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§ — Giacomuzio detto Muzio degli Attendoli soprannominato Sforza
Attendolo Sforza, anzi, Giacomuccio alias Muzio detto Sforza, della famiglia degli Attendoli, era rimasto per molti anni a fare il caporale. Il suo nuovo lavoro, abbandonata la zappa, divenne quello di saccheggiare ed occupare Terre, essendo spesso al soldo di piccole città per sfamare la nutrita figliolanza e la folta parentela al seguito, tutti provenienti dalla natìa Cotignola.
L’ascesa del ‘caporale’ Sforza cominciò dopo l’occupazione di Roma da parte di Re Ladislao, il 25 aprile del 1408. Il Re di Napoli si spinse fino a Perugia e all’Aquila, città dove ripristinò la carica di Viceré degli Abruzzi, province soggette al Regno Partenopeo.1
Il sovrano, nominatosi Re d’Italia, non riuscendo a debellare i caporali più insidiosi che gli impedivano di espandere i confini del Regno, cominciò ad assoldarli direttamente, non essendo riuscito neppure a farli uccidere. L’amicizia fra i due ebbe inizio ebbe inizio quando uno dei nuovi papi, Alessandro V, dichiarando non valida l’investitura di Clemente VII, aiutato dai Fiorentini, riconobbe al suo posto il Duca di Provenza Luigi II d’Angiò.2
Fu infatti Papa Alessandro ad assoldare in massa, per la prima volta, gente d’arme famosa, come Braccio da Montone, Sforza da Cotignola e Paolo Orsino, elevati al rango militare di capitani. Fu il primo tentativo di milizie organizzate, da pagarsi con il denaro che Re Luigi avrebbe dovuto ottenere dai Fiorentini, secondo il patto stretto da una santa Lega. Ma la morte di Alessandro V, il 3 maggio 1410, fece indietreggiare i toscani, lasciando senza paga i caporali mercenari, in quanto il nuovo Papa, il napoletano Giovanni XXIII, si accordò con i Genovesi e perse l’interesse di cacciare Ladislao dalla sua Napoli, frenato anche dalla peste che aveva già ucciso la vecchia Regina Margherita.3
A questo punto i capitani, rimasti senza paga, si coalizzarono, divenendo un punto di riferimento. Perciò Re Luigi, Sforza e Braccio andarono insieme dal Papa a Bologna, benché senza esito, in quanto l’Imperatore Sigismondo era deciso a ricomporre lo scisma creatosi con l’elezione di tre papi diversi. Papa Giovanni disse di no a Re Luigi perchè intendeva costituire un forte esercito nel caso gli fosse servito il braccio armato contro i tiranni che gli si contrapponevano, rimandano perciò la conquista di Napoli, nonostante avesse riportato una prima vittoria esemplare.
Dopo che Braccio si era riaffacciato a Spoleto con 100 cavalleggeri, il 19 maggio 1411, il campo del sovrano subì una bella perdita al Ponte di Ceperano, braccato da Re Luigi d’Angiò sostenuto da Papa Giovanni XXIII e dalle milizie dei capitani Orsino e Sforza che indietreggiarono Ladislao a Roccasecca al punto che a[p]pena campò e le sue bandiere innalzate a Roma furono atterrate.
Tanto che in quello stesso anno, il 14 novembre, Sforza giunse a Spoleto con i suoi uomini che cavalcaro alla Matrice et trasserune multa robba preda et prisiuni perché se tenivanu collu Re Lancilau.
Ma Re Luigi, richiamato dal suo Papa, lasciò tutto e tornò a casa, dove morì, mentre Giovanni, sebbene sconsigliato da Cosimo de’ Medici, decise di andare al Concilio, ritenendo di essere l’unico e legittimo Papa universale eletto da quei cardinali, evitando così di essere dichiarato in contumacia e di vedersi sostituire da un altro Papa eletto dai tedeschi che l’avrebbe cacciato da Roma col favore dell’Imperatore.
Liberatosi di Re Luigi II Duca, Ladislao si riprese Roma e favorì le soldatesche di Braccio, riunendo al suo servizio, nonostante il desprezzo che provasse, anche gli altri capitani nemici come Paolo Orsino e lo stesso Sforza da Cotignola.
Attendolo tornava inconsapevolmente in auge per uno scherzo del destino e stavolta al seguito del suo ex nemico, quel Re di Napoli che, rivolgendo esercito e mercenari verso Perugia, dopo aver ottenuto anche la sottomissione di Lombardi e Toscani con gran doni, s’era messo in testa di conquistare l’Italia.8
Poi anche il cronista Parruccio tace per quasi tre anni su Spoleto, Sforza e il sovrano napoletano, fino al 1 maggio 1414, allorquando anche Paolo Orsini si vendette a Ladislao, Re alquanto tartaglia della lengua, tornato alla carica su Roma. Paolo, in suo nome, si spinse verso Surianu e San Faustino, prendendo all’obbedienza Todi, città dove si insediò, proseguendo poi per Bevagna. In quei giorni li caporali de Re eranu Sforza da Cotogniola, Paolo Orsini, il Conte di Carrara, Malatesta da Cesena, messer Malacarne e Tartaglia, finchè il 24 maggio 1414 Todi si ribellò.9
Ma l’occupazione dell’Umbria e una vita fatta di dissolutezze amorose, essendo troppo preso da libidinosi vaganti pensieri delle concubine, portarono sì Ladislao fino a Perugia, ma per farlo avvelenare da un medico fiorentino, il quale, pensando all’oro e non al delitto che stava per commettere, qual vile ciurmadore di poculi amatorii, rintracciò una perugina amata da Ladislao che, nella speranza di renderlo fedele con un filtro d’amore, divenne sua avvelenatrice.
Disse il medico: – Se lo vuoi fermo amante stempera cotesta droga in alcuna bevanda, e dagliela a bere.
La donnina diede quindi l’intruglio a Ladislao convincendolo che fosse salutifero, sebbene da altri fonti compaia un quadro diverso sul suo rapporto con le donne e un’amicizia molto particolare col cavaliere Gesualdo, col quale trascorreva spesso il tempo libero. Ad ogni modo, intruglio o meno, il Re si ammalò di brutto, giusto il tempo di tornare a Napoli, dove morì a 33 anni, compianto dai suoi soldati che, afflitti e disorientati, si dispersero al servizio di questo o di quel principe.
Il trono di Napoli fu quindi nelle mani della consanguinea Giovanna II.10
Era il 6 agosto del 1414 quando Sforza accusò quest’altro colpo, dopo che era riuscito così abilmente a mettersi al soldo di chi poco innanzi aveva odiato tutti i Capitani di ventura. A Sforza, intesa la morte di Ladislao, non restò che raggiungere Napoli con pochi cavalieri, lasciando il cognato Micheletto da Cotignola al governo delle sue genti. E quella fu la sua fortuna perché, giunto nella capitale partenopea, trovò che il popolo, lo stesso giorno della morte del Re, avesse gridato il nome di Giovanna II per Regina.11
Ne approfittò il Papa che, ad ottobre, spedì a Roma Jacopo, il cardinale degli Isolani di S.Eustachio, per recuperare i suoi stati, a cominciare da Monte Fiascone e Viterbo, permettendo ai romani di risollevarsi, respingendo Sforza e gli altri capitani rimasti fedeli ai Napoletani. Il loro avanzare risultò infatti nullo e il cardinale si riprese Castel Sant’Angelo il 19 ottobre ripristinando il governo della Chiesa su Roma, città che acclamò il Papa, il quale, il 1 novembre, porté serenamente portarsi ad aprire i lavori di Costanza.
A Sforza non restò che tornare a Napoli per trattare la sua condotta da Giovann II detta la Nova, con la quale subito entrò in amicizia, spesso scherzando e prendendola un po’ in giro, e per questo facendo ingelosire i suoi amanti, a cominciare da Pandolfo. Sebbene avesse 40 anni, Sforza, di bella e robusta statura, era pur sempre pieno di quella grazia militare da far drizzare sul trono qualsiasi sovrana. Al chè Pandolfo, ex coppiere elevato al rango di Gran Camerlengo del Regno, prima che Attendolo passasse dal fare la corte alla pratica, ammonì la Regina, sostenendo che quelle lusinghe fossero fasulle e che Sforza altri non era che un seguace di Re Luigi d’Angiò giunto a Napoli per radunare gente d’arme del partito del fu padre ed occupare la capitale.
A questo punto partì l’imboscata e Sforza fu fatto prigioniero nella Torre di Beverella, dove già stavano rinchiusi Orso e Paolo Orsini, scampati alla decapitazione sotto Ladislao.13
Le sue disavventure quindi ricominciarono per aver fatto gli occhi dolci della Regina. Da qui il pretesto della prigionia.14
In realtà Giovanna era innamorata di Pandolfello, in origine suo scalco, col quale si intratteneva in segrete e sconvenevoli dimestichezze, dopo averlo favorito al grado di Gran Camerario, l’amministratore delle rendite del Regno, cioè di Gran Siniscalco.15
L’ex scalco, con smoderata autorità, accecato dalla gelosia, aveva però evitato di far uccidere il più valido condottiero del Regno, studiando di frenare i suoi istinti tenendolo lontano per quattro mesi.16
Pandolfo d’Alopo, con la sua audacia, aveva Giovanna in pugno e, con la sua bellezza, era riuscito a sedurla al punto che regnò sotto le nom de Jeanne, almeno fino a quando non si era presentato il rivale: c’était Muzio Attendolo, surnommé Sforza, le plus valeureux des Condottieri. Il suo vigore e la sua arte marziale avevano fatto una viva impressione nel cuore della Regina e Paldolfo sarebbe stato certamente sostituito, se non avesse usato l’arte della menzogna.17
E così Sforza si ritrovò in quello stesso luogo buio dove erano stati lasciati a perire Orso e Paolo Ursini, sebbene fosse grande il timore che i loro parenti potessero coalizzarsi e, nel liberarli, creare un gran tumulto.18
In realtà non pare che Attendolo Sforza fosse giunto a Napoli da amante della Regina, quanto per raffermare la condotta avuta da Ladislao. Perciò la sua cattura diede gran dispiacere agli anziani esponenti del partito dei Durazziani, che si lamentarono con la Regina per aver fatto imprigionare un così valente capitano per aver dato ascolto alla sola campana del Conte Pandolfo.19
I più accaniti erano gli ex consiglieri Giovanni Caracciolo Conte di Girace, Perotto Conte di Troia, Francesco Zurlo, Baordo Pappacoda, Raimondo Origlia.
I Durazziani lo fecero per interesse non solo della Corona ma dell’intero Regno, che anderebbe a sangue e a fuoco se le genti d’arme di Paolo si fossero unite a quelle di Sforza per liberare i loro capitani. Ma la Regina rassicurò gli Anziani che non aveva amanti e che era pronta a sposarsi per stabilizzare il trono, essendo pronta ad incontrare i Principi pretendenti già a Natale, ricevendo gli ambasciatori di Francia e Spagna, anzi, tutti quelli che dall’Inghilterra fino a Cipro, le avessero fatto la proposta di maritaggio più vantaggiosa.20
E così, Giovanna II, mentre il giudice-perito esaminava il caso di Sforza, accettò il consiglio di trovar marito per avere prole, essendo l’ultima rimasta della stirpe.21
La Regina decise finalmente per l’attempato coetaneo Giacomo della Marca (1370-1438), o meglio Jacques II di Bourbon, III Comte de La Marche del sangue reale di Francia, in modo da calmare anche gli eredi del defunto Luigi II Duca d’Angiò che vantavano il titolo dell’investitura regia del Regno ottenuto dal Papa.22
Ma Pandolfo non perse le speranze, anzi, tentò il tutto per tutto e ne parlò finanche con Sforza, asserendo che era stata Giovanna a costringerlo ad imprigionarlo su istigazione dei Saggi detti Magni, cioè degli Anziani, che lo avevano accusato di essere tornato a Napoli per sposare la Regina. Questa tesi bastò al vile per colpire al cuore una persona semplice come Attendolo, offrendogli la mano della sorella.
Disse Pandolfello a Sforza: – Sa Iddio quanto abbia deplorato che la Regina, istigata dai maledici invidiosi della tua gloria, t’abbia tacciato in questo luogo, punizione ai rei di stato: ammiratore della tua valentia in arme, mi è venuto fatto, dopo molte parole ed opere, di vincere i tuoi nemici, di renderti la Regina giusta e propizia, e di non pur liberarti, ma procacciarti la dignità di Gran Contestabile del Regno; confessione della tua innocenza, e maggior tua gloria. Ma la Regina, che cotanto ti esalta, brama che tu prenda per moglie Caterina mia sorella.23
Fatto è che l’arresto di Sforza è contemporaneo alle lamentele del Consiglio dei Saggi, andati da Giovanna per dirle che lo dovesse arrestare oppure liberare e, contemporaneamente, che si dovesse sposare. E altro fatto è che a Sforza qualcuno dovette pur convincerlo a sposare la sorella di Pandolfo e non sarebbe del tutto da accantonare la tesi che fosse stato fatto prigioniero proprio per volere dei Saggi che già avevano predisposto un matrimonio riparatore con un francese per evitare ulteriori invasioni angioine, ma creando i presupposti di un allontanamento definitivo degli Aragonesi.
Ciò sarebbe accaduto solo per una cattiva interpretazione data al primo cronista, esagerando i successivi storici aragonesi sugli amori di Giovanna, in modo da creare la cattiva fama della Regina che aveva rifiutato il loro Re di partito aragonese, Alfonso il Magnanimo….
Arturo Bascetta –
Il ritorno a Napoli per cacciare gli Aragonesi e favorire gli Angioini
Prima di tornare dalla sua donna a Sessa, Sforza restò con loro a Gaeta per 22 giorni in perfetta e segreta amicizia col Gran Siniscalco, col quale aveva stretto un patto: doveva tenersi pronto ad accorrere al fianco di chi lo avesse chiamato per primo, cioè di Giovanna oppure di Alfonso, ottenendo in cambio la conferma del possesso dei feudi di Manfredonia.
Per cui Regina e Alfonso trattarono la pace anche con Braccio che si concluderà col nulla osta papale quando Braccio e Sforza rinnoveranno l’antica amicizia tra La Preda e Presenzano (nel Bosco di Saccomanni) e Braccio tornerà a Città di Castello, dove prese Orsa ed altre cittadelle.
Giovanna, presa dall’amarezza verso Alfonso, si era spostata a Pozzuoli non vedendo l’ora di tornare a Napoli, dove la peste era cessata, ma fu inseguita e raggiunta dall’Aragonese che tentò in tutti i modi di dipanare ogni sospetto; fatto che invece lo accentuò. E quando Alfonso andò ad Aversa, ella si recò via terra a Napoli facendo tappa nel Castello di Capuana, anzichè a Castel Nuovo, dimostrandogli di voler restare divisa.
Muratori racconta che quell’estate Sforza andò a trovare Braccio per porre fine agli scontri direttamente nel suo campo, rinnovando la vecchia amicizia interrotta, in due ore in cui Braccio gli rivelò le trame fatte col Conte Niccolò Orsino e con Tartaglia a suo danno. Perciò si era deciso a farlo graziare da Giovanna a patto che cedesse Acerra. Ciò fatto Braccio se ne tornò a Perugia a riprendersi Città di Castello e Sforza attese la richiamata della Regina e di Sergianni. Anche perchè, dopo gli incontri preliminari di Gaeta, ogni giorno che trascorreva aumentavano i dissidi fra Re e Regina, giungendo a dichiararsi che Sforza sarebbe stato utilizzato come difensore del Regno, accorendo indistintamente qualora fosse servito al Re oppure se lo chiamasse la Regina, prendendo le armi in favore del primo che lo avesse chiamato. Dopo questo patto Sforza e i suoi andarono a trascorrere l’inverno a Villafranca, presso Benevento, e poi nella città di Troia.
Ad ottobre Giovanna continuò ad essere la sola Regina di Sicilia, pur avendo riperso numerosi territori del Regno.
— Iohanna secunda dei gratia Hungarie, Iherusalem et Sicilie, Dalmacie, Croacie, Rame, Servie, Gralicie, Lodomerie, Comanie Bulgarieque Regina, Provintie et Forcalquerii ac Pedimontis comitissa.
A maggio del 1423 Braccio andò per suo conto a porre campo all’Aquila e prenderla, mentre a Napoli, alla Regina e al Gran Siniscalco, osannati dal popolo, cominciarono a venire a noia i Catalani.
— Viva la Regina Giovanna! Durazzo, Durazzo!
I bandi pubblici si menavano a nome di Giovanna senza alcuna menzione di Alfonso, il quale decise di sana pianta di insignorirsi del tutto, cominciando a togliersi dai piedi quel Gran Siniscalco che aveva in custodia tutte le cose della Regina. Del resto, tornato buona parte del Regno dalla parte di Alfonso, grazie a Braccio, pensò di continuare ad usare violenza verso la Regina. Alfonso si finse infatti ammalato in quel di Castelnuovo e stette tre giorni senza andare più a corte, cioè nel Palazzo Capuana della Regina, la quale lo credette infermo e mandò il Gran Siniscalco a fargli visita. Ma questi fu trattenuto con la forza, benchè vi andasse armato di salvo condotto, il 22 maggio 1423, quando fu incarcerato con l’accusa di essere il maggior istigatore di Giovanna.
Spinto dall’avido desiderio e montato a cavallo, Alfonso si precipitò verso Capuana, ma i familiari del Gran Siniscalco, non vedendolo tornare a casa, accorsero allarmati dalla Regina, anch’ella in sofferenza per l’inutile attesa. Giovanna capì quindi il gioco e fece in tempo a far serrare le porte del maniero prima che fosse giunto il Re, comandando che in nessun modo gli si dovesse aprire la porta che va nella Terra.
Dice de Sariis che Alfonso ne fu subito avvisato e, conoscendo l’instabilità di costei, e l’ambizione del Gran Siniscalco, venne subito a Napoli, alloggiando a Castelnuovo, venendo a conoscenza che quell’alterazione di mente della Regina era per suggestione del Gran Siniscalco e fu pronto a farlo incarcerare il 22 di maggio, prima di cavalcare per andare a trovare la Regina che, saputo del fatto e costernata, gli fece chiudere in faccia le porte.
Crivelli sostiene che riconosciuto il Gran Siniscalco Sergianni quale istigatore, il 27 maggio 1423, Alfonso lo fece incarcerare raggiungendo la Regina a Capuana per scusarsi o per fare anch’ella prigioniera. Al chè ella si rinchiuse dentro e quando Alfonso fu sul ponte levatoio chiedendo che gli si fosse aperto, fu arretrato per le briglie del cavallo da un soldato della Regina che fece rialzare il ponte, facendolo tornare molto irato verso Castel Nuovo.
La Regina comandò infatti a Sannuto da Capua, capitano del castello, uomo robusto e di grande animo, di serrare anche l’altra porta, quella che va di fuori, ma non ebbe tempo di farlo così presto che vi trovò il Re, il quale, era giunto per la via di Formello, fuori dalle mura, col cavallo che aveva posto le zampe anteriori già sul ponte. Sannuto prese allora il cavallo per le briglie e lo spinse indietro e fece alzare il ponte incurante della presenza del sovrano. Così il Re fu costretto a voltarsi ma, senza spostarsi di lì, mandò a chiamare gente d’arme con le bombarde per assediare il castello di Capuana.
Ecco perchè la Regina, mentore del suo patto con Sergianni, mandò due messi per chiedere aiuto a Sforza che svernava fuori Napoli, a Mirabello.
Sforza, ricevuta la lettera mentre alloggiava al Convento presso Mirabello, senza indugio, cavalcò dì e notte e mai si riposò finché non fu a Napoli. Ma anche il Re, in virtù del medesimo patto, gli mandò incontro la richiesta di aiuto, ma lui rispose di non poterlo fare, stando ai capitoli sottoscritti, avendo ricevuto prima la richiesta di aiuto della Regina e pertanto lo invitava a togliere l’assedio.
Giovanna si decise quindi a richiamare Sforza, sicura che per l’amicizia antica venisse a liberarla, così come le consigliarono i fedelissimi. Sforza ne fu in verità dispiaciuto, consigliando a questo punto di adottare Luigi al posto di Alfonso o di prendere egli stesso Regno e Regina in suo arbitrio. Perciò, adunati i veterani, partì da Benevento verso Napoli, scontrandosi con l’armata catalana di Bernardo Centiglia, ma fu arretrato verso Castelnuovo.
Giunse intanto il mercoledì, era il 26 maggio, e a Capuana avvenne il fatto d’arme eclatante che durò sei ore. Sforza, chiamate a raccolta le sue milizie, non potendosi spostare dal cantone di Casanova, appresso il Formello, mandò alcune squadre alle sue spalle e, senza allentare la battaglia, face buttare giù le mura degli ortali di quella Casa. In tal modo, date le spalle ai Catalani, che vennero a trovarsi nel mezzo, si diedero alla fuga verso la porta della Terra. Inseguiti dagli Sforzeschi furono presero tutti, fra cui 26 baroni e gentiluomini e 600 cavalli grossi costretti ad indietreggiare dalla Terra fino a Castelnuovo, dove furono privati dei propri bene e delle case: un bottino di migliaia di ducati…