2.Potere e nobiltà nella città dei papi (III p). Niccolò Franco da Benevento, il dissacratore impiccato: Processo e patibolo per l’amico di Michelangelo.

In offerta!

49,00 39,00


Copertina posteriore
Categoria:

Un giorno era a cena a casa della sorella maggiore con il marito e un orefice di Roma, parente di suo cognato. Quest’ultimo chiese all’orefice che cosa c’era di nuovo nella città, da quando era partito. “Niente di rilevante, gli rispose il parente, se non che il santo Padre è stato gravemente ammalato: ma questa malattia, fortunatamente, non ha avuto conseguenze. Aspettate: dimenticavo di dirvi che il mese scorso c’è stata un’esecuzione capitale che ha sorpreso tutta la città e ha fornito materia a molti discorsi. E’ stato impiccato in effigie, l’autore di una satira crudele contro cinque o sei signori dei più importanti di Roma. Tutti sono andati, in verità, perché essi (questi signori) erano dipinti punto per punto e non c’era una sola calunnia. Ma questi uomini non di meno hanno avuto il credito di fare arrestare il poeta e ottenere dei giudici per istruire il processo. Mentre questi lavoravano con alacrità, il prigioniero, uomo di spirito, ha messo in fallo i giudici e se n’è scappato col carceriere. In tempo. Due giorni più tardi, era appeso nella sua stessa persona”.
Questo racconto diede il colpo mortale a Nicolò. Trovò una scusa per andar via subito dopo la cena. Uscì, il pugnale nel cuore. Il tremendo pericolo che aveva corso, gli fece gelare il sangue nelle vene. La vergogna di un trattamento così ignominioso, raddoppiò fino al massimo la sua nera malinconia, e la rese inguaribile. Dopo questa giornata, non volle più mangiare a tavola, e la più giovane delle sorelle da cui alloggiava, usava una specie di violenza per fargli accettare del cibo. Così, ben presto le forze diminuirono a tal punto, che si sosteneva a stento. Tutta la famiglia, allora, si allarmò. Fecero venire i migliori medici della città. Essi dissero che i rimedi erano inutili per questa malattia: che il suo sangue si era cambiato in una bile bruttissima.
La madre di Nicolò, li prese in disparte e volle sapere da essi quanto tempo suo figlio poteva ancora vivere. Le risposero che sarebbe molto se passava gli otto giorni. La madre desolata, andò a chiudersi subito nella sua camera dove versò un torrente di lacrime. Dopo che il suo dolore le ebbe esaurite, si gettò in ginocchio, gridando:” Ohimè! Mio Dio, non me lo avete riportato se non per riprenderlo così presto! Lo amavo forse con troppa debolezza, in una maniera troppo umana, e voi mi volete punire. Ah! per lo meno, Signore, che non sia vittima per l’eternità. Degnatevi di fargli conoscere tutto il pericolo del suo stato, e ispirargli un sincero pentimento dei suoi errori. Per riparare, per quanto posso, quello che c’è stato di criminoso nella mia tenerezza, voglio annunciargli io stessa il vostro giudizio e la vostra misericordia. Armatemi, vi scongiuro, di forza e di coraggio”.
In quel momento, questa brava madre si sentì esaudita. Si alzò, corse verso l’ammalato e fece uscire dalla camera tutti quelli che c’erano. “Siete ben persuaso, mio caro figlio, gli disse, di tutto il mio amore per voi?”
“Non andate oltre, madre mia, mi volete dire che non ho che pochi giorni di vita. Ne sono convinto da me, e sto lavorando a impiegare per la mia salvezza i momenti che mi restano. Per aiutarmi a riconoscere e a piangere i miei traviamenti, fatemi venire, vi prego, questo dopo cena il padre Giuseppe, il domenicano; ha amicizia per me. Lo conosco da lungo tempo; io so che questo bravo religioso ha il cuore di un padre per i peccatori. Io non ho approfittato, mia tenera madre, dei consigli che mi avete dato altre volte. Sento in questo momento, meglio che mai, quanto fossero saggi e quanto sarei stato felice nel seguirli. Vi chiedo ora il soccorso della vostra preghiera, in essa ho la più grande fiducia. Voi avete sempre servito Dio con cuore semplice e giusto, voi otterrete da lui le grazie che sollecitate in mio favore”.
La madre piena di consolazione sentendolo parlare così, lo incoraggiò a tutto sperare nella misericordia del Signore, gli promise le preghiere più ferventi e si incaricò di andare subito ad avvertire padre Giuseppe.
Il religioso venne dopo cena. Nicolò, scorgendolo, gli disse:” Padre mio, come vostro vecchio amico e come peccatore, io mi sono lusingato che voi avreste pietà di me e che avreste la carità di volermi conciliare col Signore”.
“Io farò, signore, tutto quello che dipenderà da me per assecondare i vostri desideri; ho sempre preso, per la vostra felicità, l’interesse più vivo e più tenero. Ma voi potete lavorare più efficacemente ancor più di me, alla vostra riconciliazione con Dio. Offritegli un cuore gemente, spezzato dal dolore, un cuore umiliato per averlo offeso tante volte”.
“Io vi dichiaro, padre mio, che queste sono le mie disposizioni attuali. Io sono confuso della mia ingratitudine a suo riguardo. Egli mi ha riempito di grazie, e io non ho risposto che con infedeltà. Per raddoppiare la mia vergogna e sollecitare il mio perdono, ve ne faccio il dettaglio e le depongo nel vostro seno. Degnatemi di ascoltarmi, padre mio, con quella pazienza, con quella bontà che provano tutti i penitenti che sono ricorsi a voi”.
Fece allora la sua confessione, alla quale si stava preparando da tre giorni. La cominciò dopo la sua prima giovinezza, fino al momento in cui era caduto malato. Accusandosi degli errori che l’umiliavano di più, sospirava, piangeva; e il padre Giuseppe mescolava le sue lacrime a quelle. Insistette principalmente sul suo peccato sfrenato della canzonatura, della satira la più mordace; peccato che non aveva mai combattuto e che, da allora, l’aveva dominato, come un cavallo focoso domina e trascina l’uomo imprudente che lo monta. “Dio mi ha punito, padre mio, e nella maniera più ignominiosa. Ah! se almeno si degna di accettare questo castigo come espiazione dei miei crimini; se l’accettasse con tanta bontà come io l’accetto con sottomissione e anche con riconoscenza, quale sarà la mia felicità! Ma per aumentare la mia vergogna, voglio dirvi, padre mio, quale è stata questa punizione. Circa due mesi fa, stando a Roma, ho composto una satira crudele contro cinque o sei signori della città. Essi mi hanno fatto mettere in prigione. Si è istruito il processo. Mentre che vi stavano lavorando, uno dei miei amici ha corrotto il carceriere, che se n’è scappato insieme a me. Due giorni dopo, dovevo essere impiccato in una piazza pubblica. Ma dopo la mia evasione, io lo sono stato in effigie. Sì, padre mio, io sono stato appeso in effigie a Roma. Voi pensate bene che io sento tutta l’ignominia, tutta l’infamia di questa punizione. Ma più essa è umiliante e più, io spero, placherà la giustizia divina in mio favore. Sono anche risoluto, per aggiungere ancora alla mia confusione, se è possibile, far sapere questo fatto alla mia famiglia, che non ne sa niente. Vi prego anche di farne parte in città a tutti quelli che mi conobbero”.
“Questa risoluzione mi prova, signore, che voi siete sinceramente pentito, e ne sono pieno di gioia. Ma io vi proibisco di dargli seguito. Affliggereste al massimo e coprireste di vergona la vostra famiglia, che, non essendo colpevole dei vostri errori, non deve condividerne la punizione. Così, mio caro signore, non siete obbligato di far conoscere in città questo triste avvenimento alle persone di vostra conoscenza”.
Questo bravo religioso andò via dopo aver trascorso cinque o sei ore con l’ammalato, che lo pregò di ritornare l’indomani in mattinata, nel caso avesse dimenticato qualcosa. Tuttavia, le due sorelle di Nicolò, dopo che i medici avevano pronunciato su di lui la sentenza di morte; non avevano più la forza di andare a trovarlo. Esse si lamentavano e piangevano nelle loro camere, private di ogni speranza, rifiutavano anche ogni forma di consolazione. Nicolò fu sorpreso e rattristato di non vederle più. Le fece scongiurare dai cognati di venire a parlargli tutte e due insieme, perché aveva delle cose importanti da dire loro. Nella paura di aumentare l’afflizione del loro caro Nicolò, combatterono e vinsero la loro repugnanza, salirono da lui.
Quando le scorse ai piedi del suo letto:” Mi sfuggite dunque, mie care sorelle, disse loro, nel momento in cui ho più bisogno di voi! Voi condividete i miei piaceri, e mi abbandonate nelle mie pene! Tuttavia non sospettate di me, che io dubiti del vostro affetto per me. Sono infinitamente persuaso che è sempre lo stesso; ma lo spettacolo di un frate moribondo è troppo affliggente per voi; non potete sostenerlo. Ah! Dio permette forse che voi siate i testimoni per rendervi più sicure, più coraggiose, egli esige da voi un giorno sacrifici più grandi. Abituatevi, mie care sorelle, a guardare la morte con meno debolezza. Più ci se ne occupa, meno ella diventa spaventosa. Ella riempie il mio animo di terrore, ma il Signore lo riempie di fiducia. Io spero che si lascerà intenerire dai miei rimorsi amari, dal mio sincero pentimento. Ah! attualmente io riconosco meglio che mai che la sovrana e unica felicità è l’aver sempre amato. Applicatevi, mie care amiche, a gustare sempre più questa felicità suprema. Io non posso in modo migliore, con questo consiglio, darvi la prova della mia tenerezza per voi”,
Le sorelle non gli risposero se non con le loro lacrime. Prima che si ritirassero, le scongiurò di essere presenti quando riceverà il santo Viatico. La madre, la sua coraggiosa madre, non lo lasciò quasi più. Gli parlò senza smettere del cielo e della misericordia divina. “Le mie speranze saranno meglio fondate, le disse Nicolò, aumentando il numero dei miei intercessori. Gli effetti che io lascio si venderanno agevolmente cinquecento lire; io ho venti scudi d’argento. Mi colmereste di gioia, mia tenera madre, se avrete la bontà di anticipare per me la prima somma e di distribuirle tutte e due ai poveri, in questa stessa giornata. Morirò con molta più fiducia se questa elemosina mi precederà davanti al Giudice”.
“Con tutto il mio cuore, caro figlio. La vostra idea è ammirevole e io aggiungerò cento scudi del mio denaro alla vostra elemosina, a vostra intenzione”.
Nicolò l’abbracciò, per testimoniarle la sua riconoscenza; ed ella uscì subito per andare a compiere subito quest’opera buona.
Il padre Giuseppe gli fece amministrare i sacramenti l’indomani mattina, come da consiglio dei medici. Andò a trovarlo quando il curato gli ebbe portato il santo Viatico e fu uscito dalla camera. Lo trovò pieno di gioia e desiderando il momento della morte. “Quali grazie, signore, volete rendere a Dio! – gli disse- Dopo aver trascorso una vita così dissipata come la vostra, così inutile per il Cielo, vi tende le braccia e vi chiama nel seno paterno. Ah! senza dubbio, vuole ricompensare in questo momento qualche buona azione che avete fatto. Niente è perduto con il Dio di misericordia. Ditemi sinceramente che cosa credete di aver fatto di più meritorio nella vostra vita”.
Nicolò gli raccontò il servizio che aveva reso a Bologna, al padre di uno dei suoi discepoli, pagando i suoi debiti e facendolo uscire di prigione. “Ah! è quell’atto di umanità, esclamò il religioso, che Dio ricompensa adesso. Le sue promesse sono infallibili. Ha dichiarato per mezzo del Profeta, che avrebbe liberato nel giorno dell’afflizione, quello che si sarebbe commosso sul povero. Speriamo tutto, signore, speriamo tutto. Manterrà questa promessa”.
Nicolò in quel momento perse la parola, ma i suoi occhi si tingevano di gioia; si chiusero subito ed egli spirò.
Fu trovato sotto il capezzale del suo letto uno scritto, che racchiude l’epitaffio che si era fatto, e una preghiera alla sua famiglia, perché fosse posto sulla sua tomba. Le sue intenzioni furono rispettate.
Ecco l’epitaffio:

Qui giace Nicolò Franco,
il più intollerante degli uomini,
che si è scatenato contro il vizio,
e non ha affatto praticato la virtù,
che ha detto quasi sempre male degli altri,
e lui non ha fatto alcun bene.

INDICE

iii parte

Premessa dell’autore
le satire di don niccolo’, un pericolo per la chiesa

Capitolo I
gli amichetti beneventani
Una vendetta a distanza, l’abbandono della casa paterna

Capitolo II
i dispetti come il diavolo
La vendetta contro il ricco di Napoli e la passione per i primi studi sulle Satire

Capitolo III
l’amico desiderato
Il rapporto quasi morboso con il giovane frate minore

Capitolo IV
la nomina all’ambasciata
La morte del padre mentre diviene segretario dell’ambasciatore

Capitolo V
l’incontro col buonarroti
L’affetto per Michelangelo dopo un lavoro per ambascerìa

Capitolo VI
l’avventura col cardinale
Un brutto incontro per Clemente VII nonostante i versi che gli aveva dedicato

Capitolo VII
il ritorno dal frate
L’abbraccio con Cordelier già conosciuto a Napoli

Capitolo VIII
la baronessa rospino
La vita romana lo conduce per gioco a casa della nobildonna

Description

Le satire di Don Niccolo’ sono un pericolo per la chiesa

Volle lasciarsi nell’anonimato l’autore della biografia-romanzo di Nicolò Franco. Si tratta di un francese che nel saluto al marchese di Seignelay, colonnello del reggimento di Champagne, premesso al libro, si firma Abbé***, Censeur Royal. La censura reale In Francia , a partire dal XVII secolo, era l’incarico dato a dei censori di giudicare la legittimità editoriale di un manoscritto e autorizzarne la pubblicazione. Insomma dare l’imprimatur.
L’opera di questo anonimo scrittore si intitola Le danger de la satire ou La vie de Nicolo Franco poete satirique italien (Il pericolo della satira ovvero La vita di Nicolò Franco poeta satirico italiano) e venne pubblicata a Parigi nel 1778. Di essa si trovano accenni in alcuni autori, forse perché considerata poco biografia e più romanzo. Ne dà notizia Benvenuto Gasparoni, curatore del periodico il Buonarroti (Un Dialogo tra Niccolò Franco e il Buonarroti, in: il buonarroti scritti sopra le arti e le lettere raccolti per cura di Benvenuto Gasparoni, Roma 1866 vol. I p.90, Il Quaderno IV datato aprile 1866):” Capitatoci a questi giorni fra mani un libro francese, assai malagevole a trovarsi, intitolato Le danger de la satire, ou la vie de Nicolò Franco poeta satirique italien, e vedutovi dentro un dialoghetto fra Niccolò e Michelangelo, fu subito nostra cura il voltarlo nella italiana favella, e farne parte a’ leggitori cortesi”. Il Gasparoni dà anche un giudizio su questo libro, affermando che “Né veramente sappiamo quanta fede possa meritarsi quel suo racconto che disteso a mo’ dei romanzieri che sursero sullo scorcio del passato secolo (e appunto il libro è stampato a Parigi del 1778) non contiene a parer nostro che qualche fondo di vero, sul quale poi l’autore ha tessuta la tela di parecchi avvenimenti, a quella guisa che si costuma in que’ romanzi che tolgon nome di storici. Ad ogni modo non potrà essere senza piacer di chi legge il vedere questo dialoghetto che, pognamo non sia veramente accaduto, certo potrebbe essere almeno probabile”; e più avanti “l’autor della vita o vogliam dire romanzo di Niccolò Franco (che veramente è pieno di buona morale, ed è tutto inteso a mostrare come la satira sia cosa malvagia e pericolosa) racconta un altro fatterello in cui ha parte il Buonarroti, e però anche questo volemmo tradurre pe’ nostri lettori”. L’anonimo autore della biografia di Nicolò Franco attinge le sue notizie da una tradizione che non aveva cessato di avere i suoi cultori. Nel Nuovo Dizionario Istorico, alla voce Franco N., a proposito della sua morte, per impiccagione a Roma nel 1570, si legge:” la tragica morte di questo sciagurato scrittore seguì nel 1569, avendo sbagliato alcuni, che l’hanno fissata al 1554, come pure sbagliano coloro, i quali asseriscono, che fuggisse di carcere, che fosse appiccato solamente in effigie, e che di cordoglio e vergogna morisse poco dopo in Benevento” (l’ opera composta da una Società di Letterati in Francia, venne tradotta in italiano col titolo Nuovo Dizionario Istorico, Napoli 1791, tomo XI). Invece ad essa fa riferimento l’autore francese, quando narra la morte in Benevento di Nicolò Franco. In Francia l’interesse per le opere di Nicolò Franco si manifestò già nel XVI secolo; se nel 1579 Gabriel Chapuis pubblicò la traduzione francese dei Dialogi piacevoli.
Nelle città in cui Nicolò Franco è stato, ha lasciato sicura traccia della sua permanenza, così a Venezia con l’amicizia/inimicizia di Pietro Aretino, a Casal Monferrato dove fondò l’Accademia degli Argonauti, a Cosenza, dove promosse un’accademia. Il giudizio morale ha pesato molto sul nostro autore beneventano. Ma Girolamo Tiraboschi nella sua monumentale storia della letteratura italiana (prima edizione 1772-1788 in tredici volumi, seconda edizione 1787-1794 in sedici volumi) dedica un lungo saggio al poeta e di lui così scrive:” Se all’ingegno e allo studio fosse stato in lui uguale il senno, dovrebbe aver luogo tra i migliori poeti Niccolò Franco. Ma ei fu un di coloro che col reo uso che fanno de’ lor talenti, si chiudon la via all’immortalità del nome, e lasciano di lor medesimi poco onorata memoria. Ei nondimeno non debb’ essere dimenticato nella Storia della Letteratura, che anche i vizi de’ letterati, debbe indicar come scogli da cui guardarsi, e io ne parlo ancora più volentieri, perché niuno sinora ne ha scritta la Vita”.
Mentre il Tiraboschi scriveva queste parole, in Francia veniva pubblicata la biografia-romanzo di Nicolò Franco, che l’autore francese fa morire in effigie. Potrebbe sembrare un espediente letterario, ma oggi noi possiamo comprendere meglio cosa significhi morire “in effigie”, quando quotidianamente assistiamo in questa immensa piazza, che è la televisione e i mezzi di comunicazione in genere, alla condanna alla forca di tanta gente. Che poi dovesse risultare colpevole o innocente, non interessa più nessuno. La piazza rimane vuota.
V.I.

Recensioni

Recensioni

Non ci sono ancora recensioni.

Only logged in customers who have purchased this product may leave a review.

Editorial Review

 

LE PARTI DI CUI SI COMPONE L'OPERA

 

Un giorno era a cena a casa della sorella maggiore con il marito e un orefice di Roma, parente di suo cognato. Quest’ultimo chiese all’orefice che cosa c’era di nuovo nella città, da quando era partito. “Niente di rilevante, gli rispose il parente, se non che il santo Padre è stato gravemente ammalato: ma questa malattia, fortunatamente, non ha avuto conseguenze. Aspettate: dimenticavo di dirvi che il mese scorso c’è stata un’esecuzione capitale che ha sorpreso tutta la città e ha fornito materia a molti discorsi. E’ stato impiccato in effigie, l’autore di una satira crudele contro cinque o sei signori dei più importanti di Roma. Tutti sono andati, in verità, perché essi (questi signori) erano dipinti punto per punto e non c’era una sola calunnia. Ma questi uomini non di meno hanno avuto il credito di fare arrestare il poeta e ottenere dei giudici per istruire il processo. Mentre questi lavoravano con alacrità, il prigioniero, uomo di spirito, ha messo in fallo i giudici e se n’è scappato col carceriere. In tempo. Due giorni più tardi, era appeso nella sua stessa persona”.
Questo racconto diede il colpo mortale a Nicolò. Trovò una scusa per andar via subito dopo la cena. Uscì, il pugnale nel cuore. Il tremendo pericolo che aveva corso, gli fece gelare il sangue nelle vene. La vergogna di un trattamento così ignominioso, raddoppiò fino al massimo la sua nera malinconia, e la rese inguaribile. Dopo questa giornata, non volle più mangiare a tavola, e la più giovane delle sorelle da cui alloggiava, usava una specie di violenza per fargli accettare del cibo. Così, ben presto le forze diminuirono a tal punto, che si sosteneva a stento. Tutta la famiglia, allora, si allarmò. Fecero venire i migliori medici della città. Essi dissero che i rimedi erano inutili per questa malattia: che il suo sangue si era cambiato in una bile bruttissima.
La madre di Nicolò, li prese in disparte e volle sapere da essi quanto tempo suo figlio poteva ancora vivere. Le risposero che sarebbe molto se passava gli otto giorni. La madre desolata, andò a chiudersi subito nella sua camera dove versò un torrente di lacrime. Dopo che il suo dolore le ebbe esaurite, si gettò in ginocchio, gridando:” Ohimè! Mio Dio, non me lo avete riportato se non per riprenderlo così presto! Lo amavo forse con troppa debolezza, in una maniera troppo umana, e voi mi volete punire. Ah! per lo meno, Signore, che non sia vittima per l’eternità. Degnatevi di fargli conoscere tutto il pericolo del suo stato, e ispirargli un sincero pentimento dei suoi errori. Per riparare, per quanto posso, quello che c’è stato di criminoso nella mia tenerezza, voglio annunciargli io stessa il vostro giudizio e la vostra misericordia. Armatemi, vi scongiuro, di forza e di coraggio”.
In quel momento, questa brava madre si sentì esaudita. Si alzò, corse verso l’ammalato e fece uscire dalla camera tutti quelli che c’erano. “Siete ben persuaso, mio caro figlio, gli disse, di tutto il mio amore per voi?”
“Non andate oltre, madre mia, mi volete dire che non ho che pochi giorni di vita. Ne sono convinto da me, e sto lavorando a impiegare per la mia salvezza i momenti che mi restano. Per aiutarmi a riconoscere e a piangere i miei traviamenti, fatemi venire, vi prego, questo dopo cena il padre Giuseppe, il domenicano; ha amicizia per me. Lo conosco da lungo tempo; io so che questo bravo religioso ha il cuore di un padre per i peccatori. Io non ho approfittato, mia tenera madre, dei consigli che mi avete dato altre volte. Sento in questo momento, meglio che mai, quanto fossero saggi e quanto sarei stato felice nel seguirli. Vi chiedo ora il soccorso della vostra preghiera, in essa ho la più grande fiducia. Voi avete sempre servito Dio con cuore semplice e giusto, voi otterrete da lui le grazie che sollecitate in mio favore”.
La madre piena di consolazione sentendolo parlare così, lo incoraggiò a tutto sperare nella misericordia del Signore, gli promise le preghiere più ferventi e si incaricò di andare subito ad avvertire padre Giuseppe.
Il religioso venne dopo cena. Nicolò, scorgendolo, gli disse:” Padre mio, come vostro vecchio amico e come peccatore, io mi sono lusingato che voi avreste pietà di me e che avreste la carità di volermi conciliare col Signore”.
“Io farò, signore, tutto quello che dipenderà da me per assecondare i vostri desideri; ho sempre preso, per la vostra felicità, l’interesse più vivo e più tenero. Ma voi potete lavorare più efficacemente ancor più di me, alla vostra riconciliazione con Dio. Offritegli un cuore gemente, spezzato dal dolore, un cuore umiliato per averlo offeso tante volte”.
“Io vi dichiaro, padre mio, che queste sono le mie disposizioni attuali. Io sono confuso della mia ingratitudine a suo riguardo. Egli mi ha riempito di grazie, e io non ho risposto che con infedeltà. Per raddoppiare la mia vergogna e sollecitare il mio perdono, ve ne faccio il dettaglio e le depongo nel vostro seno. Degnatemi di ascoltarmi, padre mio, con quella pazienza, con quella bontà che provano tutti i penitenti che sono ricorsi a voi”.
Fece allora la sua confessione, alla quale si stava preparando da tre giorni. La cominciò dopo la sua prima giovinezza, fino al momento in cui era caduto malato. Accusandosi degli errori che l’umiliavano di più, sospirava, piangeva; e il padre Giuseppe mescolava le sue lacrime a quelle. Insistette principalmente sul suo peccato sfrenato della canzonatura, della satira la più mordace; peccato che non aveva mai combattuto e che, da allora, l’aveva dominato, come un cavallo focoso domina e trascina l’uomo imprudente che lo monta. “Dio mi ha punito, padre mio, e nella maniera più ignominiosa. Ah! se almeno si degna di accettare questo castigo come espiazione dei miei crimini; se l’accettasse con tanta bontà come io l’accetto con sottomissione e anche con riconoscenza, quale sarà la mia felicità! Ma per aumentare la mia vergogna, voglio dirvi, padre mio, quale è stata questa punizione. Circa due mesi fa, stando a Roma, ho composto una satira crudele contro cinque o sei signori della città. Essi mi hanno fatto mettere in prigione. Si è istruito il processo. Mentre che vi stavano lavorando, uno dei miei amici ha corrotto il carceriere, che se n’è scappato insieme a me. Due giorni dopo, dovevo essere impiccato in una piazza pubblica. Ma dopo la mia evasione, io lo sono stato in effigie. Sì, padre mio, io sono stato appeso in effigie a Roma. Voi pensate bene che io sento tutta l’ignominia, tutta l’infamia di questa punizione. Ma più essa è umiliante e più, io spero, placherà la giustizia divina in mio favore. Sono anche risoluto, per aggiungere ancora alla mia confusione, se è possibile, far sapere questo fatto alla mia famiglia, che non ne sa niente. Vi prego anche di farne parte in città a tutti quelli che mi conobbero”.
“Questa risoluzione mi prova, signore, che voi siete sinceramente pentito, e ne sono pieno di gioia. Ma io vi proibisco di dargli seguito. Affliggereste al massimo e coprireste di vergona la vostra famiglia, che, non essendo colpevole dei vostri errori, non deve condividerne la punizione. Così, mio caro signore, non siete obbligato di far conoscere in città questo triste avvenimento alle persone di vostra conoscenza”.
Questo bravo religioso andò via dopo aver trascorso cinque o sei ore con l’ammalato, che lo pregò di ritornare l’indomani in mattinata, nel caso avesse dimenticato qualcosa. Tuttavia, le due sorelle di Nicolò, dopo che i medici avevano pronunciato su di lui la sentenza di morte; non avevano più la forza di andare a trovarlo. Esse si lamentavano e piangevano nelle loro camere, private di ogni speranza, rifiutavano anche ogni forma di consolazione. Nicolò fu sorpreso e rattristato di non vederle più. Le fece scongiurare dai cognati di venire a parlargli tutte e due insieme, perché aveva delle cose importanti da dire loro. Nella paura di aumentare l’afflizione del loro caro Nicolò, combatterono e vinsero la loro repugnanza, salirono da lui.
Quando le scorse ai piedi del suo letto:” Mi sfuggite dunque, mie care sorelle, disse loro, nel momento in cui ho più bisogno di voi! Voi condividete i miei piaceri, e mi abbandonate nelle mie pene! Tuttavia non sospettate di me, che io dubiti del vostro affetto per me. Sono infinitamente persuaso che è sempre lo stesso; ma lo spettacolo di un frate moribondo è troppo affliggente per voi; non potete sostenerlo. Ah! Dio permette forse che voi siate i testimoni per rendervi più sicure, più coraggiose, egli esige da voi un giorno sacrifici più grandi. Abituatevi, mie care sorelle, a guardare la morte con meno debolezza. Più ci se ne occupa, meno ella diventa spaventosa. Ella riempie il mio animo di terrore, ma il Signore lo riempie di fiducia. Io spero che si lascerà intenerire dai miei rimorsi amari, dal mio sincero pentimento. Ah! attualmente io riconosco meglio che mai che la sovrana e unica felicità è l’aver sempre amato. Applicatevi, mie care amiche, a gustare sempre più questa felicità suprema. Io non posso in modo migliore, con questo consiglio, darvi la prova della mia tenerezza per voi”,
Le sorelle non gli risposero se non con le loro lacrime. Prima che si ritirassero, le scongiurò di essere presenti quando riceverà il santo Viatico. La madre, la sua coraggiosa madre, non lo lasciò quasi più. Gli parlò senza smettere del cielo e della misericordia divina. “Le mie speranze saranno meglio fondate, le disse Nicolò, aumentando il numero dei miei intercessori. Gli effetti che io lascio si venderanno agevolmente cinquecento lire; io ho venti scudi d’argento. Mi colmereste di gioia, mia tenera madre, se avrete la bontà di anticipare per me la prima somma e di distribuirle tutte e due ai poveri, in questa stessa giornata. Morirò con molta più fiducia se questa elemosina mi precederà davanti al Giudice”.
“Con tutto il mio cuore, caro figlio. La vostra idea è ammirevole e io aggiungerò cento scudi del mio denaro alla vostra elemosina, a vostra intenzione”.
Nicolò l’abbracciò, per testimoniarle la sua riconoscenza; ed ella uscì subito per andare a compiere subito quest’opera buona.
Il padre Giuseppe gli fece amministrare i sacramenti l’indomani mattina, come da consiglio dei medici. Andò a trovarlo quando il curato gli ebbe portato il santo Viatico e fu uscito dalla camera. Lo trovò pieno di gioia e desiderando il momento della morte. “Quali grazie, signore, volete rendere a Dio! - gli disse- Dopo aver trascorso una vita così dissipata come la vostra, così inutile per il Cielo, vi tende le braccia e vi chiama nel seno paterno. Ah! senza dubbio, vuole ricompensare in questo momento qualche buona azione che avete fatto. Niente è perduto con il Dio di misericordia. Ditemi sinceramente che cosa credete di aver fatto di più meritorio nella vostra vita”.
Nicolò gli raccontò il servizio che aveva reso a Bologna, al padre di uno dei suoi discepoli, pagando i suoi debiti e facendolo uscire di prigione. “Ah! è quell’atto di umanità, esclamò il religioso, che Dio ricompensa adesso. Le sue promesse sono infallibili. Ha dichiarato per mezzo del Profeta, che avrebbe liberato nel giorno dell’afflizione, quello che si sarebbe commosso sul povero. Speriamo tutto, signore, speriamo tutto. Manterrà questa promessa”.
Nicolò in quel momento perse la parola, ma i suoi occhi si tingevano di gioia; si chiusero subito ed egli spirò.
Fu trovato sotto il capezzale del suo letto uno scritto, che racchiude l’epitaffio che si era fatto, e una preghiera alla sua famiglia, perché fosse posto sulla sua tomba. Le sue intenzioni furono rispettate.
Ecco l’epitaffio:

Qui giace Nicolò Franco,
il più intollerante degli uomini,
che si è scatenato contro il vizio,
e non ha affatto praticato la virtù,
che ha detto quasi sempre male degli altri,
e lui non ha fatto alcun bene.

INDICE

iii parte

Premessa dell’autore
le satire di don niccolo’, un pericolo per la chiesa

Capitolo I
gli amichetti beneventani
Una vendetta a distanza, l’abbandono della casa paterna

Capitolo II
i dispetti come il diavolo
La vendetta contro il ricco di Napoli e la passione per i primi studi sulle Satire

Capitolo III
l’amico desiderato
Il rapporto quasi morboso con il giovane frate minore

Capitolo IV
la nomina all’ambasciata
La morte del padre mentre diviene segretario dell’ambasciatore

Capitolo V
l’incontro col buonarroti
L’affetto per Michelangelo dopo un lavoro per ambascerìa

Capitolo VI
l’avventura col cardinale
Un brutto incontro per Clemente VII nonostante i versi che gli aveva dedicato

Capitolo VII
il ritorno dal frate
L’abbraccio con Cordelier già conosciuto a Napoli

Capitolo VIII
la baronessa rospino
La vita romana lo conduce per gioco a casa della nobildonna