42. Durazzano (Bn). Quattro passi nella storia del nuovo Sannio

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Copertina posteriore

UN PAESE DI STORIA E PATRIOTI

 

 

 

C’è un martire, nato a Durazzano, uno dei centri dell’entroterra campano in cui venivano piantati gli alberi della libertà. E’ la straordinaria figura di un patriota, figlio di questo piccolo paese della provincia di Benevento, immolato per la Patria.
E’ Nicola Mazzola. Raramente menzionato dalla storia della Rivoluzione napoletana, fu uno dei 122 (42) messi a morte per l’amore che portarono alla libertà.
Annoverato come “martire della Repubblica Napoletana”, seguace dei moderati Mario Pagano e Ignazio Ciaia, come scrive Caporuscio (43) in un precedente volume da noi pubblicato, Mazzola, accusato di essere “sventato di testa e di mal costumato”, confluì a nozze con la cugina Maddalena Cice che gli diede ben sette figli ed esercitò l’attività di notaio. Già nel 1794 era stato incarcerato con l’accusa di procacciare testimoni, al fine di indurli a dire il falso per salvare i “detenuti della congiura giacobina” che “mirava alla distruzione della famiglia reale e all’istituzione di un governo democratico”. L’eroe di Durazzano, all’inizio della rivoluzione andò incontro alla “falangi repubblicane” presso il campo di Calvi, avendo preparato per loro pane, vino ed altro “per la prima giornata”.
Il 12 gennaio 1799 partecipò all’assedio di Capua e il 22, “con le armi alla mano”, fu pronto all’assalto di Porta Capuana. Carlo Lauberg, radicale e vero giacobino napoletano e presidente provvisorio della Repubblica napoletana, lo nominò commissario di molti paesi del Principato Ultra, mansione che esercitò prima di tutto a Durazzano “ove alzò l’albero della libertà” tra gli applausi della comunità durazzanese che gridava “viva la libertà, viva la Repubblica Napoletana. Muiano i tiranni”.
La storiografia ufficiale parla di rivoluzione degli intellettuali senza seguito di popolo. E’ vero. Questo episodio di Durazzano, assieme ad altri verificatesi in diversi centri, fa però capire nel contempo che la popolazione di tanti piccoli e grandi centri campani era pienamente partecipe all’ideale di libertà della Rivoluzione napoletana. Lo studioso Caporuscio ha già dimostrato, con documenti inoppugnabili, che il popolo, quello sano dei villaggi e delle campagne, a differenza della plebe napoletana o delle orde del cardinale Ruffo, vedeva nella rivoluzione giacobina come la liberazione dal potere tirannico dei Borbone.
Il martire di Durazzano pubblicò anche sei numeri dello Spettatore Napoletano per far sapere a tutti, “senza alterazione alcuna gli avvenimenti del giorno”. Era un giornale “diligente” che riportava notizia delle vicende patrie ed estere e aveva come emblema la “verità”; un giornale in cui si sentono i fremiti della desiderata libertà politica. Per Mazzola nessuno doveva “imbrattarsi le mani del sangue dei loro traviati fratelli” da condurre “alla pace” con “moderazione” e “virtù”. Era questa, come acutamente evidenzia Caporuscio, la stessa linea seguita dal “Monitore” di Pimentel Fonseca. Certo, è questa la strada maestra, ma essa non esclude “il terrore e il flagello” quando il “male prende una cattiva piega” e Mazzola combatté al Ponte della Maddalena, dove gli insorti furono definitivamente sconfitti. Al finire degli scontri, rifugiatosi sulla cima di un colle di Durazzano, denominato Giardino, fu arrestato in seguito alle rivelazioni di un noto spione, il monaco Samuele Mandarini.
Il 18 gennaio 1800 il nostro eroe finì impiccato a Piazza Mercato, come tanti altri protogonisti della rivoluzione.
Il notaio Nicola Mazzola, nato a Durazzano (Bn), centro della Valle Caudina, il 16 febbraio 1742 da Domenico e da Giovanna Iadevaia, fu incarcerato nel 1794 su ordine della Giunta di Stato “con l’accusa di subornare testimoni in favore dei detenuti della congiura giacobina, che mirava alla distruzione della famiglia reale e all’istituzione di un governo democratico e che si concluse con la condanna a morte per Emmanuele De Deo, Vincenzo Galiani e Vincenzo Vitaliani, i primi martiri del Risorgimento Italiano”. L’accusa pesante fu di essere stato un traditore, perché, uscito di galera, non si calmò, tanto che il 19 maggio 1799, aveva pubblicato lo Spettatore Napoletano, ultimo periodico della Repubblica Napoletana che usciva il martedì e il sabato, senza indicazione di tipografia, di cui si pubblicarono solo sei numeri, l’ultimo dei quali il 16 pratile 1799.
Arrestato nuovamente, Mazzola fu condotto prima a Caserta e poi nelle carceri della Vicaria. Il 15 gennaio 1800 la Giunta di Stato lo dichiarava: “condannato a morire sulle forche colla confisca dei suoi beni”.
Il 18 gennaio 1800 Nicola Mazzola fu afforcato a Piazza Mercato con il sacerdote Michelangelo Cicconi “che aveva dato alle stampe varie opere in lode della Repubblica e dei Francesi”. I corpi di Mazzola e Cicconi furono sepolti nella chiesa di Santa Maria delle Grazie all’Orto del Conte al Mercato.
La morte di Mazzola sul patibolo ebbe vasta eco in Valle Caudina, che – già precedentemente gravata da balzelli ordinari e straordinari – in quello stesso 1800 subiva impotente le requisizioni governative, le ruberie dei falsi commissionati e dei miliziotti, incaricati di mantenere l’ordine. L’omicidio, lungo il viale per Moiano, del facoltoso possidente di Airola Antonio Gaudino, nel fallito tentativo di sequestro del 21 gennaio 1800, segnava la ripresa in grande stile del brigantaggio, dopo “l’estirpazione” nel 1799 della comitiva Carfora-Piscitelli-, della banda Mango-La Valle.
Durazzano ha dedicato una strada al suo figlio più illustre che, come molti altri, visse il sogno di una Repubblica ideale.

 

 

Description

LIGUORINI IN MISSIONE A DURAZZANO

 

Nella seconda metà del Settecento le zone interne della Campania vengono attraversate dai Padri Redentoristi, del nuovo Ordine religioso fondato da Alfonso Maria de Liguori nato a Napoli il 27 sett. 1696, da una nobile famiglia.
Alfonso nel 1708 si iscrisse nella facoltà di diritto dell’università di Napoli. Il 21 genn. 1713 conseguì la laurea in utroque iure. Per alcuni anni esercitò la professione di avvocato, in cause anche rilevanti. Nell’ ottobre del 1723, vestì l’abito talare e iniziò gli studi teologici. Nell’aprile del 1726 ricevette il diaconato e nel dicembre dello stesso anno fu ordinato sacerdote dal cardinale Pignatelli.
La sua operosità di sacerdote è costituita dalla predicazione, incessante ed efficacissima, che durò per oltre un trentennio. La sua Congregazione, col nome di Congregazione del SS. Redentore, ebbe inizio il 9 nov. 1732. Al nuovo istituto l’approvazione pontificia fu concessa da Benedetto XIV il 25 febbr. 1749. Nel 1762 dovette accettare il vescovato di S. Agata dei Goti impostogli da Clemente XIII.
La sua opera di ordinario della diocesi sannita “si compendia in una vasta bonifica dei settori più importanti: il seminario, il clero, il pubblico costume. Estesa e densa di episodi significanti la campagna per la moralizzazione della vita pubblica: dalla predicazione alla istruzione popolare, al sollevamento economico dei poveri, al richiamo energico”(26).
Nel 1769 la sua persona subì, per un’artrite deformante, quella incurvatura della testa sul petto, come compare nelle riproduzioni iconografiche. Pensò , per questo motivo, di rinunciare ad un ufficio ritenuto troppo gravoso per la sua salute. La sua domanda a Pio VI, fu accolta nel 1775. Si ritirò tra i suoi correligionari a Nocera dei Pagani, ed ivi trascorse gli ultimi anni tra molti dolori. Morì il 1 agosto 1787.
Nelle lettere che qui appresso si riportano, il vescovo Alfonso sta preparando la missione nelle parrocchie di Durazzano. C’è il problema delle chiese che non sono abbastanza grandi per contenere (non sono capaci) un numero grande di fedeli. Perché le missioni dei Padri Liguorini richiamavano moltitudine di fedeli.
Il ‘700 fu un secolo di grande rinnovamento in campo religioso, dal quale rimanevano fuori le popolazioni delle campagne.
Il nuovo Ordine fondato da S. Alfonso si rivolse perciò prevalentemente alle zone delle diocesi più disagiate. L’opera missionaria era intesa dai Redentoristi come presenza viva e attiva nelle comunità dove si recavano.
L’azione missionaria era rivolta esclusivamente alla predicazione del Vangelo. Non era facile scrostare abitudini consolidate nel tempo e insegnare alla gente delle campagne povere e analfabete un cristianesimo autentico, Per fare ciò ai Padri Liguorini (così sono anche chiamati i Redentoristi) dovevano usare una predicazione appropriata all’indole e ai costumi della gente e alla loro mentalità; ma capace di toccare i loro animi, la loro immaginazione e la loro mentalità. Insomma l’opera missionaria doveva essere semplice, efficace e penetrante.
Le missioni dei Redentoristi, formate in genere da due Padri, erano preparate con cura, niente lasciato all’improvvisazione: tempi di svolgimento, tipo di predicazione, funzioni liturgiche, processioni. I paesi accoglievano con entusiasmo i padri missionari, che vi si trattenevano per due settimane. I fedeli ascoltavano le prediche commossi e, spesso, in lacrime. Inoltre le canzoncine, il rosario cantato e altre devozioni, portate dai Redentoristi, risultavano molto efficaci per la comprensione delle verità di fede da parte della gente.
Airola 22 del 1765

In punto ricevo lettera dall’eletto di Durazzano, che mi scrive aver inteso che venivano a Durazzano dodici PP., oltre di quelli che vanno a Cervino e Forchia. Io gli ho risposto che ciò non sarà vero, perchè per la sola terra di Durazzano bastano otto o sette PP. Prego V. S. di parlare al P. superiore ed avvisarmi, mentre ivi ho fatto apparecchiare i letti solo per sette od otto PP. Se mai vi sono soggetti soverchi, potrebbe ora favorirmi di mandarli ad Arienzo al casale di S. Agnese, ma ne vorrei subito l’avviso per far subito apparecchiare colà. Non altro: la benedico. Viva Gesù, Maria e Giuseppe (27)
Airola 12 del 1763

Ora la ringrazio d’aver fatto apparecchiare le due chiese per le missioni. Ma la prego di non dire ai PP. missionari che sia stato incocciamento mio il voler far fare la missione a due chiese, potendo bastare una, siccome si era fatta l’altra volta; perché i PP. avevano poca intenzione di far la missione in due chiese per la difficoltà che incontravano di dover assegnare due predicatori e due istruttori e per la gelosia che poteva nascere tra i due predicatori; onde se alcuno si mette a lodare questa loro ripugnanza, faranno le due missioni di mala voglia e resteranno mal soddisfatti di me, che non l’abbia fatto fare a modo loro.
Tanto più che anche a Durazzano, dove anderanno appresso, io voglio lo stesso, che facciano le missioni a due chiese, perché similmente l’arcipretale di colà non è capace del popolo: che se fanno le due missioni costì contro voglia, può essere che a Durazzano risolvano di far la missione ad una chiesa; del che io ne avrei molto disgusto, perché, D. Francesco mio, (torno a dire) quando la chiesa non è capace, la missione è quasi perduta.
Noi colla congregazione nostra del SS.Redentore sempre facciamo così, di dividere le missioni quando non vi è chiesa capace. A principio sembrerà che bastava la sola chiesa vostra, ma quando poi la missione s’infervora, come spero (mentre questi missionari sono bravi soggetti, parlano chiaro e tirano la gente) allora vedrete quanto sarà giovato il dividere la missione in due chiese. Se poi la gente non volesse concorrere, questo sarà castigo del peccati miei; ma Dio ne prenderà la mia buona intenzione, e V.S. ne avrà il merito dell’ incomodo e dell’ubbidienza. E con ciò le benedico tutti gl’incomodi e fastidi che V. S. ci avrà in questa missione (28)
Airola 19 del 1763

D. Francesco mio, mi consolo che per ora già si fa la predica a due chiese. Già so che per V. S. non è mancato di farsi così sin dal principio. Ricevo lo scartafaccio di D. Giuseppe insieme col suo biglietto. Io gli rispondo con questa mia lunga, ma voglio che V. S. ce la legga parola per parola, perché desidero che V. S. riferisca ancora tutto al P. superiore di costi per quel che scrivo circa la missione di Durazzano; perché, se non si fa come dico io, la missione di Durazzano sarà mezza perduta (29).
Durazzano 29 del 1763

Ho ricevuto la sua ed ho parlato qui a D. Giuseppe Jorio.
Gloria Patri per il bene che si è fatto a Frasso e per la congregazione stabilita per i galantuomini e per la congregazione de’ preti: aspetto poi il memoriale, perché lo rimetterò a Jorio. In quanto alla congregazione del figliuoli per ora scrivo a V. S. che preghi da parte mia il canonico D. Carlo Mosiello a pigliarsi questa cura, perché sarebbe un gran bene.
Ma quello che più raccomando a V. S. è l’adunanza (per non chiamarla congregazione) o sia istruzione delle zitelle nelle domeniche e, come vorrebbe D.Giuseppe Jorio, una domenica per le maritate.
Ringrazii da parte mia D. Francesco Brancone, che si è offerto senza paga a servir la congregazione de galantuomini, Gli dica poi che io non lo forzo ad accettar questo peso, perché non posso a ciò forzarlo; se l’ha da prender esso per pura carità, ma ce lo raccomando, ne lo supplico quanto posso, e spero che non voglia dirmi di no. Io scrivo questa di fretta. Dica così al canonico Mosiello, come al canonico Brancone, che non gli scrivo a parte, mentre mi ritrovo qui in Durazzano poco bene con una flussione di petto; ma se vogliono che io le scriva a parte, le scriverò pregandoli a farmi questa carità.
Ho goduto poi assai in sentire terminate le controversie del sig. Ilario ecc. In quanto all’ora della visita non so che dire. Generalmente parlando ha ragione D. Giuseppe Jorio.
Quando la visita si fa presto, pochi son quelli che ci ponno assistere. All’incontro V. S. dice che, facendola tardi, non riuscirebbe. Ma facciamo così. Ora che la gente sta in fervore, cominciamo a farla tardi per quell’ora in cui la gente può essere ritirata dalla campagna e vediamo come riesce. Se poi vedremo che, facendola tardi, non ci assistesse né la gente di campagna né quella che sta nel paese, allora si farà più presto.
Del resto in ogni parte della diocesi io ho ordinato che si faccia tardi vicino all’Ave, Maria. A S.Agata pure si faceva presto, ma poi si è veduto coll’esperienza che, facendola verso le ventiquattro ore, viene la gente. Bisogna però persuadersi che ora a principio vi verrà molta gente e poi anderà mancando.
Perciò fa d’uopo di non isgomentarsi e seguitare: chi resta, resta. Basta; a primavera, quando verrò colla visita, aggiusteremo meglio le cose. In quanto agli scandali che dicono alcuni costì, se la visita si fa tardi, dice bene Jorio che non è cosa di farne conto.
Io poi la ringrazio e la lodo per tutta l’attenzione che ha per lo bene di cotesta terra e specialmente per l’attenzione che ha avuta nella missione e per lo desiderio che ne ha dimostrato.
Quei parrochi che han desiderio della missione dan segno di avere il vero spirito di Gesù Cristo.
Mi dispiace che V. S. sta così acciaccato d’infermità, ma spero che Gesù Cristo le dia forza per mia consolazione e bene di cotesta terra, giacché in cotesta terra, come vedo, V. S. è solo o quasi solo. Perciò le raccomando sopra tutto la conferenza di morale, acciocché possiamo abilitare alcuno di buoni costumi ad aiutarci. D. Giuseppe Jorio vorrebbe la conferenza ogni giorno; ma chi vuol troppo, poi non ha niente.
Io mi contento di due o tre volte la settimana; ma almeno due, fuori però del giorno del caso di coscienza. E faccia animo a cotesti giovani acciocché studino fra questo tempo, perché quando vengo colla visita, spererei, se posso, di abilitarne più d’uno. Quando verrò colla visita, faremo una rinnovazione di spirito, perché faremo una novena della Madonna coll’esposizione del Venerabile; e farò io le prediche a modo mio familiare. La benedico e resto (30).

Dettagli

EAN

9788872970133

ISBN

887297013X

Pagine

96

Autore

Iandiorio

Editore

ABE Napoli

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Editorial Review

EBREI BENEVENTANI

 

L’aver riportato correttamente il nome di Durazzano, non è importante soltanto per aver restituito alla sua patria Fra’ Girolamo, ma perché apre un capitolo di storia del paese che sarebbe rimasto del tutto ignorato.
L’ Italia Judaica (41) fornisce diverse notizie sulla presenza di ebrei nei paesi della provincia di Benevento, su basi documentarie sicure e accertate, per i secoli XIV-XVII.
Vengono indicati i seguenti comuni: Apice, Arpaia, Calvi, Cerreto Sannita, Montesarchio, Tocco Caudio, Sant’Agata dei Goti, e naturalmente Benevento. Al capoluogo sannita viene riservato una lunga ed approfondita indagine, perché qui la comunità ebraica era presente da tempo immemorabile: ”Quando Benevento passò alla Chiesa (1077), la città ospitava una comunità ebraica dalle radici secolari e in pieno rigoglio. Tracce dell’antica presenza potrebbero essere due epigrafi latine databili al sec. V, dedicate a un Acholitus senior e a un Faustinus senior. Infatti, senior sembra essere l’equivalente del titolo, abituale fra i giudei, di presbyteros e indicare quindi una funzione comunitaria (Cod. Iust. XVI 8, 2). Quanto al nome Faustinus, esso era assai diffuso nei secoli V-VI presso alcune famiglie di notabili ebrei di Venosa”.
Il fatto che Fra’ Girolamo fosse censore di libri scritti in ebraico, fa presupporre la sua conoscenza di questa lingua, per affidargli questo delicato lavoro. La domanda che viene spontanea: Fra’ Girolamo era di origine ebrea? E se lo fosse , esisteva una comunità o qualche famiglia di questa origine a Durazzano?
Italia Judaica fornisce i dati per Sant’Agata dei Goti, della cui diocesi faceva parte Durazzano. “Il 6 gennaio 1495 la Camera della Sommaria, su istanza dei giudei che abitavano nella città, ordinò all’università di non costringerli al pagamento delle tasse straordinarie che soleva imporre per i suoi occorrenti bisogni, perché essi pagavano da soli i loro contributi alla maestà del re.
Nella stessa data – incombeva ormai l’invasione del Regno da parte di Carlo VIII di Francia - la Sommaria ordinava al capitano di Maddaloni di permettere che Liuzo de Iacob si trasferisse per sua maggiore sicurezza da quella località a Sant’Agata insieme alla famiglia, i beni ed i pegni del banco che gestiva a Maddaloni.
“Il 26 febbraio 1569, la bolla Hebraeorum gens con cui Pio V ordinava a tutti gli israeliti ebrei, eccettuati quelli di Roma e di Ancona, di uscire dalle terre della Chiesa mise fine alla plurisecolare presenza ebraica a Benevento. Non tutti però se la sentirono di andarsene. La prima domenica di luglio dello stesso anno, infatti, 26 ebrei ricevettero solennemente il battesimo.
La città avvertì d’avere perso parecchio con la partenza dei giudei, il cui dinamismo i neofiti non riuscirono a eguagliare.
E il 22 maggio 1617, durante il pontificato di Paolo V (1605-21), i consoli di Benevento proposero al Consiglio d’invocare dal papa il loro ritorno. Il parere del Consiglio fu positivo, ma di quel ritorno non è nota al momento alcuna traccia, salvo la denuncia, il 13 agosto 1630, al Vice Governatore di Benevento da parte del preside della vicina Montefusco, di due ebrei che andavano in giro infettando le acquasantiere delle chiese, fonti, pozzi e cisterne con certe ballotte che infestano di male contagioso a chi ne tocca e beve dell’acque.
E poiché facilmente i due potevano capitare a Benevento, il buon preside pregava il Vice Governatore di fare una diligente indagine e di arrestare i perniciosi figuri. Il male contagioso era la peste che, scoppiata nel Milanese, serpeggiava nella Penisola, avvicinandosi anche a Benevento.
Allarmati dalla grave comunicazione, i consoli la riferirono ai notabili della città, chiedendo loro se non era il caso di differire la prossima frequentatissima fiera di S. Bartolomeo.
Al di là del pregiudizio sugli untori - che le autorità mostrarono di non temere eccessivamente, perché decisero a stragrande maggioranza di tenere la fiera - la notizia fa pensare che, ad onta di bandi e divieti, solitari merciaioli e piccoli mercanti di fiera ebrei fossero tornati ad aggirarsi, nei primi decenni del XVII secolo, nel cuore del Sannio”.