L’interregno ducale: Ariano e Apice provincia del papa, Montefusco del Regno
I parenti degli Sforza, nel passaggio col Papa, si ritrovarono così già insediati militarmente a contestabuli militari in Montefusco ed Ariano, capoluoghi delle rispettive baronie, lì dove pare preesistessero i due tribunali carcerari, vicarie provinciali della Regina, almeno così appare nel 1430, che, dal 1433, si ritrovarono a passare dal Regno al Ducato papalino quando Francesco fu fatto titolare della Marca di Fermo.
Avere due baronie significava possedere due distretti provinciali, già asserviti dall’apparato militare giudiziario, sebbene circoscritti alla Contestabulia di Montefusco, cioè della Montagna da Dentecane a San Giorgio, e alla Contestabulia di Ariano, di cui fece sicuramente parte il vasto territorio da Apice a San Sossio Baronia.
Ad Ariano comandava il vescovo. Angelo de Raimo, padre osb, cioè dell’Ordine di San Benedetto (28 luglio 1406 – 1432), fu titolare di quella cattedra fino alla morte, che lo colse nel 1432, quando gli successe Angelo Grassi per 17 anni, fino al 1449, quando venne nominato arcivescovo di Reggio Calabria.
Il vescovo Grassi assistette allo stanziamento in Ariano del Comitato militare posto in essere dal Conte Sforza in nome della Chiesa.
Le baronie sforzesche di Ariano e Montefusco appaiono già nate sotto Giovanna II perché dovevano essere le sedi giudiziarie delle due province di Principato Ultra e Citra Benevento e che divennero sedi militari durante l’interregno che stava per portare la guerra fra Angioini e Aragonesi.
Negli anni successivi, nel bailamme del passaggio dei baroni col partito aragonese, gli Sforza seguiranno sempre le indicazioni del Papa, anche quando, persa Montefusco, ritornata in Regno, solo Ariano restò papalina e divenne sede del Comitato militare di tutti i loro feudi, cioè Contestabulia militare per la ricostituzione del Ducato di Benevento della Chiesa con la sua provincia, di cui fece sicuramente parte Apice.
Il Comitato dei baroni guidati da Sforza resse quindi Ariano e la sua provincia baronale in nome del Papa per diversi anni, ma presto si sarebbe scesi a patti col Re. Anche Ariano e Benevento, infatti, sarebbero andati agli Aragonesi e a danno di Re Renato d’Angiò, sebbene questi fu lasciato passare durante la fuga da Napoli all’Aquila, quando scelse di percorrre la via di Lucera.
Ma facciamo un passo indietro, almeno a quando, ancora vivente la Regina Giovanna II, ad Ariano c’era ancora il vescovo De Raimo. Negli atti notarili arianesi dell’epoca si legge che Padre Don Angelo dell’Ordine di S.Benedetto diede il permesso a Don Michele Ippolito, Rettore e cappellano della chiesa arianese di s.Stefano, di accogliere le ultime volontà del Magistro Angelo Fuschi di far costruire al suo interno un altare privato, cioè la cappella di s.Maria de Nive, per la salvezza della sua anima.
Il documento riveste una notevole importanza ai fini della ricostruzione dei confini regionali delle province riunite di Principatus Ultra, Citraque Serras Montorii et Capitanata. L’atto inedito arianese del 1430 precisa infatti l’esistenza di un regio giudice annuale ma soprattutto attesta la figura del notaio, quale publicus per Provincias Principatus Ultra, Citraque Serras Montorii et Capitanata reginali autoritate notarium, attestando un solo notaio regio per le Terre che vanno dal Beneventano a Foggia; compreso il territorio sotto le Serre del Montorio (di San Bartolomeo in Galdo).
Nella sostanza andava ridisegnandosi il nuovo Ducato bneventano racchiuso, fra una parte sopra le serre (ultra) e una di sotto le serre (citra), ma dentro, sopra e sotto le Serre c’era il Montorio. Al di sotto delle Serre aveva inizio la provincia di Principato Ultra, e sopra le Serre del Montorio, la Capitanata.
Il documento cartaceo del 14 settembre 1430 è tuttora il più antico atto presente in originale presso l’Archivio di stato di Avellino in quanto di precedente c’è solo qualche pergamena in cartapecora riciclata, riutilizzata a mo’ di copertina per i brogliacci notarili.
L’atto del 1430 è giunto fino a noi, forse senza mai essere pubblicato, perché è un allegato poco visibile inserito in un rogito del notaio Scipione Agostini.1
La capitale regionale delle province riunite del Principato-Capitanata, sopra e sotto le Serre del 1430, non sarebbe stata affatto Montefusco, ma neppure Benevento, anche perchè è la regione di un solo Principato, diviso fra Ultra, Citra e Capitanata, perché comprende tutte le Terre sopra e sotto le Serre, lontanissimo da Salerno.
Anzi, subito dopo la morte della Regina Giovanna II, nel 1435, quando i paesi furono in regime militare, durante la guerriglia fra Angioini e Aragonesi, Ariano restò papalina e tutta a regione le tre province riunite furono sotto il controllo guidato dagli Sforza che si impossessano della città, ne fanno il quartier generale e da lì ripartono per annettere territori momentanei al Ducato di Benevento.
Già della baronia militare di Ariano facevano parte sicuramente paesi intermedi come Montecalvo e Apice, la cui giurisdizione comprendeva terre fino a Paduli, quindi a completa guardia del tratto della via Appia Traianea che da Benevento conduce a Lucera.
Tornando all’atto notarile, da dopo la morte della Regina Giovanna II, c’è da dire che Ariano appare come la città vescovile dove si sono riuniti tutti i nobili della baronia, i sir, i viri, e dove si è spostato il medesimo notaio ufficiale della regione, lo stesso che redige l’atto, perchè, nel mentre, Montefusco è diventata sede della Vicaria per l’amministrazione della giustizia nelle Terre annesse al Regno degli Aragonesi.
Infatti, sebbene manchino svariati anni all’assoggettamento di tutto il Regno agli Aragonesi di Re Alfonso, nel 1440, Montefusco funge da Vicaria dell’antiregno che si oppone all’insediamento stabile di Re Renato d’Angiò. Ovviamente le vecchie province sono abolite in quanto, dall’una o dall’altra parte, hanno lasciato il posto ai comitati militari (c’è la guerra contro l’invasore aragonese), come ai vecchi tempi, alla stregua delle antiche contee, ognuna delle quali possedeva una propria baronia e tutte si rifacevano alla nuova città metropolitana più vicina (sede di Principato), Beneventana, in tandem con l’antica città diaconale (sede del Ducato), Beneventum.
Le scaramucce fra Chiesa, Aragonesi e Angioini continuarono per 7 anni, spostandosi continuamente i confini di province stabili del regno, giustizierati dell’antiregno e contestabulie della Chiesa.
Inoltre, con diploma del 10 giugno 1433, la Regina Giovanna II, due anni prima che morisse, aveva già approvato una nuova ripartizione territoriale che provocò altri distacchi, specie sui confini, di Casali di famiglie passate da una baronia all’altra al seguito della migrazione dei propri baroni. Anche la Montagna di Montefusco ne subì le conseguenze, da qui la frammentazione dei feudi, specie quelli sofiani di Corsano, Marcopio e Lapisio: due Monterone, due Venticano, due Terranova, due Sellitti, tre Torrioni, etc.
Per questo motivo, con la nuova ripartizione, quegli stessi Casali non appaiono appartenere affatto ad un perimetro che fa riferimento al distretto di Montefusco, sebbene la vicinanza, quanto al feudo della Montagna, cioè alla sua baronia, che sembra essere passata in toto nella contestabulia arianese che la ricondusse nel Ducato beneventano. Alcuni paesi della Montagna, infatti, sono poco alla volta inglobati nel territorio ducale dell’arcivescovo di Benevento, giunto a comprendere sia il paese originario che il suo stesso oppido nato dopo la fuga e frutto di uno sdoppiamento strategico, ma le divisioni continuarono a creare sovrapposizioni che ancora oggi non sono chiare a nessuno. Torrioni, il paese più in alto della Montagna di Montefusco, per esempio, si ritrovò diviso in tre parti: una porzione con Benevento città, una porzione con la baronia di Montefusco ed una porzione con Tufo nella baronia di Serra.
Questa frammentazione è dovuta in parte alla suddivisione dei feudi già in atto fra parenti e amici, anche solo per non pagare la tassa di successione. A dire del Ricca, Maurizia o Mauruccia, morto il fratello Angelillo, fu viro nobile Guarino del Turco milite di Montefusco, come da atto di Raynaldo Vassallo di Napoli, ereditò il servizio feudale dato in origine al nonno. Da qui la decisione, già sotto la Regina Giovanna II, di dividere in più parti il feudo, d’accordo il viro magnifico Pippo Caracciolo di Napoli, milite regni nostri sicilia Marescallo consiliario, in nome della quale investì i nipoti di Angelillo, cioè i figli di Maurizia, il viro Guarisio detto Guarino Mazzei e il domino Nicola de Montefuscolo che non avevano il cognome Del Turco.
L’atto fu suggellato col sigillo dell’anello regio in possesso di Angelo Siripando di Neapoli, capitano della Terra di Montefuscoli de provincia principatus ultras serras montorii, che concesse l’ufficialità alla divisione del feudo da assegnare per una parte a persone fedeli a Pippo Caracciolo, e per l’altra parte ai figli di Maruccia, come accadde per Casale Toccanisi e Casale S.Angelo a Torrioni e tanti altri.
Così il documento: – Casalia Tocchanisii et Sancti Angeli ad Turrayonum, et certam partem dicti Casalis Turrayoni sita et sitam in Montanea dicte Terre Montisfusculis juxta territorium Casalis Mutii, juxta territorium Castri Tufi, juxta territorium Casalis Preturii et alios confines… Casale Castri Muczj situm in dicta Montanea dicte Terre Montis Fusculi juxta territorium Casalis Sancte Pauline justa territorium Castri Montis Aperti juxta flumen Sabati et alios confines nec non et Casale Sancte Marie ad Vitam seu Genestre situm similiter et positam in Montanea Terre predicte juxta territorium Sancte Marie Inglisono juxta territoium Casalis Sancti Georgii juxta pheudum monasterii Montisvirginis et alios confinese…
In questo particolare caso nascevano tre Torrioni. Il Casale del Torrione della Montagna in apparenza non ha alcun riferimento con gli altri due, che sono vicinissimi e contigui, riconosciuti erroneamente come suffeudi di S.Angelo e Tufo.2
Alla redazione dell’atto erano presenti Pippo Caracciolo e Guarino, erede dei del Turco, unitamente al viro magnifico Cristofaro Gaetano conte di Fondi, logoteta e protonotario del regno, che ufficializzò l’atto. Non è stato possibile rinvenire ulteriori documenti su S.Angelo à Torrioni.
E’ comunque questa la Montagna di cui fecero parte i Casali di San Giorgio la Montagna (oggi San Giorgio del Sannio), Castelmozzo (scomparso fra S.Paolina e Montemiletto), S.Paolina (oggi comune), Montaperto (ora frazione di Montemiletto) distaccato da S.Maria in Grisone e S.Maria a Vita in Ginestra, e finiti ora con S.Nicola Manfredi, ora con Calvi-S.Agnese (San Giorgio del Sannio).
Il Principe di Taranto, principale signore del Regno, si era ribellato agli Angioini in favore degli Aragonesi già da alcuni anni. Dal 1434, infatti, Re Luigi d’Angiò, nominato erede adottivo da Giovanna II, prese “per moglie Margarita figliuola del Duca di Savoia, la qual da Nizza venne per mare a Sorrento, e la Regina pensò farla venire in Napoli, e fare una bella festa, ma la Duchessa di Sessa, e gli altri del Consiglio, temendo di non perder la loro autorità, la divertiro da quel pensiero, dicendo, che si farebbe venire una nemica in casa, la quale ò haria procurato la sua morte per rimaner ella Regina, ò sarebbe per intorbidar il suo stato, il qual era quieto e tranquillo”.
La Regina Giovanna evitò di far celebrare il loro matrimonio in Napoli e Luigi trascinò la sposa in Calabria, fra i feudi propri, per celebrare le nozze a Cosenza, nelle cui vicinanze aveva termine il confine dello stato del Principe di Taranto, il quale teneva a sè ben stretti 150 feudi, fra Terre e castelli, non restituiti ai Sanseverino sebbene fosse stato più volte citato a corte senza mai comparire.
Il Principe di Taranto fu perciò dichiarato ribelle e contro di lui si scagliò Giacomo Caldora con l’esercito regio. La Regina scrisse anche a Luigi d’Angiò di apprestarsi ad assaltarlo direttamente dalla Calabria. L’erede angioino sapeva di mettersi contro un Principe potentissimo ma, controvoglia e a malincuore, tornò a muovere guerra nel Regno, finanche con l’appoggio del Re d’Aragona.
Quando il Principe di Taranto si vide assaltare su due bande, subito mandò il fratello Gabriele Orsino e Ruffino ad Ascoli, città pugliese che fungeva da baluardo, all’incontro di Caldora. Qui si stanziarono i due con 1000 cavalleggeri e 1000 fanti col compito di trattenere il nemico per evitare che entrasse in Terra di Bari e Otranto. I tarantini si chiusero in difesa perché sapevano di non poter difendere in alcun modo le proprie Terre e i Castelli lontani di Terra di Lavoro, Val Beneventana e Principato Ultra. Anche il Principe di Taranto scese in campo col resto delle guardie, attendendo allo scontro Luigi d’Angiò, in quel di Altamura.
Caldora, nel mentre, tolse ai tarantini Acerra e la Baronia di Flumari, e di Vico, in cui ricadevano un gran numero di Terre, poi la Cedogna, Bisaccia ed altre vicine, però “come fu sotto Ascoli stette molti giorni impedito” per la minaccia dei due comandanti Tarantini. Ma, essendosene allontanato uno, Gabriele si spinse fino a Minervino, così Caldora ebbe modo di persuadere Ruffino a passare dalla parte della Regina. La sua condizione di povero suddito, sebbene fosse il primo cortigiano di un Principe, lo convinse ad annettere alle truppe regie i 5000 cavalleggeri piu i fanti appartenuti allo schieramento del Principe di Taranto, che andarono ad ingrossare le fila dei rinforzi giunti da Napoli, a cui già si erano uniti anche francesi e calabresi di Luigi d’Angiò.
Registrato il tradimento, e nell’impossibilità di fronteggiare gli uomini della Regina, il Principe Orsini si ritirò riconsegnando la Basilicata ai Sanseverino. Fu poi raggiunto dalle truppe fedeli per liberare dall’assedio la sua stessa Taranto, che riebbe a patto di accontentarsi di quella insieme a Leccie, Rocca, Gallipoli, Ugento e Altamura, e dei castelli di Brindisi, Oria, Minervino, Gravina, Canosa e del Gariglione.
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