08. CASSANO DI MONTELLA NEL REGNO DI NAPOLI

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..L’immunità dei nobili al pagamento delle tasse già nel 1500

Nel 1540 nobili come il montellese Giovanni Cianciulli risulteranno addirittura immuni da fiscali e gabelle per cui Melchiorre Palatucci pensò bene di vendergli un territorio feudale in Cassano, pagando solo l’adoa alla contessa (PS, vol.204, f.23).
Il sindaco e gli eletti ci proveranno, ma furono costretti a restituirgli quanto pagato nel 1541 perchè il territorio era in feudo come da plano e da tabella e perciò pagava un paio di guanti ed essendo subfeudatario della contessa, per i prodotti feudali, doveva essere esente nella sua università dalle gabelle della Cartella (Catasto) e della Macina (PS, vol.220, f.38 t).
La tenuta del feudo di Cassano in potere di Rosata Carafaera stata poi riscattata dalla Contessa Giustiniana che l’aveva ceduta a Guevara de Guevara che, a sua volta, l’aveva affittata per cinque anni a Maria Cavaniglia con istrumento del 14 agosto del 1543. I corpi dati in fitto erano Bosco delle Vallicelle, selva castagnale a Li Tauri, i 18 ducati dovuti all’Università ed i 10 della mastrodattia (Scandone, l’Alta Valle III, pag.37, n.5).
Poteva anche succedere di compilare un apprezzo o catasto dei beni degli abitanti in maniera errata, come accadaduto al sindaco Tancredi de Stella e all’eletto Domenico De Sena che furono incarcerati dal Reggente Commissario di P.U., Giovanni de Palma, che li aveva accusato di aver redatto un atto falso perchè non conteneva tutti gli abitanti. Ma si ordinava al De Palma di non tartassare l’Università che non ha altro catasto, se non questo della II Indizione (1544-45) e di liberare gli arrestati previa cauzione (PS, vol. 252, f.58 t).
Da qui in avanti l’Università sarà più rigida nella riscossione della gabella sul catasto, per i beni posseduti, e sul fuoco, per i fiscali, con immunità a chi aveva oltre 60 anni e solo agli ecclesiastici per evitare contestazioni a proposito dei beni acquistati per donazione, o per compera, per i quali è obbligatorio il pagamento dei fiscali (PS, 308, f.18).
Nel 1545 la Contessa Giustiniana ed il figlio Conte Troiano II cedono per sette anni, col patto di ricompra, le rendide di 150 ducati relative a Cassano a Giacomo De Bucchis mentre il Conte Troiano II, concessionario della zia Nicolìa Cavaniglia, ricorre al Sacro rergio Consiglio per il riscatto di beni che erano stati di suo padre Diego II e suo nonno Troiano I, come il castagneto alla Fontana di Messer Roberto e il Pesco dell’Isca del Saleconito con un altro territorio alla Longa (Scandone, L’Alta Valle, op.cit, doc.93-94-95, pag.112-13) sempre nel perimetro di Cassano (in Scandone, op.cit.)…
Certo è che il barone Francesco Giaquinto non dovette piacere all’Università di Cassano e viceversa. Nel 1676 l’Università riferiva al Collaterale che il barone, con una comitiva di 5 armati, fra cui Antonio Mazzeo, andava effettuando furti di pecore e quindi era considerato una persona facinorosa temuta dalla gente (Collat. Curiae, vol. 145, f.120). E fu egli stesso oggetto di un’archibugiata mentre era con una donna in casa sua; da qui l’ulteriore accusa di Orazio Mancini di essere protettore di banditi e autore di azioni criminose. Il barone fu quindi incarcerato a Montefusco dopo un’istanza del vescovo di Nusco verso cui aveva anche attentato, ricevendo la confisca dei beni per contrabbando di tabacco, mentre si procedeva all’accertamento dell’accusa in quel 1681 (Viglietti Vicereali, Principato Ultra, vol.3171). Nel 1682 ancora si trovava nel Carcere della Vicaria per contrabbando di tabacco, dopo averne acquistato 150 libbre dai padri del monastero di San Severino in Napoli nella quaresima del 1681, nascondendole in uno stanzino della sacrestia di Santa Maria delle Grazie in Cassano. Se la cavò con una transazione da 150 ducati, disponendosi il dissequestro dei beni (Cons. della Summ., vol. 78, f.114).
Nel 1683 Mancini insiste nell’accusare il barone che lo avrebbe bastonato con gravi ferite, come accaduto ad altri cittadini, ma in qualità di sindaco, perchè difendeva i diritti dell’Università. Altri erano gli omicidi commesi, ma la Regia Corte decidette di non procedere asserendo che il Mancini era stato solo istigato da Nunziante Maiorana (Viglietti Vicereali, Principato Ultra, vol.3171 e vol.3173). Fu quindi liberato dal carcere il barone di Cassano il 27 giugno 1686.
Sentendosi però perseguitato dal vescovo di Nusco, protettore del sacerdote Geronimo Maiorana che insieme ad un suo fratello e alla complicità di Michele Sangermano, fratello del vescovo, gli avevano tirato delle archibugiate, continuò a ricorrere contro le minacce di Nunziante Maiorana e altri chierici e laici di famiglia, protetti dal vescovo, al punto che dovette rifugiarsi a Montoro inviando le prove contro Nunziante, Giuseppe ed altri Maiorana, istigati dal suo nemico ecclesiastico. Lettera inviata al Preside provinciale che si invitava ad accertare solo se gli inquisiti non fossero ecclesiastici, respingendola di fatto.
La lettera fu inviata unitamente ad un memoriale di Giovanni Carfagno contro i fratelli Maiorana, accusati di aver ucciso suo padre Giuseppe Carfagno tentando di uccidere anche lui che era scappato maltrattando Lorenzo Carrozza che non gli aveva rivelato il luogo dove si nascondeva beccandosi solo il colpo del calcio di una scoppetta (VV, vol.3171 e vol.3172).
Il vicerè nel settembre del 1686 invia poi al Preside un’altra lettera del Barone che denunzia le vessazioni dei mastrodatti, scrivani e caporali della Regia Udienza che avevano incarcerato un suo vassallo perchè andava armato di scoppetta, sebbene non fosse uscito dal feudo, chiedendo di inviare a Cassano un Regio Governatore che fu nominato nella persona del dottor Tommaso Procaccini il 18 gennaio 1687. Nell’agosto del 1687 insiste anche Giovanni Carfagno contro Giuseppe Maiorana che si dice rifugiato a Chiusano. Ne seguirono due anni dopo dei disordini a causa della recita in pubblico di una commedia, alla presenza dei marchesi di Bonito e Mirabella che non avevano richiesto licenza al Preside, finiti a discussione con i soldati di campagna che facevano la scorta armata al fiscale con alcuni spettatori montellesi insofferenti dei loro soprusi perchè il fiscale favoriva alcuni della sua provincia. Nel 1693 sono i cittadini ad inviare un reclamo al Vicerè contro il Barone (Viglietti Vicereali, Principato Ultra, vol.3174, vol.3175 e vol.3177).
Nel novembre dello stesso anno è il Vicerè che comunica al vescovo di essere stato informato della temerarietà del suo vicario foraneo Catalano e delle sue impertinenze commesse da lui e dai congiunti, in specie da Don Tommaso de Aurilia contro il Barone ed alcuni suoi vassalli costretti a consegnare loro della roba senza pagamento, eredità di Don Francesco Caposele, sopreso da morte repentina. Appena deceduto, infatti, il vicario era entrato in casa insieme insieme con il notaio G.Battista Catalano ed aveva fatto redigere l’inventario degli effetti esistenti distribuendoli a suo arbitrio mancando il de Aurilia di rispetto verso il Barone e il vescovo lo aveva punito mandandolo per tre giorni a Bagnoli Il vescovo veniva quindi invitato a dargli dovuta mortificazione, altrimenti il Vicerè si vedeva costretto a servirsi de’ mezzi suggeriti dalla suprema ragione di Stato. Nel 1695 il vescovo aveva riferito in un suo memoriale che il Barone Francesco Giaquinto non solo proteggeva il chierico Nicola Mongelli processato nella Curia Vescovile per omicidio, ma gli permetteva di passeggiare liberamente in Cassano dove il padre del Mongelli, anch’egli nuscano, era Governatore, aggiungendo che il Barone ed i due Mongelli lo minacciavano della vita. Dal canto suo il Giaquinto accusava Michele Sangermano, barne di Monteverde e fratello del vescovo di attentati vari per mezzo di congiunti e sudditi di lui. Nel 1696 seguì un altro memoriale, stavolta del Giaquinto, in cui si denunziava la mala qualidad del vescovo, che continuava ad asserire che egli proteggeva i banditi, oltre che del fratello, mentre era noto che proprio grazie a lui ne avevano arrestato uno a Salerno (Viglietti Vicereali, Principato Ultra, vol 3178).

2.

Description

Il Castellione di Cassano diventa Casale di Montella (1164)

Senza qui volerci dilungare sulla presenza dell’antico Castellione di Cassano, oggetto di altro studio più completo di prossima pubblicazione, se ne ricorda ancora la presenza anche prima del 1164, con il nome di Castellionem Cassani abitato da Davide figlio di Ursonis Maraldi di Castellionem Cassani, con i suoi uomini in Serra Campi e Maionis, che purtroppo lo Scandone confonde con il milite David de Montella citato come teste nello stesso documento cavense e ben definito con il nome di David figlio del Milite Guidonis.
Fermo restante il fatto che il Castellionem di Cassano non ebbe poi lunga vita, perdendosene le tracce già nel 1184, gli uomini delle terre di Cassano furono poi donati alla Chiesa di San Giovanni de Gualdo e assoggettati a Castelli Montelle con il titolo di Casale di Cassano, ma solo per una cinquantina di anni, fino cioè all’arrivo degli Svevi che, a loro volta, lo sottometteranno, Montelle compresa, al Castello Imperiale di Giffoni.
La comunità religiosa dipendenza di Cava chiamata San Giovanni del Gualdo era fatta di uomini che coltivavano anche le terre ai piedi del Castillione di Cassano, che furono quindi presso il luogo ubi Polentina dicitur, iuxta quendam fluvium terrae nostrae, dove si riunì la Curia Solenne, per risolvere una controversia feudale fra Vescovo di Nusco e Abate di Fontigliano, alla presenza del delegato regio, Guglielmo de Tivilla, figlio e successore di Simone di Tivilla, che nel 1164 possedeva in capite diversi feudi, fra cui quello di Cassano e Bagnoli in servitium. Ciò avveniva cioè nel dodicesimo anno di Re Guglielmo di Sicilia, alla presenza di Giovanni Giudice di Montelle, Davide fu Guidonis milite di Montelle, Davide figlio di Ursonis Maraldi di Castellionem Cassani con i suoi uomini in Serra Campi e Maionis, figli di Giovanni Andree di S.Iohanne (Arch.Cava, XXXI, 88).
Le terre di Cassano, quindi, prima del 1164, non furono abitate da soldati Normanni, ma da homines di Ursone Maraldi assoggettati dal Milite David de Montella e donati alla Santa Trinità di Cava quando si ritrovano dipendendi dalla Chiesa di San Giovanni del Gualdo, facendo nascere un Casale di Cassano nelle stesse terre abitate già da prima, e dipendenti dal Castellione, cioè a Serra Campi e Maionis.
In una seconda pergamena del 1184, quando Riccardo de Aquino Conte di Acerra conferma la conquista normanna in territorio di Re Guglielmo di Sicilia, abbiamo la certezza che la donazione del Casale Cassani fu fatta dai feudatari di Montelle a San Giovanni de Gualdo.

Cassano, Montella ed altri feudi, conquistati dagli Svevi, furono fatti ricadere nella giurisdizione del Castello imperiale di Giffoni (Sa) con il titolo di Universitas.
L’Amministrazione Comunale dell’Università di Cassano nacque quindi sotto Federico II ed era affidata ad un Procuratore, l’unica personalità giuridica delle Università.
Nel 1240 Cassano, Volturara, Montella, Bagnoli, Nusco, Appido, Baiano e Serino sicuramente erano già stati trasformati in Università e possedevano in bene demaniale gli ex territori normanni dai quali si esigevano tutti i diritti sugli usi civici propri, non mancando già all’epoca le prime contese con i nuovi feudatari a cui gli Svevi avevano concesso parte dei vecchi feudi o nuovi territori infeudati.
Al periodo Svevo risalirebbe infatti la prima lite fra Montella e Cassano sugli usi e la proprietà demaniale e la vertenza del feudatario di Montemarano, Giovanni de Lagonessa, che pretendeva la restituzione del territorio denominato Sava, poi Dragone, dalla Università per privilegio curiale. Un’altra citazione riguarda il feudatario Tommaso I de Aquino, Conte di Acerra. E’ del 1239-40, quando l’Università del Casale di Cassano e quelle vicine, furono obbligate a ricostruisce a proprie spese il Castello imperiale svevo che aveva giurisdizione sulla zona perchè distrutto durante la guerra, cioè il Castra Exempta di Gifoni.

La presenza del procuratore del Castello Imperiale di Giffoni indica la gestione delle terre dell’Università di Cassano con l’esazione di un tributo da versare alle casse statali.
L’Università, già da allora, pagava infatti alla Casa Sveva una tassa in base alle famiglie, la tassa sui fuochi, numerata in 24 unità, come risulta ai tempi di Corradino di Svevia nel 1268.
Ma la dichiarazione pare non corrispose al vero in quanto l’Università dovette pagare la multa di 1 augustale, pari a 15 carlini per ogni fuoco, la nuova moneta introdotta dagli Angiaini, relativamente ai mesi di settembre ed ottobre. Somma versata nel 1272 al Giustiziere di Principato e Terra Beneventana dai primi sindaci di cui si ha notizia, Giovanni Mangiacervo e Pietro De Giovanni. Anche se nel 1275 il Giustiziere pretendeva altri 360 carlini, cioè 24 augustali contabilizzati in 6 once, ma l’Università mostrò ricevuta di avvenuto pagamento da un triennio (In Scandone, op.cit., Docc.4, 8, 12).
E’ cioè una tassa incamerata dall’Università che colpiva le famiglie soggette a lavorare le terre della chiesa di San Giovanni de Gualdo tenuta al pagamento. Conteggi dai quali i contadini, servi della chiesa, probabilmente erano anche esclusi, essendo servi, quindi bene della chiesa a cui toccava praticamente rendere conto al Procuratore.

Con la conquista di Re Carlo d’Angiò il primo provvedimento fu quello di confermare la tassa sui fuochi, che si disse tassa per la Spesa di Generale Sovvenzione dello Stato, e pagata da ogni provincia che la ripartiva in base alle università, che, a loro volta, la facevano ricadere sulle famiglie. Soldi che servivano anche per la repressione del brigantaggio, per la coniazione e la distribuzione dei carlini d’argento fatti coniare da Re Carlo I, che andarono a sostituirsi agli augustali coniati da Federico Augusto Imperatore, per la costruzione delle navi necessarie contro l’insurrezione dei Vespri. Il De Fucularibus, così si chiamò, era pari ad 1 augustale al mese. Cassano ne doveva pagare per armare 6 uomini, Avellino per 20. La tassa sarà stabilita definitavamente in occasione dell’assedio di Lucera da parte di Re Carlo che aveva obbligato le Università a fornire soldati in proporzione al numero dei fuochi oppure a versare la somma in danaro se non possedeva, come nel caso di Cassano, uomini adatti.
Nel 1270, con un altro provvedimento, Re Carlo I ordinava al Principato Ultra di pagare un’altra tassa, il Baiulo, a Roberto Malerba, addetto alla vigilanza delle strade, compreso il bivio fra la Via Antiqua Campanina e la Via Saba Major. Nei documenti angioni si parla solo della Strata, quella lastricata proveniente dall’Avellano, perchè è scritto da Montis Fortis propre Cimiterium, usque Atripaldum strata Atripaldi per viam qua itur Guardiam Longombardorum per frontem S.Lucia, cioè Strata Atripualdi, qua itur Guardia Lombardorum per Pontem S.Lucia; et a Ponte de Nusco, usque Guardiam et a Guardia per viam S.Leonardi usque Ufidum et Melfiam, citata anche come la Saba Maioris a Sereno usque ad Pontem Nuski, che passava per la Valle del Dragone in direzione di Ponteromito, facendo infatti intedere che Sereno, Guardia e Ponte Santa Lucia erano proprio nello stesso circondario del Ponte di Nusco.
La strada insomma che si sarebbe chiamata Via Cupa, cioè Via Romana, proveniente da Atripalda, passante per il Dragone di Volturara, saliva a Bolofano e scendeva al Ponte di Cassano (Riziero Roberto Di Meo, Storia di Volturara Irpina, pag.245, Avellino 1987), proseguendo per Santa Lucia di Sereno.
Nel libro delle Platee angioine, quindi ancora nel 1200, questo tratto di strada collegava in sequenza Melfiam, Ofidum, Oppido, Nuski, Pontem usque Bolifanum, Saba Maiors, accertando quindi che provenisse dalla Cività Sabatrai (o Sabazia) sita sui monti del Turminio, ricadente nel perimetro di Serino.
E’ proprio la strada che collegava Sabazia con la Piana del Dragone che sarebbe passato per lo Vuccolo, salendo per Fontana, alle spalle della frazione Guanni, “nelle carte del Catasto Angioino descritta come strada di Annibale” (Ottaviano De Biase, Serino antica e medioevale, a cura del Comune di Serino, pag.20, nota 18 Libro delle Platee, Archivio Registri Angioini).

Sotto re Carlo la figura del Procuratore fu sostituita con quella di Sindaco, assoggettato al Re, ma tenuto a rendere l’omaggio della Università anche al feudatario prendendosi la responsabilità di pagare in solido gli oneri dovutigli, oltre che l’impegno di ascoltare i testimoni in tutte le inchieste, delle vertenze attinenti le multe, della riparazione del Castello.
Il 6 maggio del 1279 re Carlo I emanò l’ordinanza in cui si obbligavano le Università di Città, Terre e Casali, e di Castelli e Ville a restituire gli ex sigilli ufficiali al Giustiziere della provincia di Principato Ultra perchè dovevano essere distrutti, dichiarando che tutti gli atti pubblici e privati che non erano sottoscritti da giudici, notai e testimoni non erano considerati legali.
La carica del Sindaco non era permanente. Egli veniva eletto dal popolo nell’assemblea annuale convocata dal Giudice e dal Mastrogiurato in origine il 1 settembre di ogni anno, data in cui cominciava l’anno amministrativo fino al 31 agosto dell’anno dopo, il tutto registrato da un Notaro. Al Sindaco toccava poi sbrigare le questioni che regolavano il buon andamento del governo delle Università che quindi fu retta da funzionari locali.
I primi di cui si ha notizia sono il Giudice (per la giustizia) Roberto de Marini e il Mastro Giurato (per la polizia) Marco de Cassano del 1272, il cui Notaro era Ruggiero di MaestroNicola (per la redazione degli atti).
Il peso maggiore restava proprio la spesa per lo Stato.
Nel 1269 l’Università contribuisce per lo stipendio di un uomo a cavallo pari ad un’oncia d’oro e 15 tarì al mese (Reg.Ang. 6, f.54), nel 1272 sempre per la Generale Sovvenzione da pagarsi alla Regia Corte pari a 7 once e 18 tarì. (Reg.Ang. 207, f.69) nelle mani del giustiziere Gualtiero di Collepetrano da Giovanni Mangiacervo e Pietro de Giovanni (Reg.Ang. 21, f.245), i due sindaci di quell’anno (in Scandone, op.cit.).
Dopo il 1270 Cassano appartenne alla Contea Acerrara e contribuì a pagare le tasse statali, da quella sulla nuova moneta, sull’adoa del servizio militare, sui balestrieri in guerra. Mentre l’Università si dotava in proprio di altri piccoli servizi da caricare sui cittadini, come lo stipendio per il luparo.
Nel 1271 risulta ancora come feudo del Conte di Acerra, Adenolfo de Aquino, che riscuote la sovvenzione dai suoi vassalli di Montellae, Nusci, Balneoli, Cassani, etc (Reg.Ang. 42, f.25).
Nel 1276 bisognava contribuire alla tassa per la coniazione della nuova moneta di carlini d’argento con 2 once e 22 tarì e grana 17 (Reg.Ang. 29, f.255).
Nel 1278 l’Università assume i lupari per difendersi dai lupi (Reg.Ang. 1, f.70): Giacomo de Cassano e Guglielmo de Nusco, chiamati per uccidere con la polvere i lupi che infestavano le Regie Foreste.
Nel 1281 compare la tassa sull’adoha, il servizio militare dovuta dall’Università, col permesso del Giustiziere di P.U., al suffeudatario Gubitosa de Aquino, figlia del Conte Tommaso de Aquino, abitante nel Castello di Cassano, che a sua volta doveva renderla al fratello feudatario Adenolfo di Aquino Comite Acerrarum, e l’addizionale alla Generale Sovvenzione (Reg. Ang. 42, f. 35t e 25). Con l’arresto di Adenolfo, nel 1286, le rendite feudali risultano essere le 3 once dovute per il molino, le 4 once dalla bagliva, le 2 once dal battinderio che Scandone traduce in gualchiera (Fascicolo Angioino, XCII, f.192).
Nel 1292 Cassano e Bagnoli dovettero contribuire alla spesa per 8 balestrieri in quanto inserite nel largo raggio delle università che dovevano provvedere per lo stipendio degli uomini impegnati a respingere i Siculi-Aragonesi che avevano occupato e fortificato Castellabate (Reg.Ang.12, f.218-222).

Il 23 dicembre del 1293, condannato a morte per tradimento, al conte Acerrano, Adenolfo de Aquino, fu confiscata l’antica Contea di Acerra con le dipendenze e concessa da Carlo II Angiò al quartogenito Filippo creato Principe di Tarento, esclusi i feudi di Montella, Nusco, Bagnoli e Volturara; Cassano restava infatti a Gubitosa de Aquino (Reg.Ang. 10, f.90) che tenne il suffeudo con tutte le giurisdizioni e pertinenze sotto la signoria di Filippo principe Tarentino, al punto da non essere molestata neppure dal Giustiziere di P.U. (Reg.Ang. 66, f.230).
Restituito alla Regia Corte dal Principe di Tarento, con riserva dell’Alta Signoria, il suffeudo di Casalis Cassani propre Montella fu affidato al milite o cavalier Tommaso di San Giorgio che ogni anno dovrà prestare il servizio militare pari a 20 once (Reg.Ang. 168, f.125), tenuta venduta a Filippo de Ioinville, Conte di Sant’Angelo dei Lombardi, con regio assenso del 18 maggio 1313 con il rituale giuramento di assicurazione da parte dell’Università (Reg.Ang.199, f.233), seguito da altro regio assenso del 18 ottobre 1315 per la vendita a Ventura de Napoli (reg.Ang. 205, f.15 t).
Cassano comunque finì come bene feudale dell’Alta Signoria nella dote della Contea d’Acerra portata dal Principe di Tarento alla seconda moglie Caterina di Valois (Reg. Ang. 228, f.82). Questo mentre il feudo restava nelle mani del Conte di Sant’Angelo e i benefici ecclesiastici di Santa Maria La Longa e San Pietro di Cassano della diocesi di Nusco nelle mani del chierico Angelo Nicolai di Montella (Reg. Ang. 252, f.444).
Nel 1332 il Principe di Tarento Filippo I conferma, a nome della consorte, il giustizierato e vicariato generale della Contea di Acerra, Sarni, Montelle, Cassani e Guardie Lombardorum (Pergamene dei monasteri soppressi, vol.37, n.3126, in Scandone, op.cit.). Illustrissimo principe Tarentino invitato nel 1338, come altri baroni, a prestare servizio militare anche per Montella e Cassano dal luogotenente di Ruggiero, Conte di Sangineto, Giustiziere di P.U. (In C.De Lellis, Notamenti, vol. XI, p. 844, ex arca K. (mazzo di pergamene) 32, n. 28).
Nel 1345, con l’ascesa della Regina Giovanna I viene concessa ai fratelli cugini Filippo II Principe di Tarento e Luigi, le somme dovute per la Generale Sovvenzione fra cui le 7 once, 23 tarì e 7 grane pagate dall’Università di Cassano. Territorio che nel 1042 Re Ladislao definisce in demaino, ma sempre soggetto a pagare la colletta statale come terra del Conte di Sant’Angelo Lombardi nonostante il beneficio regio della diminizione (Reg. Ang. 349, f.235; Ex Reg.Ang. 1404, f.25), come riportato dallo Scandone (in Scandone, op.cit.)
Bagnoli, Montella e Cassano furono poi sottratti al territorio regio verso la metà del 1441 e dati in dominio del Conte Francesco Sforza marito di Polissena Ruffo e, nel 1445, venduti dallo stesso re col patto di ricompra a Garsia Cavaniglia (Processi Antichi della Sommaria, vol.383, n.4532).
Alta signoria sui feudi riconosciuta poi dal Re in favore di Rinaldo Caracciolo, secondogenito del Conte di Sant’Angelo dei Lombardi (Cancelleria Aragonese, privilegiorum, vol.5, f.217).

I Cassanesi del 1476, come denunciava l’Università nel 1 maggio, per sottrarsi al pagamento delle tasse, cercarono di donare i propri beni a fratelli o figli chierici, ma l’esenzione valeva solo per i beni ereditari, mentre Franceschetto era proprio emigrato a Torella dove aveva aperto una bottega (ASN, Partium Summariae, vol.17, f.139).
Ma, non per questo, i cittadini bonatenenti della Terra Cassani in Civitatatis Nusco, non furono intimati al pagamento della Bona Burgensatica sui territori ivi poseduti per effetto di una sentenza del 16 febbraio del 1475 (Comune Summariae, vol. 33, fol.241 t).
Fu invece ordinato al Percettore di P.U. di non molestare l’Università di Cassano per il pagamento del terzo di agosto dei fiscali, perchè il re l’aveva condonato a causa della passata guerra contro i baroni che avevano aderito a Carlo VIII contro Alfono II e Ferdinando II (in Scandone, L’Alta Valle, vol. IV, Aggiunte, parte I, n.20, pag.290).
Da qui cominciò l’indebitamento, al punto che, nel 1482, il tesoriere generale del regno comunicava che il credito dell’Università per alcune partite di sale non veniva concesso perchè doveva servire a pagare alcune partite arretrate di pagamenti fiscali (PS, vol.19, f.18 t), ed altri provvedimenti seguirono dopo la Congiura dei Baroni nel 1488 (PS, vol.29, f.22 t), anche se ne seguì il regio assenso alle Capitolazioni e grzie concesse in nome del minorenne feudatario Conte Troiano I Cavaniglia all’Univeristà di Cassano (Cancelleria Aragonese, Privilegiorum, vol.I, f.20), seguita, nel 1494, dalla conferma del possesso, a lui Conte di Montella e suoi eredi, delle terre di Montella, Bagnoli, Cassano e Agliara (Ogliara) in Principato Ultra (I.Mazzoleni, Regesto della Cancelleria Aragoinese, Napoli 1951, n.978, p.148).
Altre volte è capitato che l’Università fosse anche rimborsata, come per la somma di 6 ducati, 4 tarì e 10 grane spese per l’invio di vettovaglie alla compagnia spagnuola del capitano Scalada inviata a Nusco nel 1503 (PS, vol.53, f.26).
Scomputo sui fiscali anche per una polizza del capitano Suarez de Ripa de Mal e di Alfonso Torres suo algozino per le spese di alloggiamento del 1505 pari a 118 ducati,4,18 e 1/2. Nel 1511 si chiedeva la franchigia di tutti i pagamenti ordinari e straordinari per Donato de Vedola padre di 12 figli (PS, vol.97, f.110 e vol.82, f.45).
Non pagava fiscali chi per esempio si donava alla chiesa. E’ il caso di Francesco Cirpolo di Cassano che nel 1518 reclamava contro la sua Università che pretendeva che egli pagasse i fiscali mentre con istrumento dell’8 agosto del 1512 dimostrava che si era offerto a San Francesco a Folloni con persona e beni. Pertanto si ordinava al capitano di Montella di far desistere dalle molestie (PS, vol.99, f.130) l’università di Cassano (in Scandone, op.cit.).

Dettagli

EAN

9788872970133

ISBN

887297013X

Pagine

96

Autore

Barbato,

Cuttrera

Editore

ABE Napoli

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Editorial Review

Cervinara a ritroso nel tempo: il 1800

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L'arrivo dei Francesi significò l'abolizione della feudalità, delle Università e la nascita del Municipio, con degli Eletti ed un sindaco alla guida dell'amministrazione. Non mancarono le liti presso la Commissione feudale tra ex feudatario, Comune e privati cittadini per il pagamento di tasse e diritti spesso finiti in disuso.
Ritornati i Borboni, anche i cittadini di Cervinara si sentirono in dovere di partecipare ai moti del 1820-21 e a quelli del 1848, dando un valido contributo all'Unità d'Italia. Un servizio alla giusta causa offerto anche dopo, per la cattura delle più tremende bande guidate dai briganti Cipriano La Gala, Andrea Masi e Tommaso Romano che per molti anni avevano saccheggiato e depredato l'intera Valle Caudina.
Il paese era cresciuto, culturalmente e praticamente, divenendo capoluogo di Circondario della provincia di Avellino e arrivando a contare, a metà del 1800, oltre 7500 abitanti, fino a raggiungere numero 9.000 verso la fine del secolo scorso. Che cosa abbiano fatto i Consiglieri Provinciali del Mandamento di Cervinara, del quale Cervinara faceva parte, che si sono succeduti dal 1861 al 1901, è difficile dirlo. Sappiamo però che anche Cervinara era tenuto in considerazione dall'avvocato Giovanni Finelli (1861-62), da Alessandro Campanile Cocozza (1862-67), dal cavalier Francesco Del Balzo (1867-71) e dal barone Girolamo Del Balzo (1871-1901).
Molte le mini industrie artigianali di fine ottocento, come quelle rappresentata da Salvatore Cioffi di Pasquale e da altri negozianti vari. Ma vediamo nei particolari gli abitanti di Cervinara che esercitavano arti e professioni. Negozianti di cereali erano Pietrantonio e Raffaele Cioffi fu Sigismondo, Onofrio Cioffi fu Lorenzo, Andrea Caporaso fu Saverio, Raffaele Cioffi fu Domenico, Isidoro e Giuseppe Cioffi di Onofrio, Michele de Dona fu Orazio, Marco de Dona fu Giovanni, Francesco Lanzillo fu Antonio, Antonio Lanzillo fu Francesco e Pasquale Pitaniello fu Carmine.
Facevano parte della categoria dei negozianti di stoffe Antonio e Giacomo Cincotti fu Giuseppe. Negozianti di vino (venduto anche nella cantina di Antonio Cantone fu Pietro) erano Raffaele Milanese fu Angelandrea e Saverio Marro fu Pietro; la neve, pigiata a ghiaccio nelle fosse montane, era invece una specialità di Pasquale Clemente fu Domenico che, dopo averla nascosta sotto le foglie per tutto l'inverno, aspettava i giorni più caldi per rivenderla ai caffè e alle gelaterie del napoletano, oltre che a quelle della Valle Caudina e alla caffetteria cervinarese di Felice Cincotti fu Giuseppe; il sensale autorizzato per situazioni varie era Giuseppe Cioffi fu Domenico.
Diversi i negozianti di legnami, come Filippo Ceccarelli fu Michele e Fortunato Ceccarelli fu Felice che, dopo aver disboscato le montagne lavoravano il legno in maniera artigianale; ricordiamo anche altri venditori come Pasquale Cioffi fu Gregorio, Luciano De Maria fu Felice, Pasquale Fierro fu Giuseppe, francesco Iglio fu Angelo, Pasquale Miele fu Carmine, Giovanni Pagnozzi fu Antonio e Luigi Ricci fu Arcangelo.
Tanti volti, tante storie, tanti mestieri, come l'appaltatore di opere di fabbrica Antonio Bianco fu Stefano, il negozio di formaggi di Andrea Taddeo fu Domenico e l'industria agraria di Nicola Tangredi di Giuseppe. Altre aziende agricole erano quelle di Giovanni de Gregorio fu Vincenzo, Luigi Lengua fu Nicola, Luigi, Nicola e Pasquale Marchese fu Gennaro, Luigi Iacchetta fu Giuseppe, Orazio e Gennaro d'Onofrio fu Giovanni, Stefano Casale di Giuseppe, Raffaele Niro fu Domenico.
Mugnaio del paese era Alessandro Cioffi fu Pasquale; Michele Schettini fu Domenico, il farmacista. Vi erano inoltre Antonio de Maria fu Felice col negozio di coloniali, Pasquale Iacchetta fu Nicola col negozio di spiriti, Francesco Mignuolo fu Pasquale, negoziante di frutti, e Giuseppe Pitaniello di Pasquale, col magazzino di cuoiami.
Di Cervinara conosciamo i nomi degli esercenti l'arte salutare che, nel 1880, risultano essere medici cerusici originari del posto: Gaspare Cecere fu Francesco, Luigi Girardi fu Vincenzo, Clemente Mercaldo fu Francesco, Giambattista De Bellis fu Bernardo, Vincenzo Cecere fu Gaspare, quest'ultimo laureatosi presso la Real Università di Napoli, tra il 1830 e il 1877.
Vi erano poi i quattro farmacisti locali con la cedola: Scipione Madonna fu Domenico, Luigi Cecere fu Gaspare, Paolo Barionovi fu Pietro, Michele Schettini fu Domenico, e la levatrice, sempre col certificato, Anna Ragalzi fu Giambattista, che aveva acquisito cedola universitaria il 27 febbraio 1871.
A quei tempi, diciamo nella seconda metà del 1800, Cervinara, compresi i villaggi di Trescine, Salamoni, Mainolfi, Mizii, Cioffi, Pie' di Casale, Ferrari, Pantanari, San Paolino, Ioffredo, Castello, Valle e Pirozza contava 7147 abitanti.
Il paese era abbastanza grande e commerciava in vini, mele, pere, ortaggi, canape e pioppi, lungo la provinciale Irpina e la San Martino Valle Caudina propriamente detta, oltre che durante il mercato settimanale del mercoledi.
Siamo venuti a conoscenza che, nel gennaio del 1873, la pretura era retta da Teodoro Del Grosso e dal vice Gennaro Baccalone e che cancelliere e vicecancelliere erano rispettivamente Filippo Martini e Francesco De Feo. Alle liti ci pensava invece il giudice conciliatore Pasquale Simeone, assistito dal cancellerie Girolamo Piccolo.
Notizie più approfondite ne abbiamo però solo sugli ultimi anni di fine secolo, a partire dal 1889, allorquando primo cittadino del paese, nonché presidente del Circolo dell'Indipendenza, era Giovanni Barionovi, coadiuvato da Errico Pepicelli nella qualità di segretario e da Luigi De Maria che faceva l'esattore. Gli assessori erano invece Alessandro Pagnozzi, Giacinto Barionovi, Girolamo De Nicolais e Pasquale Simeone. Addirittura sei i parroci: Giuseppe Pisanelli della parrocchia di San Marciano, Pasquale De Dona della parrocchia di San Potito, Vincenzo Barionovi della parrocchia di Sant'Adiutore, Vincenzo Marro della parrocchia di San Gennaro, Angelo Ragucci della parrocchia di San Nicola e Giuseppe Clemente della parrocchia di Santa Maria alla Valle. Giuseppe De Maria era il presidente della Congrega di Carità; ben diciotto, i componenti della famiglia clericale: Mariano, Pietro e Antonio Valente, Pasquale Cecere, Giuseppe De Maria, Michele Dorio, Andrea, Giuseppe, Pasquale e Luigi Bove, Francesco Barionovi, Francesco Bianco, Zaccheria Clemente, Francesco De Nicolais, Antonio Cioffi, Nicola Simenone, Raffaele e Vincenzo Cioffi.
Pare che gli oltre 7.000 cervinaresi dell'epoca mandassero fra i banchi quasi 800 alunni, dislocati nelle 8 scuole elementari, sotto la guida degli insegnanti Nicola Simeone, Antonio Valente, Francesco Mainolfi, Francesco Bianco, Carmela ed Elisabetta Cavaccini, Blandina Cioffi e Teresa Iuliano. Erano i tempi in cui ai vecchi medici andò ad aggiungersi il chirurgo condottato Pietro De Nicolais e una nuova levatrice nella persona di Filomena Viggiano.
Nella schiera dei professionisti laureati figuravano - oltre gli ingegneri Saverio Rossi e Luigi De Nicolais, il medico chirurgo condottato Giuseppe Ferrannini e la levatrice condottata Coletta Palma - gli avvocati Francesco Cecere, Giovanni Bruno, Nicola Mendozza, Gennaro Boccalone e Angelo Maietta; i farmacisti Luigi Cecere, Giuseppe Boccalone, Scipione Madonna; gli altri medici-chirurghi Clemente Mercaldo, Luigi Girardi e Vincenzo Cecere.
Giovanna Mignuolo e Antonio Iuliano erano gli albergatori del paese che offrivano un posto per pernottare. Gennaro Sorice, Giuseppe Crispino e Marco Marro si davano da fare con le armi, nella vendita e negli aggiusti. Francesco, Giuseppe e Domenico Cioffi, Girolamo Marro, Michele Villacci e Antonio Mauriello costruivano botti. Giuseppe Cioffi, Francesco, Giovanni e Ferdinando Pitaniello, Luigi Cappabianca e Francesco Fuccio facevano i barbieri. Nei loro saloni, qualche volta, si presentavano a perdicchiare tempo i tanti artigiani, dopo un buon caffè gustato da Mariantonio Cincotti oppure nelle altre caffetterie, cioè da Raffaele De Notaris, Lucia De Girolamo e Felice Cincotti. Di fama, non solo locale, erano i proprietari di cave di pietra Giuseppe Visconti, Francesco Ricci, Nicola Visconti e Vincenzo Simeone; questi ultimi due, insieme a Domenico Simeone, andavano alla ricerca delle venature più estrose per lavorare la pietra e il marmo secondo antica tradizione.
Dicevamo degli artigiani. Possiamo ricordare i capimastri muratori (Antonio Bianco, Antuono, Gaspare e Giambattista Mercaldo, Angelantonio e Pasquale Gervasi), la schiera dei calzolai (Domenico D'Agostino, Domenico Cioffi, Arcangelo Moscatiello, Berardino Iuliano, Michele e Giuseppe Pitaniello, Alfonso e Orazio Miele), i cappellai (Raffaele Ippolito, Luigi Cappabianca e Francesco Ricci), i commercianti in genere di moda Emilia Candela, Concetta Brevetti, Mariantonia Mercaldo, Nicola Caniello, Luigi Cappabianca, Giacomo e Antonio Cincotti; del commissionario Girolamo Piccolo e i droghieri Pasquale e Luigi Cioffi. Non possiamo qui dimenticare i fabbricatori di stoffe e di tele Marianna De Simone e Carmela D'Onofrio, Filomena Valente e Maria Cioffi; di cera, come Pasquale Telaro, e quelli di mobili Angelantonio Marro, Giuseppe Fierro, Pasquale e Luigi Perrotta, e Domenico Cioffi. Vendevano mattoni e stoviglie Giovanni e Raffaele Niro; Matteo De Dona, Lorenzo Cioffi, Saverio e Andrea Caporaso erano negozianti in olii; da non dimenticare quelli di tessuti Antonio e Giacomo Cincotti, Nicola Caniello, Concetta Brevetti, Emilia Candela e quelli di legnami, Pasquale e Luigi Perrotta, Domenico Mercaldo e Girolamo Marro. Due i fabbricanti di sedie, Agostino Miele e Pasquale Ricci, e uno quello di gassose, Antonio De Maria.
Anche se quasi ogni famiglia allevava in casa il maiale o degli agnelli, vi erano comunque i beccai Antonio Iuliano, Pasquale, Giovanni e Raffaele Cappabianca, Andrea Iuliano e Francesco Fucci che "sfasciavano" la carne, oltre i mugnai Angelantonio e Pasquale Mastone, Alessandro Cioffi, Pasquale Moscatiello, Giovanni e Vincenzo Befi, i panettieri, Onofrio Cioffi, Raffaele De Dona, Giuseppe e Raffaele Cioffi, e i negozianti in grani e farine Pietrantonio Cioffi, Luigi Lanzilli e Giuseppe e Raffaele Cioffi; ai vini ci pensava invece Raffaele Milanese. La frutta toccava a Pasquale Moscatiello e Pasquale Taddeo; e tre erano le fruttaiuole: Rosa Pitaniello, Angelamaria D'Agostino e Carmela D'Onofrio.
Ancora i fabbri-ferrai Giovanni e Diodato Ricci, e Lorenzo, Pasquale e Gregorio Brevetti, al pari dei falegnami Raffaele Cincotti, Raffaele Mauriello, Antonio Cioffi, Carlo e Stefano Bianco, Antonio Mauriello e Giuseppe Villacci. E i sensali: Nicola e Giuseppe Cioffi, Giuseppe Esposito, Luigi Celentano, Ferdinando Villacci, Giuseppe Simeone, Pietro Stellato, Carminantonio Finelli e Antonio Lanzilli.
E che dire degli orologiai Giuseppe e Francesco Cioffi, del pittore di stanze Nicola Esposito, dei fuochisti pirotecnici Carmine Leone e Francesco Starace; dei sarti Luigi Ricci, Giuseppe Russo, Carlo e Francesco Ricci e Vincenzo Vassallo; gli speziali manuali Giuseppe Tagliaferri e Antonio De Maria. Vi erano poi i venditori di generi diveri Giacomo e Antonio Cincotti; quelli di cuoiami Lorenzo Cioffi e Vincenzo Pitaliello. Nomi e cognomi che ricorrono tutt'oggi.
Un fiaschetto di vino lo si poteva trovare nelle trattorie, da Clemente Taddeo e Giovanni Mignuolo, o dai bettolieri, Fortunato Cappabianca, Giovanni Telaro, Luigi, Gabriele e Clemente Taddeo, accompagnato o meno da un nostrano piatto caldo. Per chiudere poi il pranzetto, più o meno leggero, bastava un buon sigaro da comprare in uno dei vari tabacchini. Giuseppe Cioffi, donna Carmela Vele, Nicola Moscatiello, Giuseppe Ricci, Giovannantonio D'Onofrio o Francesco Ruggiero conoscevano bene "tabacchi" e "pacchetti".
Al progresso civile ed economico di Cervinara contribuirono, nei primi anni del 1900, la costruzione della ferrovia Benevento-Cancello, la realizzazione di un acquedotto locale e la nascita di una centrale elettrica.
Il nuovo secolo si era aperto senza grandi cambiamenti nella vita politica e amministrativa di Cervinara: i possidenti mantenevano le loro proprietà; i contadini, servendosi delle proprie braccia, si affacciavano al mondo con la speranza di sempre. Continuavano a dividere il raccolto con i proprietari, a portargli i capponi nelle ricorrenze civili e religiose, riuscendo a stento a mettere da parte i pochi risparmi che certo non sarebbero bastati ad acquistare terreni, ma a dare vita a quel triste fenomeno che è l'emigrazione. Pur tuttavia, qualcuno, spostatosi verso il borgo, riuscì a mettere in piedi un'attività artigianale. Il rimanente basso ceto, i figli dei braccianti, dei giornalieri, degli artigiani, nonché qualche sporadico possidente, scelsero però nell'emigrazione la soluzione più giusta ai propri problemi.
Alcuni avevano preferito abbandonare la vita rurale già alla fine del secolo scorso, in vista di più facili e immediati guadagni oltreoceano. Chi c'era stato, e aveva fatto "fortuna", anche come scaricatore di porto o come minatore, era ritornato diffondendo tra il popolo l'immagine di un'America ricca e florida. Seguendo le orme di quegli "avventurieri" imbarcatisi al porto di Napoli, si partì sempre più spesso, sperando nella stessa fortuna. Ma l'imminente scoppio della Prima Guerra Mondiale richiese quelle braccia al fronte: la grande emigrazione era rimandata. Molti cervinaresi non fecero più ritorno. Poveri soldati come Amatiello, Befi, Bizzarro, Bove, Buccieri, Campana, Calabrese, Garofalo, Ceccarelli, Cerasuolo ed un altro centinaio, come risulta dall'elenco ufficiale dell'Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi di Guerra, non fecero più ritorno. I reduci si ritrovarono nuovamente nei campi, stavolta incolti. Anche i vecchi capivano: la campagna non poteva continuare a dare, ai loro figli, ciò di cui essi si erano accontentati. L'indelebile marchio del "servo della terra" doveva scomparire; la guerra aveva riaperto le speranze: gli stenti erano abrogati. Si sentiva il bisogno di una vita diversa, in direzione di Napoli, oppure, della cara vecchia America. Più di 4 milioni di italiani entrarono negli Stati Uniti nei decenni a cavallo del secolo. Sono contadini del Mezzogiorno, inseriti d'impatto nel processo di sviluppo industriale americano di quegli anni.
Quasi un terzo di essi si stabilirono a New York, diventa quasi una grande città "italiana". E' un'altra piccola Italia, la Little Italy. Fu questo uno dei motivi che spinsero il governo degli Usa ad emanare delle leggi restrittive, impedendo l'ingresso agli analfabeti di razza bianca, riducendo gli italiani ammessi ogni anno a 3.845 unità contro i 409.239 che si erano recati in America nel 1920 procurando un dissesto nell'equilibrio demografico della regione Campania.
Avellino era l'unico centro della provincia a superare i 10.000 abitanti tra il '21 ed il '31. Anche Cervinara diede il suo contributo. Ma quanti degli oltre 200 cervinaresi che nel 1930 ancora restavano in contatto col paese natio fecero fortuna? Potremmo parlare di Gaetano e Antonio Clemente, Antonio e Pasquale Sorge, Antonio Martone, Onorio Ruotolo, del dottor Salvatore Brevetti, di Antonio Mercaldi, Antonio Leparulo, Ferdinando De Dona, Carmine Russo, Nicola Villacci, Alberto Milanese, Carmine Clemente, degli Onor Prisco e Nicola Vecchione. Ma gli altri fecero veramente fortuna? Addirittura c'è chi sottoscrisse somme per il monumento da erigersi nella piazza di Cervinara e mai pagò, forse per miseria, forse per errore, forse per dispetto. Gente come Carmine Buccieri, Salvatore Brevetti, Angelo Cillo, Emilio, Raffaele e Giuseppe Cioffi, Domenico Cappabianca, Pasquale del Balzo, Francesco D'Agostino, Giovanni Finelli, Francesco Formato, Luigi e Andrea Iuliano, Francesco Lippoli, Domenico e Francesco Mercaldo, Giuseppe Madonna, Pasquale Taddeo, Orazio Vaccarelli, Antonio Zucale, la signora e la signorina Villacci. Con quest'ultima famiglia dovette accadere qualche diverbio di cui nulla sappiamo se è vero che Nicola Villacci, tempo addietro, aveva offerto ben 900 dollari (verdoni americani del 1930) che mai sborsò alla giusta causa. "Molti in Italia o in Europa", scriveva il Cavaliere Gaetano Clemente, "hanno la convinzione che l'America è la terra dell'oro; è la terra dove si inciampa contro la ricchezza e che per divenire ricco basta semplicemente volerlo-sogni chimerici!". Chissà quanti cervinaresi, intrepresa una carriera e gettatisi negli affari, fecero marcia indietro, "ritirandosi scoraggiati dopo averci rimesso del tempo prezioso per lanciare la loro impresa e soprattutto dopo avere assorbito fino all'ultimo soldo che avevano messo da parte a furia di stenti e privazioni". Il Cavaliere Clemente scrisse che i suoi primi affari furono di una meschinità unica. Lui non pensava classicamente "Quello che non guadagno finanziariamente adesso lo guadagno in cognizioni che domani mi daranno quello che rimetto oggi". Che tradotto in dollaroni, pardon, in soldoni, significa che o guadagni da subito o cambi mestiere. Nato a Cervinara nel 1865, si può dire che Gateno Clemente, alla stregua dei fratelli Palermo, fu il cervinarese più fortunato d'America. Emigrato nel 1902, dopo aver sperimentato le proprie capacità con i primi lavori stradali in Valle Caudina, cercò subito qualcosa da fare a più ampio respiro, fino a farsi un nome nell'ambiente edilizio e arrivando a fondare la Clemente Contracting Company del Bronx, una ditta che, prima di espandersi, si occupava appena di escavazioni e di costruzioni, realizzando tunnels e fondamenta sull'isola di Manhattan. Fra le opere più importanti ricordiamo gli edifici che formarono il più grande Medical Centre del mondo a Washington Height dove sventolò alto il tricolore, oltre alcune strade newyorkesi alle quali furono dati i nomi dei due illustri connazionali Casanova e Barretto. Il Cavaliere impiegava solo mano d'opera italiana. Un uomo che si fece da sé: un vero ed autentico "self-made man". Altre opere del suo ingegno furono il Polyclinic Hospital, alcuni edifici della Fordham University ed altri edifici importanti, contribuendo anche all'erezione e al mantenimento della Casa Italiana di Cultura presso la Columbia University, elargendo inoltre somme per ospedali e chiese. Ed a lui si deve anche l'erezione del monumento ai 100 caduti della Grande Guerra, per esclusiva contribuzione dei cervinaresi d'America, ricevendo medaglia d'Oro alla esposizione e Fiera Campionaria di Tripoli, sotto l'alto patronato di Benito Mussolini.
Egli si recherà a Cervinara per inaugurare personalmente il monumento ai caduti eroici, opera di grande valore ideata e scolpita da un mago dell'arte, anch'egli cervinarese, popolarissimo all'epoca, Onofrio Ruotolo. Clemente, insomma si circondò sempre di cervinaresi, come nel caso di Carmine Clemente, presidente della Clemente Brothers, e Antonio Mercaldi, che raccolse i fondi per il monumento nel banchetto del giugno 1927, nella Lotteria, nel Concerto e Ballo del 1928, alla festa di San Clemente, nella pubblicazione di un "souvenir". Il monumento che ancora vediamo nella piazza di Cervinara fu inaugurato il 17 agosto 1930, con un solo pensiero "clemen-tiano" rivolto agli orfani: "Vivere pericolosamente - abbiate fede in quello che fate ed il successo sarà vostro". Fra quegli eroi ricordiamo: il maggiore di fanteria Michele De Dona, ch'ebbe medaglia d'argento l'11 aprile del 1918 per aver dato l'assalto ad una posizione avversaria difesa da mitragliatrici e fucilieri il 25 agosto del 1927 a Tolmino; il sottotenente Giuseppe De Maria, medaglia di bronzo alla memoria; e i soldati Pietro Ferraro e Giovanni Girardi, anch'essi medagliati col bronzo.
I cervinaresi d'America, a dire il vero, sono stati sempre uniti. Fin dal 1915 avevano scritto un'altra pagina di patriottismo e di fratellanza, organizzando la Loggia Cervinara Valle Caudina del grande Ordine Figli d'Italia in America, grazie ad Antonio Mercaldi, Michele Battuello e Luigi Moscatiello che aggregarono consensi nel Circolo Educativo Cervinara, dove i compaesani si riunivano quotidianamente. Un circolo con a presidente Mercaldi, a vice Arcangelo Ricci, Pasquale Moscatiello a segretario; Domenico Cappabianca era il cassiere, Antonio Martone il provveditore (detto Zì Totonno), Giuseppe Moscatiello e Giuseppe Cioffi, i curatori. Una Loggia di tutto rispetto con il venerabile Vincenzo Baldini, l'assistente Silvio Rosati, l'ex venerabile Pellegrino Moscatiello, l'oratore Luigi Moscatiello, i segretari Andrea Bello e Otello Rapini, i curatori Michele Battuello, Raffaele e Daniele Ricci, Francesco Formato e Antonio Fogliani, i cerimonieri Luigi Battuello e Florio Stumpo, la sentinella Felice Cataldo e il medico sociale Salvatore Brevetti.
Chiudiamo questa parentesi ricordando che lo stemma del Comune di Cervinara è costituito da un cervo su tre cime ed una stella cometa all'interno di una cornice di papiro, con sottostanti rametti di alloro e di quercia legati da un nastro con sopra una corona costituita da cinque torri unite.
Il gonfalone del Comune è di colore blu e reca al centro lo stemma ed in alto la scritta "Comune di Cervinara", completandosi con un nastro tricolore annodato al di sotto del puntale.
Il Comune ha beni demaniali e beni patrimoniali come da apposito inventario, regolando gli usi civici da apposite leggi speciali.
Il Comune fonda la propria azione sui principi di libertà, di uguaglianza, di solidarietà e di giustizia e concorre a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che ne limitano la realizzazione. Negli ultimi due articoli dell'atto municipale è detto che Cervinara "concorre a promuovere e conseguire il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione politica, economica, sociale, e culturale del paese all'organizzazione politica, economica, sociale e culturale" e che inoltre il comune "garantisce la partecipazione delle formazioni sociali nelle quali si realizza la personalità umana, sostiene il libero svolgimento della vita sociale dei gruppi, delle istituzioni della comunità locale e favorisce lo sviluppo delle associazioni democratiche".
In una descrizione dell'anno 1532 già si leggeva che "la Terra di Cervinara si trova situata a lato del monte Pizzone", che ha piena giurisdizione su tutti i Casali,che sono undici, disposti a mo' di triangolo. Si tratta, come abbiamo visto, dei Casali di Pirozza, Curielli, Scalamoni, Ferrari, Joffredo e Castello a monte; Salamoni, San Marciano, Trìscine, Pantanari e Valle, verso la pianura.
Ma è tempo di lasciarvi solo a nomi, cognomi, età, degli abitanti del 1700, dei mestieri, delle strade e delle chiese, tratte direttamente dai dati ufficiali e quindi senza manipolazioni di alcuni.