Description
La casa dei gabbiani
Si svegliava al mattino e lo stridio dei gabbiani le ricordava distese d’acqua e nostalgie di sole. Le ricordava il mare. Avevano il gusto del sale marino, delle brezze quei loro gridii che di li a poco, sarebbero svaniti in un fremito di ali, verso il lido, sulla battigia e poi, a sfiorare l’increspatura delle onde chiare, come il cielo dell’alba.
Era accogliente, grande la casa di Valmaura, tinteggiata di un verde che assomigliava a quello dei prati, dell’erba a primavera. Aveva un terrazzo che d’estate si riscaldava tanto che vi crescevano forti i fichi d’India, in un vaso, prima piccolo poi sostituito da uno più grande, per contenere la pianta carnosa che aveva resistito al freddo del nord, alla bora che aveva la forza e il fragore dei treni, quando giungono nelle stazioni.
Le voci del nord, al mattino rompevano il silenzio con la naturalezza della vita, non le infastidivano il risveglio con parole superflue e importune: erano i gabbiani, il sibilo del vento, lo scuotere delle imposte, i freni degli autobus che scandivano con precisione il tempo di ogni giorno.
Valmaura era la periferia tranquilla della città imperiale, la Trieste superba e bianca di facciate simmetriche e solenni, nei mattini profumati di caffè appena tostato, mescolato agli odori di tante altre cose, di tante altre genti, di una realtà in cui il confine era come l’orizzonte che si guarda con piacere quando è sereno, con angoscia quando il tempo prevede burrasca.
Aveva amato quella casa, la casa dei gabbiani che nei giorni di pioggia, nei giorni di vento si raccoglievano, in tanti, sul terrazzo della sua camera e un po’ le facevano compagnia ricordandole altri mari, altri lidi, della sua terra giù al sud dove solo i suoni della natura potevano assomigliare a quegli altri suoni, uniche similitudini di mondi diversi e lontani.
Poi era andata via, da quel luogo e da quella casa e non aveva sentito più i gabbiani e l’odore del mare e quei silenzi si trasformavano, un po’ alla volta, in sussulti dell’anima, in fastidi indefinibili che turbavano le sue consuete abitudini. Al risveglio, adesso, sentiva il cigolio dei carretti degli ambulanti e le loro voci erano tristi cantilene di un universo provvisorio.
L’altra città non aveva più una dimensione definita, si allargava a dismisura in tanti agglomerati disarmonici dove il tempo non aveva scansione ma si dilatava, in un gioco di imprevedibili combinazioni.
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