la differenza e’ l’amore: italiani e americani

Il poeta americano, John Ciardi, nato a Boston nel 1916 da genitori originari della provincia di Avellino, e morto nel 1986 nella città di Edison (New Jersey) alcuni mesi prima che morisse, venne intervistato da Linda Brandi Cateura, redattrice letteraria di Woman’s Day e di altri giornali.2
La conversazione verteva sulla educazione ricevuta in famiglia, cioè l’incidenza che aveva avuto sulla sua formazione e sulla sua carriera di letterato il fatto di essere nato da italiani.
A proposito delle etnie presenti negli Stati Uniti, il poeta fece questa riflessione:
«Ogni gruppo etnico ha dato un contributo alla nostra società. Io lo sento sempre, all’istante. Per contributo, io non parlo di abilità come quella dei muratori o dei sarti che danno come risultato bei vestiti o edifici, ma parlo di qualcosa di natura etnica. Posso raccontare una mia esperienza per spiegare ciò. Ho fatto molti viaggi durante il periodo delle lezioni universitarie e un giorno mi trovai in Texas nei colleges. Era tutto nella norma ed anche un po’ noioso finché non arrivai all’università di El Paso. Lì ebbi il senso dell’università europea. C’era una vita culturale: una meravigliosa, vivace associazione culturale in virtù del fatto che tutti parlano sia l’inglese che lo spagnolo. Qui la cultura spagnola (ossia etnica) e la cultura gringo (che è quella nordamericana) vanno insieme, ognuno dando qualche contributo all’altro. E ovunque c’è questo incontro le cose fioriscono. Io sono stato fortunato perché c’era una cultura a casa mia e un’altra nel mondo fuori di essa. Ed ero consapevole di questa differenza, ero interessato alle differenze. Imparavo da questa esperienza. Questa separazione fa bene. Essa ti sensibilizza alle cose di fuori, esterne. Quando i miei amici facevano cose che nella mia famiglia non si facevano, io riconoscevo la differenza. Uno dei motivi per cui ci sono tanti scrittori ebrei è che il senso dell’alienazione li rende più sensibili. Da ragazzo a volte mi sentivo un alieno tra i miei amici. Loro facevano cose diverse, io lo notavo. Potresti dire che li guardavo più attentamente di quanto loro guardassero se stessi. Noi siamo un’antologia di gruppi etnici. Tre cose abbiamo in comune: la TV, il pollo fritto e McDonald’s. E forse un uso scorretto della Costituzione».
Il messaggio del poeta è chiaro: le differenze non possono essere annullate o cancellate, ma superate sì, con una mutua comprensione. E con riferimento alla sua fanciullezza: «Durante la mia infanzia -disse ancora in quell’intervista- c’erano sempre due mondi. Io ho sempre sentito che quando hai una seconda lingua, hai tre cose: la prima lingua, la seconda e la differenza tra di esse. Questo catturava la mia attenzione, ne ero affascinato. E poi c’era la casa, c’era il mondo e le differenze tra loro. Ciò attirò la mia attenzione dall’inizio poiché capii di aver necessità di un sotterfugio necessario, dovevo usare un doppio standard: uno fuori della porta di casa e uno dentro. Non andava sempre così, pacificamente. Qualche volta, in questo divario di generazioni, specialmente i ragazzi italiani, concludevano che i loro genitori erano sbagliati, non appropriati, diventavano sgradevolmente antipatici. Questo portava a litigi in cui i ragazzi e i padri, qualche volta le madri, si dicevano cose terribili l’un l’altro. Due o tre di questi ragazzi, con cui ero cresciuto, se ne andarono via e non ho sentito più nulla di loro.
La differenza è l’amore. Se tu avevi abbastanza amore, potevi dimenticare l’evidente differenza».
Non è retorico ritenere che negli Stati Uniti differenza e amore sono l’elemento che ha tenuto, e tiene insieme, tante persone diverse per provenienza, lingua e cultura. Nell’attività politica e in quella culturale gli italiani d’America hanno manifestato nel decennio 1930-40 idee, proposte, attività contrastanti; ma senza smettere di sentirsi cittadini di un grande paese, e di avere in eredità una grande cultura, quella del paese di provenienza.
La complessità di un evento storico la si può desumere anche dal nome con cui viene questo indicato. E noi italiani siamo imbattibili, quando si vengono a trovare insieme cose di per sé non molto compatibili, ad introdurre nel lessico termini che denotano concetti ambigui e polivalenti. Gli emigranti italiani che si trasferirono negli Stati Uniti vengono comunemente indicati come italo-americani. Credo che nessuno di noi abbia sentito dire che i nostri emigrati in Germania siano indicati come italo-tedeschi, o in Belgio italo-belgi. Mi si può obbiettare che l’autore de La coscienza di Zeno volle chiamarsi Italo Svevo; ma ai poeti e agli scrittori sono consentite licenze. L’emigrazione dei nostri connazionali nel nuovo mondo, per chi la guarda dall’Italia, si rivela un fatto che non è facile “tradurre” con parole chiare e che non si prestino all’ambiguità.
«Negli Stati Uniti il processo migratorio assume caratteri di massa a partire dal decennio 1871-1880, quando arrivano nel paese più di due milioni e ottocentomila immigrati, al 90 % dall’Europa Occidentale, ma di questi solo il 10 % dall’Europa del Sud. Entro la fine del secolo ne arrivano quasi nove milioni, soprattutto dal Sud dell’Europa. Si tratta di popolazioni meno ricche, meno alfabetizzate, più irregolari e disorganizzate rispetto al passato. Ricordare questi elementi, aggiungendo che entro il 1920 arrivano negli Stati Uniti quasi altri cinque milioni, è premessa per tenere presente che lungo tutto il processo dell’immigrazione, a partire dalla fine degli anni 1880, inizia un conflitto a livello del Congresso, che tende a limitare, contenere, respingere, espellere quegli immigrati, costruendoli sul piano sociale come invasori o distruttori della cultura statunitense, determinando allarme e preoccupazione, mettendo in movimento reazioni di tipo razzista. Dunque, il processo teso a interrompere quell’emigrazione è continuo. Dal Chinese Exclusion Act del 1882 fino al 1924, anno della proclamazione del Johnson Act, che chiude le frontiere, si avvicendano per quarantadue anni in modo continuato provvedimenti legislativi contro l’emigrazione, in un quadro istituzionale e sociale che vede forti contrapposizioni tra chi ritiene gli immigrati una risorsa di sviluppo e chi tende a respingerli in modo continuato, arrestandone l’arrivo a Ellis Island e selezionando rigidamente quelli che tentano di continuare ad entrare negli Stati Uniti».3
Chi non ricorda la sosta degli immigrati, appena sbarcati, in Ellis Island, l’isolotto di Manhattan destinato ad Immigration station. «I primi 700 emigranti attraccano a Ellis Island il 1 gennaio 1892. Alla fine dell’anno saranno oltre 450mila gli immigrati passati dall’isola di fronte a Manhattan. Il picco sarà raggiunto nel 1907, con oltre 1 milione di arrivi, tanto da indurre le autorità newyorchesi a potenziare la struttura con un ampliamento importante, e ad affidare ad un commissario all’immigrazione, William Williams, la gestione del personale di Ellis Island per estirpare la piaga dilagante della corruzione. Con lo scoppio della Grande Guerra l’attività del centro diminuì sensibilmente, e per un periodo la struttura fu destinata alla detenzione dei cosiddetti enemy aliens, i potenziali nemici di origini straniere presenti sul territorio e sospettati di spionaggio. Soltanto tre anni dopo la fine delle ostilità iniziò il declino di Ellis Island per effetto dell’Immigration Quota Act voluto dal Presidente Warren G. Harding, seguito nel 1924 dal National Origins Act, che fissava un tetto al flusso di immigrazione sul territorio Usa, stabilendo anche le quote massime per i rispettivi Paesi di provenienza».4
Il centro venne chiuso definitivamente nel novembre del 1954.
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