pur trattenuto dalla variabile spazio-tempo, raccoglie nelle “sue mani” la sostanza divina, ed è destinato, oltre la dimensione spazio-temporale, alla comunione divina con Colui che ci ha dato la vita. E Colui che ci ha dato la vita ci libera dalla morte, è venuto a prepararci la strada per la vita eterna! Come lascia intuire la nostra poetessa, in alcuni versi decantati in “Senza niente”, la morte diviene qualcosa di lieve e soave, un inevitabile passaggio dalla vita terrena a una nuova vita soltanto spirituale, in un mondo senza tempo, dove l’anima, oltrepassando il ponte dello “spirito”, sarà libera di volare e ritrovarsi nella sua essenza e sostanza, in Colui che l’ha creata “a sua immagine e somiglianza” (Dal ponte dello spirito / Mi vedrò corpo tra i corpi. / Nel giorno senza tempo / Volerò in un mare senza niente / Dove il niente non è più / Il contrario delle cose. / Solo l’aria e l’anima / Voleranno invisibili sul mondo).
Angela De Lucia
Dottoranda in Diritto Canonico
Autrice pubblicista
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