Description
A
«il bello», «la pazza» e «il cattolico»
Alla morte del nonno Ferdinando, Carlo V, accettando le idee degli avi, preferì il potere alla famiglia e, lasciando perire la madre in una cella oscura del castello di Toedesillas per 46 anni, diede una svolta alla sua vita, benchè Giovanna fosse diverse volte dichiarata lucida e ben sana di mente. Solo che rifiutava di accettare i tentativi di costringerla alla pratica religiosa della confessione, che ostinatamente rifiutava.
Ella diceva: — Io sono una delle due o tre regine sovrane del mondo; ma il solo fatto che sono figlia di re e di regina sarebbe dovuto bastare perché non fossi maltrattata.
La vera erede universale di tutti i regni era infatti Giovanna III detta La Pazza. Da vedova dell’arciduca d’Austria Filippo il Bello, ereditava i domini borgognoni delle Fiandre, la Castiglia e le colonie americane; da figlia dei Re Cattolici di Spagna, erano suoi gli stati italiani dei Regni di Napoli, Sicilia e Sardegna. In realtà, già dal 1504, con la morte della Regina Isabella, era l’erede ufficiale di tutti i beni di Castiglia per volere della stessa madre. Isabella glieli confermò proprio poco prima di morire nominandola erede del Regno di Castiglia. In caso di instabilità mentale sarebbe stato il marito Ferdinando a reggere la sorte dei due Regni di Castiglia e d’Aragona, almeno fino alla maggiore età di Carlo V. Una decisione che comunque non poteva avere seguito in quanto i due regni, seppure uniti, appartenevano a due reggenze diverse. Pertanto, dichiarata Giovanna insana di mette e fattala rinchiudere, Ferdinando comunque non mise le mani sulla reggenza in quanto fu rivendicata, per motivi matrimoniali, da Filippo Il Bello e con il placet della nobiltà di Castiglia e l’appoggio della Francia. E su Castiglia regnò Filippo fra il 1505 e il 1506, anno della morte, in seguito a cui Giovanna peggiorò, ma sarebbe rimasta Regina in ogni caso fino al 1509, vero anno della sua prigionia nel castello di Tordesillas, a Valladolid, quando restò tutto nelle mani del padre.
Il figlio Carlo, infatti, era solo e soltanto ancora l’erede potenziale, almeno fino a quando non morì Ferdinando. Solo allora, morti i nonni e lasciata in carcere la madre, unirà l’eredità dell’avo paterno, l’Imperatore d’Asburgo, vale a dire i domini della Casa d’Asburgo, tra cui l’Austria, la Stiria, la Carinzia, il Vorarlberg e il Tirolo, cioè un vero Imperatore (1519), in quanto Massimiliano aveva sposato Maria Bianca di Borgogna, ultima erede dei Duchi di Borgogna.
A fomentare il futuro Imperatore furono forse proprio i parenti delle Fiandre. Carlo, infatti, della cultura spagnola conosceva poco in quanto tutta l’educazione del giovane principe fu ammantata di cultura fiamminga del Ducato delle Fiandre dov’era stato col padre Filippo fin da quando ne aveva ereditato il possesso da Maria Bianca, morta all’età di venticinque anni a causa di una caduta da cavallo. E nelle Fiandre Carlo trascorse l’infanzia e l’adolescenza, aggiungendo alla sua istruzione solo il francese in quanto non fu mai molto amante degli studi, preferendo le arti cavalleresche e la caccia. Affiancato dal consigliere Erasmo da Rotterdam, questi, in una lettera inviata a Tommaso Moro, si dimostrava alquanto perplesso circa le effettive capacità intellettuali del principe. Ma ora, lasciata La Pazza in prigione, alla morte dei nonni, era divenuto il padrone assoluto di buona parte del mondo conosciuto, sebbene dal punto di vista dinastico fu Regina fino alla sua morte (1555). Mancava solo un dato: il riconoscimento ufficale. Il 4 novembre 1517 Carlo, che non vedeva la madre da dieci anni, essendo stato allevato nelle Fiandre dalla zia Margherita, visitò Giovanna, di cui non ricordava le sembianze e di cui aveva solo sentito descrivere la follia. L’incontro era dettato dalla necessità di ottenere la legittimazione alla assunzione del potere, ma la situazione per Giovanna non cambiò: le idee poco convenzionali della madre sulla religione potevano rappresentare una minaccia. Un governo nelle mani di Giovanna avrebbe avuto effetti dirompenti sugli interessi del clero e della nobiltà, consolidati negli anni della reggenza di Ferdinando, temendo anche di essere escluso egli stesso dalla gestione della Corona e, con lui, l’entourage fiammingo da cui era circondato e che s’arricchiva alle sue spalle. La incapacità mentale di Giovanna faceva comodo a tutti e Carlo continuò la politica del nonno lasciando la madre nella stessa condizione in cui l’aveva trovata.
— Sacrificò risolutamente la madre alla sua missione, come Filippo aveva sacrificato la moglie alla sua avarizia, come Ferdinando aveva immolato la figlia ai suoi piani poltici.1
Carlo pose a custodia di Giovanna il marchese di Denia, don Bernardino de Sandoval y Royas, feroce aguzzino abile nell’uso della corda come strumento di tortura. Non era migliore del suo predessore Ferrer, che, peraltro, dichiarava di non avere mai sottoposto la Regina alla cuerda se non per ordine del padre Ferdinando, appendendola per i polsi dopo averle legato dei pesi ai piedi. Il marchese di Denia scriveva a Carlo dicendogli che prima dei sentimenti filiali dovevano venire gli interessi politici: a volte suggeriva di applicare alla Regina la tortura perché questa sarebbe stata utile alla sua salvezza e certamente avrebbe reso un servizio a Dio e spesso gli ricordava che egli agiva nel suo esclusivo interesse, arrivando a sostituire i frati che, messi vicino alla Regina nel tentativo di convertirla, ne divenivano, invece, amici e difensori, come accaddé per frate Juan di Avila.
Carlo di Gand, temè fino alla fine che le idee di Giovanna, una volta libera, potessero fare colpo sul popolo e infiammare il serpeggiante sentimento antifiammingo mettendo in pericolo il suo potere, l’unica cosa in cui veramente credeva.
Per mantenerlo, più che la madre, preferirà richiamare gli ebrei cacciati dal Regno di Napoli (1520), sebbene i francescani, come Fra’ Francesco di l’Agnelina, intravisto un altro pericolo, continuarono ad additarli, nonostante il Vicerè gli ordinasse di tacere “inzuriandolo assai” affinchè non “predicasse contra zudei”, sebbene poi otterrà (1521) che portassero il barete zale, il berretto giallo come a Venezia.2
In fondo, anche la nonna paterna di Giovanna, a cui molto assomigliava, Giovanna Enríquez, era ebrea. Chissà se pure l’ava era stata così gelosa di un marito come Filippo il Bello, il quale se l’era spassata allegramente con le belle fiamminghe di corte, giungendo al punto di sfigurare i visi di donzelle e schiave more, al solo scopo sessuale.3
Stando ad una tradizione locale di Vico Equense, il Castello di Giusso sarebbe abitato dal fantasma di Giovanna La Pazza, essendo stata un’amante dall’anima in pena. La cosa a dir poco strana è che i vicani asseriscono che fu proprio quella regina a morire a Vico finendo in una trappola costruita per gli amanti dopo le prestazioni amorose, le cui urla ancora echeggiano ogni estate dalla Cappella del Castello. Evidentemente gli storici hanno fatto confusione sul nome di un’altra Giovanna.4
Questa leggenda in realtà si riferisce alla Torre dello Ziro situata sul Monte Aureo di Atrani (Sa) che svetta su Amalfi (Sa), antica fortezza di Scalelle (Sa) di cui non restano che i ruderi. Qui fu infatti rinchiusa una Giovanna d’Aragona, ma discendente illegittima di Ferdinando I d’Aragona, la quale, nel 1490, all’età di dodici anni, impalmò il Duca di Amalfi Alfonso Piccolomini. La Duchessa Giovanna restò presto vedova con due figli e senza più entrate, ma risanò le casse, sposando il maggiordomo di corte Antonio Bologna, con il quale sarebbe nata una ennesima e struggente storia d’amore. Uno scandalo, però, per i fratelli della sposa, i quali, definendola “pazza”, la rinchiusero insieme ai due bambini nella Torre dello Ziro ed ivi la lasciarono morire di fame, mentre il maggiordomo fu ucciso in un agguato. Una tragedia, questa della Duchessa, ben distinta da quella della Regina, e sicuramente fonte di ispirazione di Matteo Bandello che gli dedicò la XXIV delle sue “Novelle” da cui poi furono tratte due tragedie: la “Tragedy of the Dutchesse of Malfi” di John Webster e la “Comedia famosa de mayordomo de la duquesa de Amalfi” di Felipe Lope de Vega. In ogni caso la popolazione l’ha da sempre chiamata Giovanna La Pazza, che ben si differenzia, seppure contemporanea dalla Regina Giovanna La Pazza.5
Non per questo non sia probabile una venuta nel Regno di Napoli della Regina o anche la reggenza indiretta dei suoi stati, una volta stabilito il vero significato di Pazza (la nobile che tradiva per amore?!). Negli Archivi Vaticani, infatti, vi sono dei sigilli, fra cui uno del 1522 recante la scritta Carlo I e Giovanna la Pazza, re e regina di Spagna.6
Il 27 febbraro di tre anni prima (1519) a Trieste si faceva “divieto di balli per la morte di Imperatore Massimiliano e, il 30 giugno, da Barcellona, Carlo si diceva ancora “V”, mentre, il 16 luglio, in una medesima lettera, l’intestazione è “Giovanna e Carlo Re delle Spagne e delle due Sicilie”, in quanto i Regnanti “concedono ai negozianti triestini nel Regno di Napoli e Sicilia i privilegi che vi godono i Fiorentini. I Privilegi dei Fiorentini sono spiegati in Diploma del 1636 che registriamo”. Soltanto due giorni dopo, da Barcellona, Carlo si firma come “Re Carlo I di Spagna (V nell’Impero)”, missiva con cui “ordina al Vicerè di Napoli l’esecuzione dei privilegî mercantili accordati ai triestini”, e, il 27 seguente, da Barcellona, torna ad essere “Re Carlo V, facendo per sè e pel fratello Ferdinando”, quando “nomina in suoi Luogotenenti e Reggenti per le Austrie e Tirolo, il Cardinale Arcivescovo di Salisburgo, il Vescovo di Trento, il Vescovo di Trieste Pietro Bonomo, ed altri undici Consiglieri, per accogliere l’omaggio, e reggere in loro nome.7
Non aveva motivo, Carlo, di spedire una missiva per rinnovare privilegi in territori paterni di Trieste con la firma della madre, ma aveva invece l’obbligo a farlo in territorio del Regno di Napoli in quanto questo era ancora della madre almeno fino a due giorni dopo. Il 16 luglio 1519 Giovanna e Carlo, madre e figlio, erano insieme sul trono di Barcellona. Il 18 luglio Carlo era l’unico a governare. Presumibilmente Giovanna continuò ad essere la vera Regina di Napoli anche dopo la morte del padre, ma non proprio fino al 18 luglio 1519 quando, sebbene in associazione, è detta solo Giovanna mentre, il figlio, viene titolato come Carlo Re delle Spagne e delle due Sicilie.
Giovanna non andò mai a sedere materialmente sul trono di Napoli, dove risiedeva il Vicerè. Ma presumibilmente, in un primo tempo, fu alla Corte di Barcellona ad assistere il figlio, il quale, alla morte dell’Imperatore, era già in Spagna da tre anni, dove presterà giuramento solo nel 1519. Nemmeno le Corti di Castiglia lo avevano legittimato, almeno fino al 1517 quando furono convocate a Valladolid, dov’era appena morto Ettore Fieramosca (1515), capitale spagnola in quota ereditaria di Giovanna, in cui i comuneros si opposero alla incoronazione di un Asburgo, almeno fino all’inizio del 1518. Da lì si spostò in Aragona e Catalogna, dove neppure qui era riconosciuto, convocando le Corti in Saragozza e Barcellona, dove fu riconosciuto re nel 1519, ed erede del Sacro Romano Impero da Francoforte, scalzando il pretendente Re di Francia, Francesco I e finendo incoronato ad Aquisgrana nel 1520 come Carlo V. Per queste ragione Carlo I divenne Re delle Due Sicilie solo agli inizi del 1519, continuando a mantenere il nome della madre nelle intestazioni, ma sicuramente già come Carlo Re delle Spagne e delle due Sicilie, fino al 18 luglio.
Prima di quella data, però, forse fino al 16 luglio 1519, il Regno di Napoli era ancora tale e tutto solo e soltanto di una Regina, Giovanna III, offuscata ed oppressa dal potere, subendolo, se non proprio con la medesima sorte, come le altre due regine che aveva avuto il Regno, anch’esse sfortunate: Isabella d’Aragona (1470-1524) sorella di Re Ferrando di Napoli, relegata dal Ducato di Milano a quello di Bari; Beatrice di Napoli (1457-1508), Regina d’Ungheria in quanto moglie di Mattia Corvino e di Ladislao II di Boemia e Ungheria. “Quanti omini conoscete voi al mondo, che avessero tollerato gli acerbi colpi della fortuna cosí moderatamente, come ha fatto la regina Isabella di Napoli, la quale, dopo la perdita del regno, lo esilio e morte del re Federico suo marito e di duo figlioli e la pregionia del Duca di Calabria suo primogenito, pur ancor si dimostra esser regina e di tal modo supporta i calamitosi incommodi della misera povertà, che ad ognuno fa fede che, ancor che ella abbia mutato fortuna, non ha mutato condizione”.8
Come sopportò l’avidità di un figlio chi, più di lei, era padrona del mondo. Solo che mentre le altre due, perso il potere, sfidarono la sorte per riacquistarlo, Giovanna III, abbandonata da tutti, madre, padre, figlio, cortigiani, non vide mai il suo trono. Nessuno credette di sposare le sue idee, di unirsi al suo fianco, di civilizzare il mondo con pensieri moderni, in linea con il Rinascimento, come quelli che lei, proprio grazie all’isolameneto, aveva invece riscoperto.
Giovanna fu donna realista e figlia del suo tempo, alla ricerca di risposte attraverso lo studio e pronta a sfidare la Chiesa, perciò passò pure alla storia con l’infamante nome di Juana la Loca, Giovanna la Pazza.
I nostri Archivi di Stato sono ricchi di documenti inediti che aiutano a ricostruiore il quadro di un’epoca complessa e di trapasso.
Volendo riportare qualche nota inedita sui notai, va ricordato che dal 1500 in poi cominciano a trascriversi i rogiti con più frequenza nel cuore dell’ex Regno. Nella provincia di Princincipato Ultra, a cominciare dalla sede del carcere di Montefusco, si comincia a registrare di tutto, anche sulle terre più sperdute, da cui è possibile ricavare tantissimi toponimi di luoghi antichi.
Spuntano per esempio atti notarili che parlano degli antichi luoghi di Civitate S.Pietro a Sala e dell’abbazia beneventana di Venticano, oltre Castel del Lago col palazzo di Federico II sul confine di Apice e un tratto dell’appiana Strada Regia per Casalbore, lungo il fiume Calore, che collegava Paduli a Lucera ancora nel 1500, proprio come abbiamo visto.
Ma sono tutti di epoca successiva. Perciò, stando ad alcuni atti notarili, nel 1538, alla 12esima indizione vescovile, ai tempi di Carlo V e della madre Giovanna La Pazza, compare Pietradefusi come luogo abitato del tenimento di Montefusco, cioè come Casale.9
Varrebbe qui la pena fare un distinguo fra Montefusco città e Montefusco Terra propriamente detta, cioè fra la Montagna della Civitate dei Casali e il feudo di Montefusco (che è altra cosa).
Questo perché nelle carte di inizio 1500 alcuni Casali che solitamente leggiamo essere stati di Montefusco, sono in realtà parte della Montagna, cioè del fu distretto beneventano delle Civitate badiali del Campanario di S.Marco, mentre quelli in tenimento della Terra propriamente detta, cioè dell’Oppido o Castro che dir si voglia hanno origine, insieme a tutto il nuovo Principato Ultra (27 paesi), dopo il tremendo terremoto del 1348 che distrusse il Sud, da Foggia a Roma, come da bolla papale del 7 giugno 1350, che spostò l’asse lucerino dal fiume Fortore alla montagna del Fortore, cioè ultra Serra Montauro di S.Bartolomeo in Galdo.
Tant’è vero che gli abati delle originarie 27 abbazie dei 27 paesi, fra cui compare Apice con la sua S.Leonardo fondazione e tomba di San Giovanni di Spoleto, resteranno di nomina papale per secoli, a differenza della diocesi di Avellino e Frigento, in origine legate a Cava, e quindi al Principato Citra di Salerno.
A titolo di esempio, vale la pena di ricordare, come nel 1538 anche S.Giorgio non fosse altro che un casale della Montagna, men che meno S.Paolina.
In un rogito del notaio Soricelli, parlandosi di Terra Prata e Castro S.Angelo de Scala (patria di Giovanni Fogia e del figlio Orlando), saltano fuori i toponimi di Casale S.Nazario di Montefusco, Casale Santa Paulina di Montefusco, Casali Sancti Georgi de Monte Fuscoli, Casali S.Angeli a cancellos de Montefuscoli, Casali Manchusioris e Casali Petra Fusorij di Monte Fuscolo. Questo Casali Petra Fusorij torna il 20 maggio 1539, riparlandosi del nobile Giovanni Fogia in quel di Casale S.Nazario tenimento Terre M.Fuscolo.
Per lo sposalizio di Costantino Carafa, alias Biundo, fu stipulato un patto, presente il fratello, Neapolus Carrafa eius frater, de Casale S.Nazario e nobilis vir Giovanni Fogia castri S.Angelo de Scala, il quale, a nome del figlio Orlando, parla per privilegio della figlia che deve maritarsi. Il contratto matrimoniale prevede che Costantino presenti la nota delle cose che intende sborsare da sposo. Egli infatti tiene quattro asinum chiamati Falcone di pilj alby, Angelo di pelo russigni, alius pili albi noti Ochi nieoro et alius pili rubei note Sprovieri. Falcone, Angelo, Occhionero e Sproviero appaiono di proprietà, francas libero, ma tutti gli animali sono posseduti da Sasi (per il quale ne risponde Giovanni), Neapolio e Costantino che si deve sposare.
L’atto è firmato da Giovanni de Lisi de Suazo, Germano per lo causo, Carissimo Zambetta, Aleiandro Pendinus, Gavinus Ademandus, Giovanni de Motula, Jeronimo Celilli de Zarro de Casalis S.Nazario, ed infine Lojsio de la Verde de Casalis Petra Fusoru.10
Ricompare quindi Pietradefusi nel 1539, ancora come casale, visto che vi abita il testimone dell’atto che è Loisio di La Verde, cioè Luigi della Verde.11
Sono anni difficili per le popolazioni locali, colpite, nel 1528, dal sisma e dalla peste, all’affacciarsi sulle colline beneventane dell’esercito francese di Lautrec.
Secondo alcuni, nella zona, restò in piedi solo la chiesa di S.Maria di Venticano, le cui entrate furono affidate alla Biblioteca Vaticana, allorquando al governo dei beni paterni del gran capitano Cordova successe la figlia Elvira che vendette Montefusco e i suoi Casali a Nicolantonio Caracciolo, Marchese di Vico, per 24.000 ducati, il 12 giugno del 1545.12
Per questo motivo, fino alla peste della seconda metà del 1500, per esempio, i feudi di Montemiletto e Montaperto sono in due stati feudali diversi, con Montaperto raggruppato ai Casali di Montefusco, Castelmuzzo compreso.
Il 22 ottobre 1528, passata la peste, il sindaco di Montefusco esponeva alla Sommaria che i cittadini hanno sempre avuto devozione per la Cesarea Mestà nonostante che avessero data odedientia alla Inimica lega e prestato omaggio… s’hanno da tassare i casali di Montefusco che con altre università alzarono le bandiere francesi… La Torre, San Nazzaro, Li Calvi, S.ta Agnessa, S.to Angelo, S.ta Paulina, S.to Iorio, La Ginestra, Santa Maria ad Thoro, Lo Pheudo di Montevergine, La Petra delli fusi, Santo Nicola Manfreda, Lentace et Mancusi, Santo Marco ad Munti et Rocchetta, S.Pietro ad Delicato, Vagnara, Pagliara, Piancha, Pianchetella, Petruro, Terrajone, Toccanisi, Castelmuzzo, Santa Maria in Grisone, Santo Angelo a Cupolo e Monteaperto.
La divisione della Montagna di Montefusco separava perfino piccoli Casali come Torrioni: per la peste et guerra sono state la magior parte sono morti et destrutti, nè bovij nè animali.13
Per comprendere questi ultimi passaggi storici, va accettata la tesi che, prima della divisione, erano uniti tutti i paesi della Montagna, sia del versante dei Caracciolo, da Torrioni a Casalbore, come del versante di Montemiletto e Montaperto. Casali, questi, dove il signorotto di turno pensava solo a riscuotere il Laudemio, cioè la quartame partem praedj vulgo dictam quarteria loco laudemii sive quinquagesimae, et hoc non sive violentia, ac propria autorità, lacerando ancora di più i paesi. Non solo.
Le nuove ripartizioni finirono per dividere gli stessi Casali della Montagna da Montefusco: Toccanisi, Torraioni, Bagnara, S.Giacomo, Mont’Orzo, Monti Rocchetto, Montefuscoli, S.Pietro Intellicato, S.Maria a Tuoro, S.Marco à Monti, Casale nuovo, come si rileva dal Catasto del Castello di Toccanisi, da sempre unito a S.Angelo di Torrioni, e non a Torrioni di Tufo, che appartenne al gruppo dei feudi dei “di Tocco”, Conti di Montapero, pronti a mettere le mani su Apice.14
Gravi danni subì Benevento per due mesi per via dei 7000 soldati spagnoli che andarono via il 1 novembre 1528, quando si cantò la litania. A dicembre del 1529 la città tornò sotto l’ubbidienza della Chiesa con Clemente VI. Nel 1530, scaduto il governariato di Girolamo, il papa nominò Ferrante Gonzaga a nuovo governatore di Benevento, fratello di Federico, il quale, il 25 marzo, per concesione di Carlo V scambiò titolo di Marchese Mantova con quello di Duca e non più per un solo anno, ma vita natural durante, come governatore e luogotenente castellano.15
Gli Statuti saranno rivisitati nel 1545 da quattro apicesi, consolindandosi la classe dei nobili locali, come appariva dagli istrumenti del Collegio del 1552, dove si citava il nobile locale Giovanni Laurentius Marano de eadem Terra; del Collegio del 30 ottobre 1570 col nobile Sebastiano Svizzero de Apitio; e del 21 marzo 1560 con il nobilis Marcus Antonius Porcellius.16
Le citazioni saranno sempre del tipo Capitulum primum de hordine faciendo, et tenendo ad hordinandum offitiales Apitii. In primis statutum et hordinatum est… In presentia de lo capetano de Apice che per lo tempo sarà lo Sindaco se congregano et fazano congregare lo Consiglio generale delj huominj di Apice et chiamato in premisso lo nomo de lo eterno Dio. propongono come se devono eleggere lj nuovj Offizialj et fazzasi discussione intra lo consiglio o parlamento de la qualetate de lj bonj huominj senza effectatiune odio prechire o prezzo…17
Per quel che riguarda la discendenza dei Conti De Guevara di Apice si estinse con il nipote di Inigo, Carlo, nei primi decenni del 1500. Ma prima di allora il Conte Carlo de Guevara lasciò il segno.
A lui si attribuisce la formulazione delle nuove leggi scritte riguardanti il feudo di Apice. Michèle Benaiteau, in La Rendita feudale, considera figlio allo stesso capostipite Antonio de Guevara, quell’Innico morto senza eredi diretti, il quale lasciò che i beni andassero al cugino Conte Carlo, fra il 1542 e il 1546. A lui si dovrebbe il rinnovo del cerimoniale fra feudatario e vassalli con una magna carta che appare un prodotto ibrido, nato dalla fusione tra lo Statuto sancito dall’Università comune e quello feudale della Bagliva e della giurisdizione civile e criminale (penale) delle cause. Questa sorta di regolamento di leggi locali restò in uso fino al 1665, in quanto fu adottata anche da un’altra importante famiglia che ebbe in eredità Apice in quella data, i Pisanelli (imparentati con i De Guevara).
E’ la Capitolazione apiciana sottoscritta sotto Carlo V, ai tempi del Conte Carlo De Guevara, presumibilmente nel 1546, quando fu applicata dal Viceconte e dagli uomini della sua Corte. Si tratta dei Capita institutiones municipia et mores Universitatis terre Apitij, et per più chiarezza, et intelligenza comune, et anchora per tollere ogni suspittione, dubio et errore dello parlare literatto li detti Capitoli, Statuti, Leggi municipale, et usanze in Apice osservate, et ordinate et concluse per megliorare narrarli per vulgare lingua, et annotare. E’ quindi una raccolta di leggi comunali dettate dal feudatario scripte in Apice per li tempi dà venire ad fidelitate dello Illustrissimo signor Conte Don Carlo de Guevara Conte de Potentia, Apici, et Gran Siniscalco et Capitano di Gente d’arme di sua Maestà Cesarea D.Carlo de Austria quinto Imperatore de Roma, et tranquillo stato et guberno prospero delli homini et terra de Apice sopradetta.18
Essendo sotto l’impero di Carlo V, diremmo nel 1546. In essa si enunciano non proprio diritti e doveri dei cittadini, quanto le norme con le quali si esercitava il potere baronale, che vanno sotto il nome di Capitoli della Terra. Si sancisce cioè l’autorità feudale nelle mani del Signore e, per esso, in quelle degli ufficiali del Reggimento, che dovevano giurare ad laude et honore de Dio ad fidelitate de lo illustrissimo Signore anteditto et bono stato e regimento de Apice.
Tutto era deciso dal Signore: il governo municipale, l’elezione del Sindaco, quella degli eletti, gli apprezzatori, il camerlingo, i loco compiti per salvaguardare i doveri dei cittadini, più che i diritti, specie nei confronti delle corti di giustizia feudale (Bagliva e Corte de lo Capitano) e nelle controversie fiscali. Le elezioni popolari, infatti, avevano il solo scopo di evitare che si creasse una classe aristocratica che, di padre in figlio, si succedesse al governo del paese, permettendo in ogni caso solo una rotazione in quanto le più alte cariche comunali spettavano comunque a persone ricche, di bona e matura conditione, cioè di bona qualitate, e per questo meno predisposte alle ruberie, ai quali era permesso di utilizzare anche parole vili a danno degli uomini di bassa condizione sociale, senza che questo venisse considerato un atto ingiurioso da perseguire dalla Corte. In ogni caso anche il Capitano della Terra deve osservare alcune norme onde evitare abusi di sorta, con tariffe sul prezzo del pane o della carne, o sul salario del calzolaio e del sarto, con multe già predisposte, volte a snellire la procedura delle punizioni, dall’ingiuria all’accusa di traditore delli Signuri equiparata a quella di omicida.19
Nella Capitolazione si stabilisce che il sindaco deve riunire il Parlamento ogni anno fra l’ultimo giorno di agosto e l’otto settembre, quando, su licenza ed in presenza del Capitano, coi quattro officiali dello regimento de Apice, indice il Consiglio generale ò Parlamento generale de li homini de Apice, per eleggere giudici e capitano, gli altri ufficiali e i giurati che servono la corte et l’università et che l’eletti siano huomini de bona e matura conditione, e li più sagaci e sapij.
Al secondo punto è detto del giuramento di fedeltà al loro Conte, mentre al terzo punto li quattro sono invitati ad adunarsi almeno uno dì ò la domenica de la settimana. Al quarto punto è ordinato loro di partecipare al Consiglio, mentre al quinto capitolo è detto che debbano provvedere alle fortificationi et reparationi et acconsioni delle mura berdesche, fossata, sticcata, sentinelle et guardie. Al sesto capitolo è ordinato che scelgano uomini, guardie e sentinelle adeguate, al settimo, ottavo e nono punto si sancisce la loro obbedienza del Camberlingo. Al decimo si legge che li quattro e lo sindico presentino gli eletti à lo Capitano per la conferma, mentre all’undicesimo punto si dice che li quattro e sindico nominino nel mese di maggio appretiaturi et renovaturi del apprezzo, mentre nel dodicesimo, tredicesimo e quattordicesimo capitolo sono tenuti a servire con honore e cose necessarie alla Universitate, ad assistere al Capitano et alli Baglij alli judici et ala loro Corte che quelli che litigano senza sutterfugij.
Stando al quindicesimo capitolo in tempo de carestia ò di guerra debiano provedere et advertire ordinare e comandare che non si caccia grano nè orgio nè altre vittuaglie necessarie alla vita. Il sedicesimo capitolo si riferisce al Camerlingo che sia deligente ad fare l’exqutioni dela Corte delo Capitano et delli Baglij. Al diciassettesimo si ordina fedeltà a li Catapani che nel diciottesimo devono aiustano le mesure deli grani, orgij et altre vittuaglie che se vendeno et aiustano le mesure pesi et bilanze dove se vende et pesa carne caso pesci e lino et altre cose dà pisare.
Fra il diciannovesimo e il ventiquattresimo capitolo li Catapani possano ponere lo prezzo et mutare li prezzi alla carne pesce caso recotta sale oglio et altre cose dà mangiare secondo la qualità delli tempi e la qualità delle cose e attendano che non si venda cosa infetta così pure affinchè nullo stazonaro ò potecaro possa nè debbia essere Catapano nè poza essere detto Catapane nè fare affitto di Catapano delegati affinchè provedano li accatti e le comparare delli stazzonari ò potecari ò rivenditori. Stando al capitolato ogni dohaniero debbia dare piso e misura e pagasi per decina denari dui e per bestia cioè per salma grano uno e per collato pistachio uno chi lo portasse reservato che in Ariano li homini di Apice pagassero manco et così manco pagano li homini di Ariano in Apice ò vero se li homini di Apice non pagassero in Ariano così li homini di Ariano non pagano in Apice.
Così si chiarisce anche il rispetto degli eletti per lo Capitano eletto et deputato per lo Ill.mo S.re sia reverentemente ricevuto et acceptato e si specifica che lo Capitano faccia lo suo officio civilmente et equalmente et justitia. E’ detto che si faccia dare il bando per bono regimento et guberno dela terra de Apice e che si ordina a non far bestemmiare e giocare d’azzardo, cioè che in primo faccia bannire et comandare che nulla persona de ciascuna conditione qualitate stato e luogo se sia ausa nè presuma biasfemare nè parlare brutte parole e dishoneste ò fatte iniuriare lo nome del eterno Dio e ardisca de iocare à iochi ad àzora nè presti dadi.
Al trentunesimo capitolo si ordina di non portare arme prohibite per la terra di Apice excetto si andasse alla guardia ò vero si andasse in viaggio dà fore terra. Stando sempre al capitolato lo sindico debia insistere tanto ala Corte delo Capitanio quanto deli Baglij che la parte che litigano non siano agravate in deli pagamenti dela Corte, stando attenti al denaro ricavato dalle cause civili, anzi che in dele cause civili minime per fino ad doi augustali inclusive non se dia nè si adimanda libelli e che si ordina che una onza se recevesse et bisognasse dare libelli et articuli, precisando modalità in ogni causa e controversie varie, con la possibilità di appello.
Poi si pronuncia in merito ai debiti, con facoltà della Corte di prendere de la robba delo debitore primo mobile ò veste ò altro et poi cose stabile et assignarle à lo creditore e che la esequtione si fazza prima allo mobile ò vero bestiame et non se ne trovando se faccia allo stabile intanto che vaglia la quantitate principale debita ò vero lo terzo più et la robba ò cosa pignorata, proseguendo in merito alle iniure civili, pronunciandosi perfino sul fatto che se la iniuria ò accusa ò denuntia iniuria intravene intra parenti ò coniuncti de parentato ò compari ò vicini coniuncti la Corte dello Baglio ò delo Capitanio. Così sui delitti presentando copia della denuntia ò accusa et dilatione ascoltando l’una e l’altra parte, sia chi impropera se quello che è improperato.
I giovani sono invitati ad evitare schiamazzi, facendo romore ò questione qualche iovene ò garzone ò homo de bassa conditione, gli amministratore a vigilare sugli apprezzatori, affinchè facciano li quinterni et scrivano li huomini et robbe mobile bestiame et stabile secondo ogni homo have affinchè possano dare sacramento ad ogni persona che si mette in apprezzo stando attenti a che nessuno fraudasse l’apprezzo.
Inoltre che i matrimoni siano celebrati secondo le solemnitate dela Santa Madre Ecclesia et dela Constitutione delo reame altramente se iudica lo numero secondo la lege canonica la constitutione delo reame et la lege longobarda comanda e pronunciandosi sulla dota una volta consumato licitamente per copula carnale facendo anche in modo che lo marito sia tenuto di constituire la quarta alla mogliere e che le dote e le cose dotale se possono adimandare per la mogliere e da sua parte allo herede dello marito premorto e che le doti si restituiscano secondo una forma ben precisa. Così sui figli sugli acquisti e vendite dei forestieri, sui contratti de permutatione e altri diritti e permute. Sul macello, sull’uccisione degli animali e maiali, sui resti, sulla vendita della carne infetta con relative multe, così come per la carne del ayno e distribuzione, sulla pulizia di chianche e macelli lontano dalla piazza publica dove era vietato vendre anche carne selvaggina ad piso se non è infetta.
Seguono articoli su altre mercantia, sulle pene per i trasgressori, sui tavernari, sui panecocoli per la vendita del pane, sugli osti, sulla vendita del vino, sull’ospitalità ai forestieri e compiti che possano ricoprire, sia militari che civili.
Sugli orti, giumente ed asini, porci domestici ò mandroni, su ciascuna vestia grossa com’è bove bacca asino jumenta mula spastorati et senza pastore entrasse in orti e se entrasse et dandificasse vigne dalla metà dello mese de marzo per tutto lo mese de ottobre in merito al danno provocato, anche in boschi di cerze ò cerri ò castagne lasciati incustoditi a seconda se giovane.
Così in caso di guerra e danni in orti e vigne, affinchè per tutta la festa di S.Angelo de vendemmia perfino alla festa di Santo Luca nullo homo coglia cerri nè cerze nè metta bestia alcuna alo bosco, nè per il taglio boschivo consentito ai forestieri, specie se fruttiferi, anche se fossero siepi con o senza piccoli porci o mandre di pecore nelle vigne.
Attenzione anche al regolamento civile in merito a non iettare lortura nè sozzura in dele fontane murate, per le pesanti multe in quanto ognuno è tenuto de jettare le mondezze ed ogni croctura alli luochi deputati proibendo ad ognuno di buttare fuori dà casa ò stalla ò luoco suo mondezza ò letame, specie a chi fa poteca in Piazza nè vinazza in delle strade nè in dele piazze publice ò vicinali. Le vie pubbliche devono restare larghe almeno di una canna e che tutto lo Fiume de Calore in ogni parte e luogo dove corre haggia una canna de via larga per passata, come vigilano i Baglivi, stando attenti che nessuno metta neppure fuoco in agosto, senza bruciare terreni più del consentito, con tanto di multe salate, specie se vi siano dei testimoni. Così sugli acquisti dagli stranieri in orari diversi e che ogni pescatore venda lo pesce infra di che carne grana due e mezzo e la quatragesima ò vigilia e li jorni che non si mangia carne così per le anguille da vendersi al frisco in piazza et non in altri luochi.
Nè si poteva fare posta a causa di pene severe, specie in strada pubblica, così per vendere latte, tanto per ogni spatolatore debbia havere per spatulatura per decina de lino rustico grana otto e per decina de lino agnano grana dece o tessetrice, così per ogni Corboseri o cosetore de panni e persona che vole macinare e per l’imbraciaro per embreci e calce.
Sullo spostamento degli agnelli nell’abitato o per chi fa mandra a meno di due canne dalle mura dove nessuna bestia o uomo può guastare lo spazio.
Bisogna denunciare i delitti e difendere le padule antiche ben recintate evitando pene severe, terminando sulle ammonizioni affinchè alcuna persona si rechi alli fossi ò a le ripe de li fossi intorno la terra nè scarrupe nè guaste, ricordando pene severe da pagare per chi contrare ogni singolo capitolo di quelle che possiamo considerare leggi severissime più che regole comunali.20
E’ opinione che la Carta magna sia stata adottata anche dai successivi principi Tocco di Montemiletto fino al 1658. Ma siamo ormai in un periodo storico in cui le regole sono leggi del Regno e valgono in tutti gli stati. Si ha comunque notizia di usuali regolamenti che cominciarono a circolare in provincia in maniera specifica a riguardo del taglio delle siepi, dell’incanalamento delle acque, per la nettezza delle strade, per la pitturazione delle facciate delle case, per la macellazione. Eravamo in pieno Settecento e poco contò darsi delle ulteriori regole locali, rispetto all’esigenza primaria di incassare danaro da parte della Corona, scomparendo anche l’amministrazione locale della giustizia che fece largo ai tribunali. Cominciava la riscossione diretta delle tasse, col solo brutto neo dell’esenzione per i nobili. Le Università comunali antiche si erano già date regole di ogni genere, ben lontane comunque dalla prima carta costituzionale angioina che rese ‘liberi’ gli abitanti di Apice.21
….
INDICE
— Il Cattolico contro la Regina tutrice di Carlo
— La madre governa Napoli in suo nome
— Carlo Re e Imperatore surclassa tutti
— La malattia della madre e dei parenti
2.
le amanti in carne e ossa
— L’Infanta orfana figlia di primo letto: Isabel
— La presunta relazione di Carlo con la nonna
— Il segreto di Isabelletta custodito a Corte
— Il viaggio galeotto fra nonnastra e nipotastro
3.
il fato e la principessa di salerno
— Isabella Villamarina di Salerno
— Guelfi, Ghibellini e Napoletani
— L’amato Imperatore si avvicina a Napoli
— I Principi di Salerno alla Incoronazione
— La Corte del Principato col Tasso padre
4.
PRIMA L’AFRICA, POI IL PIACERE
— La conquista del litorale africano
— Il Principe a Tunisi col Conte di Sarno
— L’Imperatore torna dall’Africa a Napoli
— Il corteo napoletano fra balli e fuochi
— Le capitolazioni di Napoli: lo Statuto
— Una festa per corteggiare la Principessa
— Il perdono di Napoli col «2 Ducati» d’oro
— Fine di un amore per tradimento politico
Note Bibliografiche
1. Sabina Marchesi, Giovanna La Pazza, da: www.thrillermagazine.it/rubriche/1421. Cfr. Gabriella Cenicola, Giovanna la pazza: il regno della follia o la follia del Regno?, da: www.letterariamente.it Cfr. Jean Molinet, Chroniques. Tomo V. In Collection des chroniques nationales françaises, ed. Buchon, vol.XLVI-XLVIII, Parigi 1827-1828. Cfr. Karl Brandi, Carlo V, Einaudi, Torino 2001. Cfr. V. P. Abarca, Anales : Fernando el Católico, cit. Cfr. Real Academia de la Historia, Coleccion de documentos inéditos para la historia de Espana por D.Miguel Salvà y D.Pedro Sainz de Baranda, individuos de la academia de la historia, Tomo XIV, Imprenta de la Viuda de Calero, Madrid 1849. Archivo de Simancas, Copia de letra coetánea que se halla en et archivo de Simancas, tegajo 3.° de Curtes, Salamanca 26 dicembre 1505. Cfr. Notar Giacomo, Cronica di Napoli, pubblicata per cura di Paolo Garzilli, Prefetto della Real Biblioteca Brancacciana di S.Angelo a Nilo, dalla stamperia reale, Napoli 1845. Cfr. La vita di Consalvo Ferrando di Cordova detto il Gran Capitano, scritta per Monsignor Paolo Giovio Vescovo di Nocera, & tradotta per M.Lodovico Domenichi, Lorenzo Torrentino, Fiorenza 1552. Cfr. Jean-Charles-Léonard Simonde Sismondi, Histoire des Français, Tomo 11, Bruxelles, Societè Typographique Belge, Dulau et Comp., Londres 1837. V. Lettera di M. de Croy al Consiglio di Castiglia, 16 agosto 1506; v. anche Lettera di Luigi XII, Tomo I.
2. V. Giorgio Giannini, Appignano, breve storia di un borgo. Da www.instoria.it/home/appignano.htm. Così scrive Giannini: Nell’autunno 1501, in seguito al Trattato di pace di Granada dell’11 novembre 1500, il Regno di Napoli è diviso tra i Francesi ( che ottengono l’Abruzzo e la Terra di Lavoro, in Campania) e gli Spagnoli (che ottengono la Calabria e la Puglia), Andrea Matteo III riottiene dai Francesi la città di Atri e la Baronia di Montesecco (con Appignani), ma non la città di Teramo, che è assegnata a Giovanna I d’Aragona. Pochi anni dopo, scoppia la nuova guerra tra i Francesi e gli Spagnoli e Andrea Matteo III è ferito in battaglia e fatto prigioniero. Nell’ottobre 1505, in seguito alla Pace di Blois del 22. 9. 1504, Andrea Matteo III è liberato ed il 20 novembre 1506 riottiene dal Re Ferdinando d’Aragona, detto Il Cattolico, il possesso di tutti i feudi, compreso Appignani. Ottiene anche il titolo di Duca di Atri e di Conte dell’Abruzzo Ultra. Questa decisione è confermata il 28 luglio 1506 dai nuovi sovrani del Regno di Napoli: il futuro Carlo V d’Asburgo e sua madre Giovanna.
3. Jean-Charles-Léonard Simonde Sismondi, Histoire des Français, Tomo 11, Bruxelles, Societè Typographique Belge, Dulau et Comp., Londres 1837.
4. La vita di Consalvo Ferrando di Cordova detto il Gran Capitano, scritta per Monsignor Paolo Giovio Vescovo di Nocera, & tradotta per M.Lodovico Domenichi, Lorenzo Torrentino, Fiorenza 1552.
5. Notar Giacomo, Cronica di Napoli, pubblicata per cura di Paolo Garzilli, Prefetto della Real Biblioteca Brancacciana di S.Angelo a Nilo, dalla stamperia reale, Napoli 1845.
6. V. Wikipedia, libera enciclopedia. Da www.wikipedia.it, www.wikipedia.de, www.wikipedia.en.
7. Gabriella Cenicola, Giovanna la pazza: il regno della follia o la follia del Regno?, da: www.letterariamente.it
8. Sabina Marchesi, Giovanna La Pazza, da: www.thrillermagazine.it/rubriche/1421.
9. K. Hillebrand, Un enigma della storia, Sellerio, 1986.
10. Karl Brandi, Carlo V, Einaudi, Torino 2001.
11. Karl Brandi, Carlo V, Einaudi, Torino 2001.
12. Gabriella Cenicola, Giovanna la pazza: il regno della follia o la follia del Regno?, da: www.letterariamente.it
13. Gabriella Cenicola, Giovanna la pazza: il regno della follia o la follia del regno?, da: www.letterariamente.it.
14. V. Wikipedia, libera enciclopedia. Da www.wikipedia.it, www.wikipedia.de, www.wikipedia.en.
15. La vita di Consalvo Ferrando di Cordova detto il Gran Capitano, scritta per Monsignor Paolo Giovio Vescovo di Nocera, & tradotta per M.Lodovico Domenichi, Lorenzo Torrentino, Fiorenza 1552.
16. Ivi.
17. Ivi.
18. Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi, Histoire des Français, 1807.
19. Real Academia de la Historia, Coleccion de documentos inéditos para la historia de Espana por D.Miguel Salvà y D.Pedro Sainz de Baranda, individuos de la academia de la historia, Tomo XIV, Imprenta de la Viuda de Calero, Madrid 1849. Copia (de letra coetánea) del juramento prestado por los Grandes, Prelados y Caballeros de estos reinos al Rey Católico D.Fernando, para que pueda regir y gobernar estos reinos durante la menor edad deí Principe D.Cárlos, sucesor en ellos. Madrid 6 de octubre de 1510. Archivo del Exemo Sr. Duque de Frias, Papeles de la Casa de Villena. Este documento y otros que publicamos son copiados y cotejados por et erudito archivero de aquella casa D.Manuet Gonzalez. Così si legge: “In Dci nomine Amen. Conocida cosa sea á todos los que la presente escritura vieren como en la noble villa de Madrid á seis dias del mes de octubre, año del nascimiento de nuestro Salvador Jesucristo de mill é quinientos é diez años, estando ende presente el muy alto é muy poderoso católico Principe é señor el Rey D.Fernando, Rey de Aragon é de las Dos Sicilias, de Jerusalen etc., etc., administrador é gobernador ligítimo por la muy alta é muy poderosa señora la Reina Doña Juana nuestra señora, su fija, en estos sus reinos é señoríos de Castilla, é de Granada, é de Leon etc., en la capilla mayor de la iglesia del monasterio de San Gerónimo, que se dice el Paso Ñuevo, ques fuera de los muros de la dicha villa; estando ende presentes el Reverendísimo señor D.Fray Francisco Jimenez, Cardenal de España, Arzobispo de Toledo, Primado de las Españas; é estando ende presentes los Magníficos Mercurino de Gatinara, Presidente del Parlamento de Borgoña, é Gilao de Sili (1) del Consejo é embajadores del Sacratísimo señor Maximiliano, Emperador de los Romanos, é del muy alto é muy excelente Príncipe é señor D.Cárlos, Príncipe de Castilla, Archiduque de Austria, Duque de Borgoña, é hijo primogénito é heredero de la Reina Doña Juana nuestra señora , acabada la misa mayor del dicho dia; é otrosí estando ende presentes los muy Magníficos señores el Infante D.Juan de Granada (2), é D.Enrique de Cumian, Duque de Medinasidonia; é Don Bernaldino Ferrandes de Vclasco (3), Condestable de Castilla, Duque de Frias, é D.Fadrique de Toledo, Duque de Alba, Marqués de Coria é Conde de Salvatierra; y el Marqués D.Diego Lopez Pacheco , Duque de Escalona; é D.Gonzalo Fernandes de Córdoba, Duque de Sesa é de Tcrranova , gran capitan de su Alteza; é D.Juan Telles Giron, Conde de Urueña; é D.Pedro de Córdoba Marqués de Priego; é D.Bcrnaldo de Rojas, Marqués de Denia, Conde de Lerma; é D.Pedro de Toledo, Marqués de Villafranca; é D.Juan de Silva, Presidente del consejo, Conde de Cifuentes é Alferez mayor de Castilla; é D. Bernaldino Juarez de Mendoza, Conde de Coruña; é D.Antonio Manrique, Conde de Trcviño; é D.Diego de Cárdenas, Adelantado del reino de Granada; é Antonio de Fonseca, cuyas son las villas de Coca é Alacjos, é Contador mayor de Castilla; é D.Garcilaso de la Vega, Comendador mayor de Leon; é Hernando de Vega, Presidente del Consejo de las (1) Zurita le nombra Claudio de Cylly. (2) Era hijo de Muley Abul Hacen, Rey de Granada, y hermano det Rey Mahomad Boabdeti, que perdió aquella corona. Es conocido, despues de su conversion al cristianismo, por et Infante D.Juan de Granada”. V. anche Tomo XIII.
20. V. Wikipedia, libera enciclopedia. Da www.wikipedia.it, www.wikipedia.de, www.wikipedia.en.
21. K. Hillebrand, Un enigma della storia, Sellerio, 1986.
22. Sabina Marchesi, Giovanna La Pazza, da: www.thrillermagazine.it/rubriche/1421. Così scrive: “Vittima della ragion di Stato e di una estrema fragilità di carattere, Giovanna di Castiglia, sposa di Filippo di Borgogna, madre di Carlo V, figlia di Isabella di Castiglia, la Santa Guerriera, e di Ferdinando d’Aragona, lascia questo mondo come figlia di Re, madre di Re e Regina essa stessa, lanciando ai posteri un monito estremo. Io sono una delle due o tre regine sovrane del mondo; ma il solo fatto che sono figlia di re e di regina sarebbe dovuto bastare perché non fossi maltrattata”.
23. G. Summo, Gli ebrei in Puglia dall’XI al XVI secolo, Bari 1939.
24. GianCarlo Von Nacher Malvaioli, Cristoforo Colombo, Cap.XII.
25. Stando ad una tradizione locale di Vico Equense, il Castello di Giusso sarebbe abitato dal fantasma di una non meglio identificata Giovanna La Pazza, un’amante dall’anima in pena. La cosa più strana è che i vicani asseriscono che fu proprio quella regina a morire a Vico finendo nella trappola da ella stessa costruita per far scomparire gli amanti dopo le prestazioni amorose. Le sue urla ancora echeggerebbero, ogni estate, dalla Cappella del Castello. Evidentemente gli storici locali hanno fatto confusione sul nome Giovanna. La leggenda è infatti ambientata intono alla Torre tufacea dello Ziro, situata sul Monte Aureo di Atrani (sebbene svetti su Amalfi), un antico bastione di Scalelle (Sa) di cui non restano che i ruderi. Sono gli ex feudi appartenuti al Duca d’Amalfi e Conte di Celano, Antonio I Maria Todeschini Piccolomini, che assunse il cognome d’Aragona sposando (1458) Maria d’Aragona, figlia naturale di Re Ferrante I e Diana Guardato, morta nel 1460, da cui ebbe il Duca Alfonso Piccolomini, il quale, a sua volta (1497), sposò una Giovanna d’Aragona (1477-1510), figlia di Enrico d’Aragona, Marchese di Gerace e di Polissena Centellas dei Marchesi di Cotrone. E’ a questa Duchessa Giovanna, quindi nipote illegittima di Re Ferrante, che Papa Giulio II (1504) concesse l’atto di fondazione del nuovo insediamento, convento e chiesa sub invocatione Beate Marie Vallis Viridís. Giovanna resse il Ducato alla morte del Duca, dal quale aveva avuto due figli, e pertanto, secondo il fratello Cardinale, non avrebbe dovuto risposarsi, ma dedicarsi al suo patrimonio con l’aiuto del maggiordomo Antonio Bologna. Fu così che la Duchessa, senza più entrate, risanate le casse da quell’uomo distinto e fidato, se ne innamorò. Pertanto, grazie ad un frate cappuccino, sposò il cortiggiano in gran segreto, vivendo una struggente storia d’amore da cui sarebbero nati due figli. Solo allora confessò tutto ai fratelli, in particolare al Cardinale Luigi D’Aragona, il quale gridò allo scandalo e, definendola Pazza, la rinchiuse nella Torre dello Ziro insieme ai due figli, facendo pugnalare il maggiordomo a tradimento, tratto in un agguato mortale da un sicario. Calmatesi le acque il Cardinale, dopo aver fatto soffrire la fame e la sete ai congiunti, decise quindi di bruciarli vivi (1510). Una tragedia, questa della Duchessa, ben distinta da quella della Regina, e sicuramente fonte di ispirazione di Matteo Maria Bandello che le dedicò la XXIV delle sue Novelle da cui poi furono tratte due tragedie: la Tragedy of the Dutchesse of Malfi di John Webster e la Comedia famosa de el mayordomo de la duquesa de Amalfi dello spagnolo Felipe Lope de Vega. In ogni caso la popolazione di Atrani l’ha da sempre chiamata Giovanna La Pazza, ma ben si differenzia, seppure ne sia stata contemporanea, dalla Regina Giovanna la Pazza. Da quel momento la Torre divenne rifugio di tutti gli innamorati che partono dal Pontone e ivi giungono sulle tracce degli sfortunati amanti. Cfr. Raffele Ferraioli, Le belle del ducato. Da:www.comunefurore.it.
26. Re Ferrante (1423-1494) ebbe una figlia illegittima, Maria D’Aragona, che generò la Duchessa Giovanna D’Aragona (sposa di Antonio Todeschini Piccolomini). Re Ferrante ebbe anche un figlio illegittimo, Ferdinando Duca di Caiazzo e di Montaldo, il quale, sposando la sorella del Vicerè dell’epoca, Castellana di Cardona, generò un’altra Maria D’Aragona (1503-1568), un’altra Giovannina D’Aragona e un altro Duca di Montalto di nome Antonio (1501-1543). Due sorelle, Maria e Giovannina, quindi nipotine della zia Duchessa Giovanna D’Aragona figlia spuria di Re Ferrante.
Nemmeno questa Giovannina, bellissima ma fredda, può quindi confondersi con la zia Duchessa (Principessa illegittima figlia di Ferrante) perchè sposerà il fratello della gelosissima Vittoria Colonna, Ascanio Colonna Duca di Paliano, dal quale avrà per figlia Girolama Colonna (che andrà in sposa al Duca Camillo Pignatelli). Cfr. Amalia Giordano, La dimora di Vittoria Colonna a Napoli, Napoli 1906.
Di naturale bellezza, fortuna e lignaggio, questa Giovannina D’Aragona in Colonna, divenne anch’essa Duchessa di Tagliacozzo in quel di Marino (quando ad Amalfi c’era un’altra Duchessa, Costanza d’Avalos Piccolomini) che, nel 1536, pregò l’Imperatore di darle i mezzi per vivere, essendo il marito Ascanio partito per la guerra in Lombardia, ricevendone un vitalizio di 3.000 scudi all’anno.
La bella Giovannella finse quindi di andare ai bagni di Pozzuoli trasferendosi con beni e famiglia dalla cognata che era ad Ischia, vendendo perfino i suoi gioielli per difendere Paliano. Dall’isola comunicherà al papa di essersi unita al coraggio di Vittoria Colonna: “Chi serà pio, chi serà misericordio, se la pietà e misericordia non si trovasse in lo erede e legittimo possessor delle sacrosante e divine chiavi del tanto giusto e bon primo pastor San Pietro, e che deve mostrar agli altri con vivi esempii l’umiltà e la clemenza di Cristo, per esser lui perfetto gonfaloniero di quello. Deh! basti a Sua Santità, per il nome e virtù di Gesù la supplico, avere dimostrato già che mal può replicare il suddito con il suo signore; né gli piaccia di permettere che si sparga più sangue delle pecorelle, delle quali Sua Santità ne è vero pastore, ricordevole di quelle divine parole, castigati e non mortificati”. Così concluse: – La fiducia mia gli è tanto appresso di Sua Beatitudine che, quando questa invasione non dipendesse della giustissima mente e potentissimo braccio della Santità Sua, che, come là, così ancor la subito togliere, ma dipendesse da altri parentadi del mondo che seriano inferiori alla Santità Sua, spererei fermissimamente tanto in lo presidio ed aiuto suo, che ne li porrebbe, per difficili che fosse, silenzio, e che le cose mie resterebbero inviolate e secure. Da: Raffaele Castagna, Regine, ex regine, principesse, nobildonne che soggiornarono nel 1500 sul Castello d’Ischia, La rassegnadiischia.it.
Oltre a Giovannina, si trasferì ad Ischia anche la sorella: si retirò “in casa del Marchese dello Vasto, la bellissima moglie donna Maria d’Aragona”. Cfr. Gregorio Rosso, Storia delle cose di Napoli sotto l’impero di Carlo V, Napoli 1770.
Maria era “cara alla Regina Giovanna, cara ad Isabella precedentemente Duchessa di Milano”, dice il suo biografo Francesco Fiorentino, sostenendo che nel 1538 “abbandonò il palazzo della riviera di Chiaia, la città di Pozzuoli ed il castello di Ischia, tra i quali era solita dividere il suo soggiorno, ed andò ad abitare il palazzo ducale di Milano”. Cfr. Francesco Fiorentino, Nuova Antologia, XLIII fasc. 2/1884; riportato in Studi e Ritratti, 1911.
Donne intriganti e seducenti di una generazione successiva, valorizzate da Vittoria Colonna, il cui nome ricorre spesso nelle rime di spasimanti e poeti come Sannazaro, Costanzo, Rota, Tarsio, sebbene lo storico e poeta di Costanzo lasciò intendere di non aver amato la Marchesa di Pescara, quanto la moglie del Vicerè Don Garcia di Toledo. Solo così si spiega il verso: – Solo, o Costanzo, per tua gloria basti il poter dir che sì gran donna amasti. Vittoria Colonna, figlia di Fabrizio Colonna, nacque nel 1490 nel Castello di Marino. Nel Castello d’Ischia, invece, nel 1509, sposò Ferrante Francesco d’Avalos, Marchese di Pescara, il quale, nel 1521, diverrà Capitano generale delle truppe imperiali, lasciando questo mondo nel 1525, quando Vittoria frequentò conventi e cenacoli intellettuali per innalzare lo spirito. Cfr. Raffaele Castagna, Un cenacolo letterario del Cinquecento sul Castello d’Ischia, pag.2 e segg..
Per quel che riguarda Costanzo, dopo averne pubblicato un saggio nel 1572, completò nel 1582 l’opera che vide la luce col titolo di Istorie del regno di Napoli. Se in questa parte degli studi, Di Costanzo ebbe come primi direttori il Sannazaro e il Poderico, fu il celebre Berardino Rota che gli diede poi stimolo e gli fu guida nella poesia latina e italiana, in cui così eccellente ei divenne (da Le Rime di Angelo Di Costanzo – Venezia, 1759). E che dire dei privilegi delle dame? Cfr. Danza, op. cit., ivi.
27. ASV, Sigilli Staccati 1, Sigillo a due facce. Si tratta di un sigillo pendente mediante fettuccia di seta gialla e rossa, di cera rossa, rotondo, da mm. 115 in uno stato di conservazione definito buono, con qualità dell’impressione buona.
28. Fulvio Colombo, Regesti del Codicle Diplomatico Istriano, Vol.V. Archivio Diplomatico di Trieste.
29. Baldassarre Castiglione, Terzo libro del Cortegiano del Conte Baldasar Castiglione a Messer Alfonso Ariosto. Vedasi il Cap. xxxvi. Eccone un passo: “Ritornando adunque in Italia, dico che ancor qui non ci mancano eccellentissime signore; che in Napoli avemo due singular regine; e poco fa pur in Napoli morí l’altra regina d’Ongaría, tanto eccellente signora quanto voi sapete e bastante di far paragone allo invitto e glorioso re Matia Corvino suo marito. Medesimamente la duchessa Isabella d’Aragona, degna sorella del re Ferrando di Napoli; la quale, come oro nel foco, cosí nelle procelle di fortuna ha mostrata la virtú e ‘l valor suo…”.
30. La vita di Consalvo Ferrando di Cordova detto il Gran Capitano, scritta per Monsignor Paolo Giovio Vescovo di Nocera, & tradotta per M.Lodovico Domenichi, Lorenzo Torrentino, Fiorenza 1552.
31. Alfredo Maria Santoro, prime Indagini di scavo nel Castello di Mercato San Severino (Salerno), da: archeologiamedievale.unisi.it. Scrive Santoro: Gli esemplari del periodo aragonese sono tre: un grano di Giovanna la Pazza e Carlo d’Austria emesso a Napoli (1516-1519) e due “cavalli” di Ferdinando I emessi a Napoli e nella zecca dell’Aquila fra il 1472 ed il 1488. Le restanti monete sono relative al settore Nucleo Abitato: un denaro gherardino emesso dall’atelier napoletano fra il 1299 e il 1309 da Carlo II d’Angiò e un denaro di Federico II coniato a Brindisi nel 1249.
32. Lucia Maria Bertino, Monete e zecche medievali dal X al XV Secolo attestate in Luni e in centri liguri della sua diocesi. Ella scrive: Degno di nota, anche se riferito al periodo immediatamente successivo al Medioevo, un grano di Giovanna la Pazza e Carlo d’Austria (1516/1519) della zecca di Napoli avente nel D/ la leggenda LETICIA POPVLI attorno alle iniziali I-C accostate da grossi punti e sormontate da corona reale e nel R/IVSTVS REX attorno a croce potenziata accantonata in ogni quarto da globetto (BERTINO L.M. 1986). Questa moneta può testimoniare approdi di navi mercantili di Napoli per scambi commerciali o più probabilmente di navi militari per incursioni nel territorio di Porto Venere. Infatti, un ventennio prima, come risulta da un privilegio del Senato Genovese del 1494 concesso agli abitanti di Porto Venere, il borgo e il suo territorio erano stati devastati ed incendiati dalla flotta di Alfonso II d’Aragona re di Napoli (1494/1495).
33. Cfr. www.bancaditalia.it
34. Ángel Crespo, La vita plurale di Fernando Pessoa, Traduzione italiana di Gianni Ferracuti. I versi di Pessoa sono stati tradotti dall’originale portoghese da Brunello de Cusatis. Da: www.ilbolerodiravel.org, Vetriolo 2002. Egli scrive: La seconda fase del presebastianismo, di recente studiata molto bene da Antonio Quadros, cominciò con il regno di don Sebastián, nipote di Giovanni III, cui era succeduto quando aveva solo tre anni, venendo dichiarato maggiorenne nel 1568, quando ne compì quattordici. Il nuovo re del Portogallo non era affatto ciò che si definisce una persona normale. Non credo neppure che fosse il degenerato che alcuni hanno voluto vedere in lui, perché ciò che risulta chiaro dopo aver studiato il suo temperamento e i suoi atti è che si trattava di un illuminato i cui sogni di grandezza nazionale furono alimentati da alcune tra le menti più privilegiate del suo tempo. Era, sì, stravagante, e a quanto sembra capriccioso e preda dell’impazienza. Della sua stravaganza parla Costa Lobo quando racconta l’episodio seguente: «Con un macabro piacere, ereditato dalla bisnonna Giovanna la Pazza, comandava, ad Alcobaza, di aprire le tombe in cui giacevano Alfonso II, Alfonso III e le loro consorti. Nella chiesa di Batalla, alzava dal suo sepolcro lo scheletro di Giovanni II; gli metteva tra le ossa della mano la spada che era stata sua e che era custodita nel convento, e dava la stura a giaculatorie di venerazione, di cortesia e di glorificazione marziale».
Ma nella complessa personalità di questo giovane monarca c’era qualcosa che potrebbe essere la causa vera e profonda delle sue stravaganze. La questione è molto controversa e mi limiterò a farvi allusione, citando ancora Costa Lobo: «Nel fervore dell’età – scrive – gli ripugnavano le cortesie femminee, vuoi perché il suo organismo era atrofizzato per un difetto congenito, vuoi per il suo rapimento mentale»
35. Ivi.
36. Sabina Marchesi, Giovanna La Pazza, da: www.thrillermagazine.it/rubriche/1421.
37. Ivi.
38. GianCarlo Von Nacher Malvaioli, Cristoforo Colombo, Cap. V, Nota 10: Giovanna la Pazza era una bella donna, somigliava alla sua nonna paterna, Giovanna Enríquez, la cui bisnonna era ebrea. Visse tormentata dai suoi furori passionali e sessuali, trascorse una buona parte della sua vita rinchiusa nel castello di Tordesillas, prima maltrattata dai suoi carcerieri agli ordini di suo padre Fernando, poi in prigione volontaria durante tutta la reggenza, a suo nome, di suo figlio Carlo V. Era così gelosa di suo marito, Filippo il Bello, il quale se la spassava allegramente con le dame fiamminghe della sua Corte, che giunse al punto di sfigurare i visi delle sue donzelle, schiave more, affinché suo marito non cercasse di aver anche con loro relazioni sessuali.
39. GianCarlo Von Nacher Malvaioli, cit.
40. Ivi.
41.Da: www.poblet-pviana.com. Alla morte di Giovanni, nel 1526, Germana sposò Fernando (1488-1550), Duca di Calabria e figlio del fu Re Federico IV di Napoli (1496-1501) e furono Vicerè di Valencia, padroni delle arti e della musica. Quando Germana morì, nel 1538, il Duca di Calabria continuò il suo ufficio fino alla morte, nel 1550, quando fu seppellito al suo fianco. Da: www.guide2womenleaders.com/womeninpower/Womeninpower1500.htm. Secondo altri nel 1541 Fernando si risposò con Mencìa de Mendoza (1508-1554) Marchesa di Zenete.
42. La corte de Valencia y la reina Doña Germana, Cap. Il giudice di Valencia e Regina Dona Germana, Pubblicato per La Seu, 24 novembre 2006.
43. Ivi.
44. Da: es.wikipedia.org/wiki/Agermanado
45. La corte de Valencia y la reina Doña Germana, Cap. “Il giudice di Valencia e Regina Dona Germana”, Pubblicato per La Seu, 24 novembre 2006.
46. Ivi.
47. Manuel Fernández Álvarez De la Real Academia de la Historia, L’incoffesabile segreto di Carlo V, da: Islam Y Al-Andalus, Boletin Informativo de la Yama’A Islamica de Al-Andalus, n.79, ottobre 2008.
48. Ivi.
49. Ivi.
50. Ivi.
51. Ivi.
52. Ivi.
53. Ivi.
54. Ivi. Manuel Fernández Álvarez riporta Pedro Giron.
55. Manuel Fernández Álvarez De la Real Academia de la Historia, L’incoffesabile segreto di Carlo V, da: Islam Y Al-Andalus, Boletin Informativo de la Yama’A Islamica de Al-Andalus, n.79, ottobre 2008. Cfr.: Bol. n.37, aprile 2005, Historia de Al-Andalus.
56. A compendio v. anche: www.abecommunication.com, www.lamonetapedia.it, www.islamyal-andalus.org.
57. Da: http://canales.ideal.es/especiales/carlosV/mujeres.html . Così: “Había encomendado Fernando el Católico, en su última carta a su nieto Carlos, que no abandonase a su viuda, Germana de Foix, «pues no le queda, después de Dios, otro remedio sino sólo vos…» y le encarecía que le fuesen satisfechas las rentas del reino de Nápoles que le habían sido asignadas. El Católico había muerto en Madrigalejo el 23 de enero de 1516, por tomar –se dijo– unas hierbas con la esperanza de lograr sucesión de Germana; otros apuntan que no fueron las hierbas sino el abuso carnal con su joven esposa lo que le llevó a la tumba”.
58. Da: http://canales.ideal.es/especiales/carlosV/mujeres.html . Così: “Cumplió fielmente el buen nieto las recomendaciones del abuelo y ya en la primera entrevista mantenida con la viuda en Valladolid se mostró muy afable con doña Germana. Las comadres pronto empezaron a murmurar que el nuevo rey estaba prendado de una dama de alta alcurnia. Según cuenta Laurent Vital en su Relación del primer viaje de Carlos V a España –y que recoge Manuel Fernández Alvarez en su reciente libro Carlos V, el César y el Hombre–, el palacio del Rey y la casa en la que habitaba doña Germana estaban fronteros y Carlos ordenó que se construyese entre ambos edificios un puente de madera «para poder ir en seco y más cubiertamente a ver a la dicha Reina… y también la dicha Reina iría por él al palacio del Rey»”.
59. Da: http://canales.ideal.es/especiales/carlosV/mujeres.html . Così: “Aquellos encuentros entre el joven belga de 17 años y la viuda de su abuelo, Germana de 29, dieron como fruto una niña que recibió el nombre de Isabel. En 1519 doña Germana, que había acompañado a Carlos y a su hermana Leonor a Zaragoza y Barcelona para celebrar Cortes y ser jurado como rey, se casó en la ciudad condal con el marqués de Brandemburgo. Era la manera de poner fin a los amores del futuro emperador con su abuelastra. Viuda ya del marqués, el emperador ordenó una nueva boda de Germana con el duque de Calabria, haciendo a los dos virreyes de Valencia. Para entonces doña Germana había engordado enormemente. El embajador polaco, Dantisco, comenta sobre el particular: «este buen Príncipe (el duque de Calabria), que cuenta entre sus antepasados ochenta reyes de la Casa de Aragón, forzado por la penuria, ha venido a caer con esta corpulenta vieja, y a dar en un escollo tan famoso por sus naufragios»”
60. H. Prescott, Storia del regno di Ferdinando e Isabella sovrani cattolici, Vol.3, Trad.Ascanio Tempestini, Batelli & Co., Firenze 1848. Capitolo sul secondo matrimonio del Re.
61. H. Prescott, Storia del regno di Ferdinando e Isabella sovrani cattolici, Vol.3, Trad.Ascanio Tempestini, Batelli & Co., Firenze 1848. Capitolo sul testamento del Re.
62. Ivi, cit. Oviedo, Quincuagenas, MS. Bat. 1, quinc. 4, dial. 44.
63. Ivi, cit. Guicciardini, Istoria, tom. 8, lib. 15, p. 10.
64. Roberto delle Donne, Regis servitium nostra mercatura. Culture e linguagi della fislalità nella Napoli aragonese, In: Linguaggi e pratiche del potere. Genova e il Regno di Napoli tra Medioevo ed età moderna, a cura di Giovanna Petti Balbi e Giovanni Vitolo. Centro interuniversitario per la storia delle città campane nel medioevo. Quaderni (4).Laveglia editore, Salerno 2007, dal sito internet: www.fedoa.unina.it/1125. Nota 28.
65.G.Battista Aiello, Napoli e i luoghi celebri delle sue vicinanze, Napoli 1845, vol1. Nella tribuna saranno collocati i “sepolcri di Isabella di Chiaromonte moglie di Ferrante I d’Aragona e di Pietro d’Aragona fratello di re Alfonso, morto nell’assedio di Napoli del 1459 e qui poi trasportato da Castel nuovo e tumulato nel 1444. L’iscrizione è la seguente: OSSIBVS ET MEMORI AE ISABELLAE CLARIMONTIAE / NEAP. REGINAE FERDINANDI PRIMI CONIVGIS / ET PETRI ARAGONEI PRINCIPIS STRENVI / REGIS ALFONSI SENIORIS FRATER / QVI NI MORS EI ILLVSTREM V1TAE CVRSVM INTERRVPISSET / FRATERNAM GLORIAM FACILE ADAEQVASSET / OH FATVM! QVOT BONA PARVVLO SAXOCONDVNTVR. Quivi anche riposa la spoglia di Cristoforo di Costanzo gran siniscalco di Giovanna I, morto nel 1367; e qui Beatrice figliuola di Ferrante I e d’Isabella, rimasa vedova di Mattia re d’Ungheria, leggendovisi l’epigrafe: BEATRIX ARAGONEA PANNONIAE REGINA / FERDINANDI PRIMI NEAP. REGIS FILIA / DE SACRO HOC COLLEGIO OPT. MERITA / HIC SITA EST / HAEC RELIGIONE ET MVNIFICENTIA SE IPSAM VICIT.
66. S. Degli Arienti, op.cit.
67. S. Degli Arienti, op.cit.
68. S. Degli Arienti, op.cit.
69. S. Degli Arienti, op.cit.
70. S. Degli Arienti, op.cit.
71.Gio.Bernardino Tafuri, Cronache del Coniger (con note di). In: Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio.Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò. Ristampat ed annotate da Michele Tafuri, Vol.II, dalla stamperia dell’Iride, Napoli 1851. Pagg.471 e segg.
22. Da: https://www.nartea.com/guida-on-line/san-pietro-martire/
«Ritornati sul corso Umberto I lo si percorre verso piazza Bovio incontrando a sinistra nella piazza Ruggero Bonghi la facciata della chiesa di San Pietro Martire. Carlo II d’Angiò, volendo donare ai frati Predicatori domenicani, a cui già nel 1231 era stata affidata l’antica chiesa di San Michele a Morfisa, una nuova “basilica”, diede incarico di far costruire la Chiesa ed il Convento dedicati a San Pietro Martire, i cui lavori ebbero inizio nel 1294….».
73. S. Degli Arienti, op.cit.
74. Laura Malinverni, Ippolita, da: https://www.storiamedievale.net/pre-testi/ippolita.htm.La promettente adolescenza.
75. Laura Malinverni, Ippolita, da: https://www.storiamedievale.net/pre-testi/ippolita.htm.La promettente adolescenza.
76. Sabatino degli Arienti, Gynevera de le clare donne/31. De Hyppolita Sphorza, duchessa de Calabria.
77. Laura Malinverni, Ippolita, da: https://www.storiamedievale.net/pre-testi/ippolita.htm. Matrimonio ed eclissi.
78. Sabatino degli Arienti, Gynevera de le clare donne/31. De Hyppolita Sphorza, duchessa de Calabria.
79. Veronica Mele, La corte di Ippolita Sforza, cit.
80. Benedetto Croce, Storie e leggende napoletane, seconda edizione riveduta, Bari, Giuseppe Laterza e figli, tipografi editori librai, 1923.Pagg.166-196, cap.VI, Isabella del Balzo. Regina di Napoli. Pagg.166-170.
81. Vipera, Chror. sub Uldarico, pag.90.
82. Ivi.
83. Il 20 agosto 1482 Re Ferdinando nominò Niccolò Allegro a rettore di Benevento, città rimasta in Regno dal 1463, anno in cui, appoggiando le rivolte popolari, fu strappata alla Chiesa insieme a Salerno. Nell’atto compaiono molti civium e habitatorem beneventanorum che chiesero ed ottennero gli statuti comunali ad capitulandum.
84. Valerio dalla Vipera, notajo e sindaco beneventano, fece pubblicare il privilegio. Ma quello fu l’ultimo anno di sovranità del Re, in quanto, il 21 agosto, vi fu la celebre vittoria dei papalini sul Duca Alfonso d’Aragona “presso S.Pieto in Formis, che perciò fu detto Campomorto, dalle genti inviategli contro del Papa, comandate da Girolamo Riario, e da Roberto Malatesta”.
85. I beneventani e gli abitanti di Terracina furono assolti dal delitto di ribellione con bolla papale del 7 gennaio 1483. Il 25 gennaio il pontefice ne dichiarò governatore e castellano Corrado Marcellino, cittadino romano già vescovo di Terracina. Sotto Papa Eugenio Benevento chiederà la separazione del potere politico dalle mani dei Rettori papalini e questi separar separatim facere castellanum a Rettore, seu vicerettore. 21. Stefano Borgia, Memorie istoriche della pontifica città di Benevento dal secolo VIII al Secolo XVIII, Parte III, Volume I, Roma 1769.
86. Civitate Tocco sede vescovile non va confusa con l’Oppido, cioè il Castrum Tocco dipendente direttamente dal papa di Avignone come Castrum Tocci, mentre la precedente Civitate distrutta dal terremoto del 1348 viene dichiarata suffraganea di Benevento. Già papa Stefano X l’avrebbe indicata come dipendenza di Montecassino nel 1058.
87. E’ poi annoverata fra le città suffraganee dal Vipera (Chror. sub Uldarico, pag.90). E qui sarebe l’inghippo perché la vecchia Tocco descritta nel documento non è collocata nella Valle di Vitulano, nella Varvense che non è lo Stretto di Barba (la Varva nel 1800 risulta essere casale di Ceppaloni, ma già nel 1700 era frazione di Chianchetelle, ai piedi di Torrioni, sul finire del vallone San Martino di Terranova Fossaceca all’incontro col fiume Sabato e di fronte Pietrastornina).
88. Leggendo l’opera “Descrizione dei viaggi compiuti dal Santorino stesso fra 1485 e il 1487, in qualità di cancellarius et scriba del Patriarca di Aquileia (che era arcivescovo di Benevento) nei territori facenti parte dei suoi possedimenti” si capisce che qualcosa non quadra. Infatti, lo scrittore ecclesiastico Paolo Santonino, nel suo viaggio del 1456 descritto nel libro Itinerari dice: quae dicitur Tocco in Valle Varvense, malamente tradotta in Valle Vitulana, ad solum usque deducta defunctorum descriptum non recepi. Vitulano diviene Terra con tre parrocchiali, una delle quali è arcipretura, benchè l’arciprete risieda in Tacciano e dicesi arciprete di tutta la Valle di Vitulano che consta di 36 casali (stranezza del numero uguale ai 36 casali che la memoria popolare diceva possedere sicuramente Pietrastornina, antico feudo delle due torri, che è sita a monte dello Stretto di Barba). Anche Meomartini disse Tocco in Valle di Vitulano.
89. Filippo di Commines, Delle memorie di Filippo di Comines, Cavaliero, & Signore d’Argentone, intorno alle principali attioni di Lodovico Undicesimo, & Carlo Ottavo suo figliolo, amendue Re di Francia, Libri VIII, Bertani, in Venetia 1640 pag.223 r – 225 v.
90. Giovanni di Fiore, Della Calabria illustrata, vol.3, cit.
91. Monte, cit. Cfr. A.Bascetta, Quattrocento Napoletano, ABE, Napoli 2011.
92. Antonello Coniger, cit.
93. Notar Giacomo, Cronica, in: Paolo Garzilli, Cronica di Napoli di Notar Giacomo, cit., pag.152.
94. Filippo di Commines, Delle memorie, cit.
95. Filippo di Commines, Delle memorie, cit.
96. Ivi.
97. Cap.II, cit., pag.225.
98. Antonello Coniger, cit.
99. Angelo Tafuri, Opere, cit.
100. Notar Giacomo, Cronica, in: Paolo Garzilli, Cronica di Napoli di Notar Giacomo, cit., pagg.153 e segg.
101. Giuseppe Coniglio, I vicere spagnoli di Napoli, Fausto Fiorentino Editore, Napoli 1967, pagg.11-16.
102. Giuseppe Coniglio, I vicere spagnoli di Napoli, Fausto Fiorentino Editore, Napoli 1967, pagg.11-16.
103. Bascetta, Juana, cit.
104. Bascetta, Juana, cit.
105.Luigi Conforti, Napoli dal 1789 al 1796 con documenti inediti, R. tipi di de Angelis (oggi A.Bellisario e C.), Napoli 1887.
106. Luigi Conforti, Napoli dal 1789 al 1796 con documenti inediti, R. tipi di de Angelis (oggi A.Bellisario e C.), Napoli 1887. “La Biblioteca del Principe di Tarsia è superba: la sua scuderia è magnificamente dipinta e decorata, prova che l’intenzione del signore non era quella d’onorare le Muse. La Biblioteca del Principe di Tarsia era non solo ricca di opera, ma le pareti e gli scaffali, di fregi ed oro. Una sala fornita di molti strumenti matematici, un’altra di ritratti d’uomini dotti, nazionali e stranieri. Sulle porte, in caratteri d’oro, si leggeva il seguente distico di G. B. Vico: Heic Jovis e cerehro quae in coelo est nata Minerva / Digna Jove in terris aurea tecta colit. La Regina ha raccolto, da qualche anno a questa parte, una Biblioteca di opere tedesche per suo uso; Fuger, pittore di Vienna, l’ha dipinta con molto gusto. Erano, su per giù, queste le condizioni e la fisonomia sociale del Regno fino ai tempi di Carlo III, salvo, s’intende, quelle differenze proprie delle provincie cagionate dalla maggior o minor prevalenza del feudatario, del cattivo amministratore, e della maggiore minore lontananza dalla Capitale, ove era accentrato il potere il quale, per mancanza di sollecite comunicazioni, di frequenti scambi, non poteva infondere un’azione rapida e concorde in tutte le membra del Reame”).
107. R.Pane, Il Rinascimento nell’Italia meridionale, Napoli, 1977, vol. II, p.73; Francesco Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale, Volume 2, 1998.
108. Notargiacomo; cfr. Scandone.
109. Veronica Mele, La corte di Ippolita Sforza, Duchessa di Calabria, nelle corrispondenze diplomatiche tra Napoli e Milano. Una enclave lombarda alla corte aragonese di Napoli (1465-1488), pagg. 125-141, Mélanges de la Casa de Velázquez, 45-2, 2015. Cfr. Antonio Cicinello a Francesco Sforza, Napoli 19.II.1465, ASM, Sforzesco, Napoli, 214, cc. 204-206. In: Veronica Mele, La corte di Ippolita Sforza, cit.
110. Da: Il Quotidiano di Salerno. Articolo: Isabella Villamarina, la Principessa del Rinascimento, di Giovanni Lovito.
111. «L’indiscrezione era stata raccolta da Giovanbattista Bentivoglio e riferita da Zaccaria Barbaro al governo di Venezia, Napoli 17.I.1472, Corrispondenze diplomatiche veneziane da Napoli, ed. Corazzol, pp. 137-138».In: Veronica Mele, La corte di Ippolita Sforza, cit.
112. Faragalia, Codice diplomatico sulmonese. In: Scandone, cit., pag.122 e segg.
113. Pietro de Stefano, Descrittione dei luoghi sacri della città di Napoli, Napoli 1560. A cura di Stefano D’Ovidio ed Alessandra Rullo, cit.
114. Veronica Mele, La corte di Ippolita Sforza, Duchessa di Calabria, nelle corrispondenze diplomatiche tra Napoli e Milano. Una enclave lombarda alla corte aragonese di Napoli (1465-1488), pagg. 125-141, Mélanges de la Casa de Velázquez, 45-2, 2015.
115. Laura Malinverni, Ippolita, da: https://www.storiamedievale.net/pre-testi/ippolita.htm. Una “sotterranea” attività diplomatica?
116. Notargiacomo; cfr. Summonte. Cfr. Passaro, cit.
117. Archivio virtuale del monastero dei SS. Pietro e Sebastiano ASPS, 117. 1480 Il 29 ottobre 1481, Nicola de Petrutiis, reggente della Magna Curia Vicarii, incarica il capitano di Acerra di costringere Angelillo de Pistasa cittadino di Acerra a restituire, pena quattro once d’oro, entro due giorni una botte di vino sottratta da una casa sita nel casale di San Nicandro di proprietà dei SS. Pietro e Sebastiano.
118. Pergamente di Atella. Diffida del reggente della Magna Curia Vicarii a non violare una terra ed una masseria in Melito (Il monastero femminile domenicano dei SS. Pietro e Sebastiano di Napoli, doc. 526).
119. Arturo Bascetta, Avellino. L’altro volto del Rinascimento, ABE Napoli 2016.
120. Tratto da Joanni Maurello, poeta dialettale calabrese, che narrò l’episodio nel Lamento per la morte di Don Enrico d’Aragona, epicedio di 296 versi diviso in quattro parti stampato a Cosenza nel 1478, il più antico documento in dialetto della Calabria Citeriore in cui l’autore mostra il dolore per la morte del suo signore. Il testo fu rinvenuto fra i rogiti della biblioteca vaticana dallo studioro Erasmo Percopo nel 1888 che lo considerò come scritto da un uomo di cultura “non del tutto volgare e popolano, o cantambanco o improvvisatore che dir si voglia”.
121. Stefano Borgia, Memorie istoriche della pontifica città di Benevento dal secolo VIII al Secolo XVIII, Parte III, Volume I, Roma 1769.
122. A.Bascetta, L’Irpinia dei Gonzaga, I, ABE Napoli 2016.
123. Filippo di Commines, Delle memorie di Filippo di Comines, Cavaliero, & Signore d’Argentone, intorno alle principali attioni di Lodovico Undicesimo, & Carlo Ottavo suo figliolo, amendue Re di Francia, Libri VIII, Bertani, in Venetia 1640 pag.223 r – 225 v.
124. Filippo di Commines, Delle memorie di Filippo di Comines, Cavaliero, & Signore d’Argentone, intorno alle principali attioni di Lodovico Undicesimo, & Carlo Ottavo suo figliolo, amendue Re di Francia, Libri VIII, Bertani, in Venetia 1640 pag.223 r – 225 v.
125. A. Mazzarella da Cerreto, in: Domenico Martuscelli, Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli, Volume 3, Nicola Gervasi, 1846.
126. Filippo di Commines, Delle memorie di Filippo di Comines, Cavaliero, & Signore d’Argentone, intorno alle principali attioni di Lodovico Undicesimo, & Carlo Ottavo suo figliolo, amendue Re di Francia, Libri VIII, Bertani, in Venetia 1640 pag.223 r – 225 v.
127. Mario Marti (a cura di), Rogeri de Pacienza [di Nardò], Opere [cod.per. F27 conservato presso la Biblioteca Augusta] edito per la Biblioteca Salentina di Cultura dalle Edizioni Milella, Lecce 1977. Cfr. Benedetto Croce, Storie e leggende napoletane, seconda edizione riveduta, Bari, Giuseppe Laterza e figli, tipografi editori librai, 1923.Pagg.166-196, cap.VI, Isabella del Balzo. Regina di Napoli. Pagg.166-170. Versi in oggetto 225-240.
128. AA.VV., Apice nella Congiura dei Baroni, ABE 2011.
129. AA.VV., Apice nella Congiura dei Baroni, ABE 2011.
130. AA.VV., Apice nella Congiura dei Baroni, ABE 2011.
131. Camillo Porzio, cit
132. Camillo Porzio, La congiura de’ Baroni del Regno di Napoli contra il Re Ferdinando I. In: F.Bertini (a cura di) La Congiura de’ Baroni del Regno di Napoli contra il Re Ferdinando I raccolta da Camillo Porzio, Tipografia di Francesco Bertini, Lucca 1816. Ristampa della ‘operetta’ rinvenuta dall’autore a Lucca, essendone state fatte in precedenza solo due ristampe, la prima nel 1565 in Roma, la seconda nel 1724 in Napoli a cura di Giovanni Andrea Benvenuto. Ma questa del Bertini, a suo dire, si troverà di quelle due antecedenti molto migliore.
133. Pacientia, cit. E ancora: – La matre primamente ebbe figliata n’altra figliola e po’ fece Isabella; e po’ in quella medesma giornata [210] ne fe’ un mascul, con gran duol de quella. Questo el fe’ morto: la prima fo allevata, campando certi giorni, e morì ancor ella, restando de li tre questa divina, dal ciel serbata ad esser Regina. [215] De iugno, a’ vintiquattro, in San Ioanne, de sebato questa figliola nacque ne’ mille quattrocento sessanta anni cinque, de Cristo nel presepio iacque; [220] nata questei, per aver affanni sì longo tempo como che a Dio piacque; per reposarse po’ in tranquilla pace, Regina incoronata, alma e verace. Pierre del Balzo detto Pirro, spesso italianizzato in Pietro, era Principe di Squillace, divenuto IV Duca di Andria alla morte del padre Francesco III Duca de Andri (primogenito ereditario del II Duca Guglielmo), quando si divise i beni col fratello Angilberto. Era nato poco dopo il matrimonio del 7 dicembre del 1443 da Francesco e dalla Duchessa Sancia (del fu cavalier Tristano dei Chiaromonte di Lecce), sorella della bellissima Isabella Regina di Napoli. Pirro divenne un uomo valoroso, che ben si distinse nelle armi, sempre al fianco del Re, lo zio acquisito Ferrante I d’Aragona. Aveva appena una quindicina d’anni quando questi salì al trono, vivendo il suo dolore nel 1465, alla morte della zia materna, la Regina Isabella, quando non aveva ancora venti anni. Doppio dolore perché Pirro, a sedici anni, aveva sposato (1459) la cugina della madre e della Regina, Maria Donata Orsini del Balzo (m.1487 ca.), figlia dello zio materno della sovrana.
La moglie Maria era infatti divenuta Duchessa ereditiera di Venosa e delle contee di Montescaglioso e di Caserta, alla morte del padre Gabriele (1453), rimasto senza eredi maschi (era fratello di Caterina, madre di Isabella dei Chiaromonte di Lecce). Subito dopo il matrimonio Pirro si trasferì nella città della moglie, mettendo mano al castello di Venosa e costruendo la nuova cattedrale, affidando l’amministrazione del feudo di Montescaglioso ad un suo procuratore, un certo De Cappellanio, patrizio venusino.
134. Benedetto Croce, Storie e leggende napoletane, seconda edizione riveduta, Bari, Giuseppe Laterza e figli, tipografi editori librai, 1923.Pagg.166-196, cap.VI, Isabella del Balzo. Regina di Napoli. Pagg.166-170. Cfr. i versi dal 290 al 310, in: Mario Marti (a cura di), Rogeri de Pacienza, cit.
135. Porzio, cit.
136. Cariteo, versi 50-70, in Erasmo Percopo, Le rime di Benedetto Gareth detto il Chariteo, Tip. Accademia delle Scienze, Napoli 1892.
137. Cariteo, versi 50-70, in Erasmo Percopo, Le rime di Benedetto Gareth detto il Chariteo, Tip. Accademia delle Scienze, Napoli 1892.
138. Cariteo, cit., V. Sannazzaro, versi 66-67
139.Cariteo, cit., versi 66-67
140. A.Bascetta, Juana. Giovanna d’Aragona. Le Regine di Napoli, ABE, Avellino 2007. 2. Lettera riportata in Carlo de Frede, L’impresa di Napoli di Carlo VIII, Editore De Simone, Napoli 1982. Cfr. Baldassarre Castiglione, Terzo libro del Cortegiano del Conte Baldasar Castiglione a Messer Alfonso Ariosto. Vedasi il Cap. xxxvi. Eccone un passo: “Ritornando adunque in Italia, dico che ancor qui non ci mancano eccellentissime signore; che in Napoli avemo due singular regine; e poco fa pur in Napoli morí l’altra Regina d’Ongaría, tanto eccellente signora quanto voi sapete e bastante di far paragone allo invitto e glorioso Re Matia Corvino suo marito. Medesimamente la Duchessa Isabella d’Aragona, degna sorella del Re Ferrando di Napoli; la quale, come oro nel foco, cosí nelle procelle di fortuna ha mostrata la virtú e ‘l valor suo…”. Cfr. Raffaele Castagna, Isola d’Ischia – tremila voci titoli immagini, Edizioni de La Rassegna d’Ischia. Parlando della nobiltà che dimorò ad Ischia, scrive: A lungo dimorò donna Castellana di Cardona, madre delle bellissime Giovanna e Maria d’Aragona, e discendente di una nobilissima famiglia spagnola, venuta a Napoli al seguito di Alfonso il Magnanimo; sorella di Raimondo di Cardona, che sarà per tredici anni vicerè di Napoli, aveva sposato Ferdinando Duca di Montalto, figlio illegittimo di Ferrante il Vecchio. Un’altra Cardona era Diana, sorella di Alfonso d’Avalos e d’Aquino e madre di Ferrante d’Avalos. Seguiva il marito Fabrizio Colonna nel volontario esilio sul Castello aragonese Agnesina di Montefeltro, sorella di Guidobaldo Duca di Urbino e madre di Vittoria, la grande poetessa del Rinascimento italiano, la più fulgida figura che abbia mai calpestato il suolo d’Ischia (dalla pubblicazione per il ventennio della Festa di S. Alessandro, 2000). Cfr. Francesco Guicciardini, Storia d’Italia (1492-1534).
141. William Negro, I senza fissa dimora nella storia, pag.12. Da: Piazza Grande, anno II, N.2. Bologna marzo 2005. Era una schiavitù di fatto visto che il “proprietario” s’impegnava a mettere il condannato a pane e acqua e poteva utilizzarlo per qualunque lavoro e per tutto il tempo che ritenesse opportuno. Aveva inoltre il diritto di punirlo con la frusta, di incatenarlo e di prestarlo ad altri per le fatiche. Il primo tentativo di fuga veniva punito con la schiavitù perpetua, il secondo con la morte. L’ordinanza non risparmiava neppure i figli dei vagabondi che dovevano lavorare come apprendisti e non avevano diritto ad alcuna retribuzione; ogni tentativo di fuga comportava il passaggio del ragazzo alla condizione di servo, sino alla fine dell’apprendistato. L’atto inglese del 1547 mostra con la massima evidenza la presenza del problema del vagabondaggio, il disprezzo e l’odio del potere nei confronti dei vagabondi, la paura che essi suscitavano.
142. L’espressione è di Benedetto Croce.
143. AA.VV., Vendette da Papa, ABE 2006
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