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IL PARTIGIANO SVEVO: da angelo a traditore angioino – aragonese del Regno di Sicilia
Giovanni di Procida (Salerno, 1210 – Roma, 1298) nacque a Salerno, erede della famiglia nobiliare dei da Procida, signori dell’isola omonima dal XII al XIV secolo. Egli fu terzo col nome di Giovanni III «da Procida», perché figlio primogenito di Giovanni II Cossa da Procida e Clemenza Logoteta.
Il presunto cognome Cossa, assegnato da alcuni storici a Giovanni, lo si ricava da un manoscritto del XVI secolo che fu posseduto dal bibliofilo Camillo Minieri-Riccio, il quale, ebbe fra le mani una Cronachetta, che inizia dalla vittoria riportata da Carlo I d’Angiò sopra Corradino e termina alla morte di Re Roberto.
Così la Cronachetta: — Al tempo di detto Rè Carlo primo la Isola de Sicilia se gli ribellò el chiamorno per Signore Rè Petri de Aragonia.
Madonna Costanza che era figliuola di Re Manfredo per difetto el colpa de Maestro Janni Salvacossa di Procida.
Da qui è parso poi a tutti che i da Procida fossero un ramo dei Cossa originato da Salvo Cossa, antica e potente famiglia di Ischia, arrivata a gran potere ai tempi degli Angioini.1
Secondo altri, Don Giovanni, sarebbe cresciuto a Palazzo Fruscione di Salerno, città del Principato dove divenne medico della Scuola Salernitana, diplomatico e uomo politico legato alla dinastia sveva degli Hohenstaufen, restando un familiares di Manfredi.
Qui scrisse anche «un famoso compendio di medicina la utilissima practica brevis, di cui parlano in termini encomiastici altri medici suoi contemporanei in alcuni loro scritti, ma che fino ad ora si ritiene perduto, a meno che, come dice il De Renzi, non sia stato attribuito ad altro autore. Nella pratica sono nominati anche alcuni tra i suoi più noti rimedi, alcuni dei quali adottati per lo stesso imperatore. Da quando entrò a corte (intorno al 1240), non si staccò quasi mai dalla famiglia imperiale, e seguì il sovrano nelle campagne militari nel nord Italia. Era presso Federico anche a Castelfiorentino assistendolo come medico e uomo di fiducia e ciò è testimoniato dalla firma che, assieme ad altri notabili, appose sul testamento del sovrano due giorni prima che Federico morisse», sebbene «altri medici dello studio di Salerno che risultano essere stati presso la corte, contesterebbe la tesi di David Abulafia che sostiene che Federico II non avesse in gran conto i medici della Scuola Salernitana e che si circondasse di medici di altra provenienza». Fu comunque tra i consiglieri dello Svevo, da cui si vide affidare l’educazione del giovane Manfredi, il quale, dopo l’esperienza a corte, dove era noto per la «fama di medico riputato», lo volle spesso al suo fianco.2
Alcuni autori affermavano che Clemenza, figlia di Andrea Logoteta, fosse in realtà la prima moglie di Giovanni. Ma per De Renzi sostenne la tesi che fosse la madre poiché, «in base alle date riportate da un documento, Clemenza doveva aver sposato il padre del Nostro, pure di nome Giovanni. Attualmente, però, si è tornati alla prima tesi». Scrive Astrid Filangieri che «era imparentato con Andrea Logoteta Gran Protonotaro e con i Manganario, altra nobile famiglia. Appartenendo a famiglie in vista e potenti è scontato che abbia respirato fin da giovane la politica e le lotte che, contrapponendo le fazioni guelfe a quelle ghibelline, agitavano quel periodo storico. Favorito dalla disponibilità dei mezzi, Giovanni studiò medicina e quindi tutte le arti liberali (logica, filosofia, matematica, grammatica), che all’epoca concorrevano alla formazione di un medico. La sua fama doveva essere notevole e la sua fede verso l’Imperatore comprovata se Federico II lo volle come suo medico di corte. Il medico salernitano dovette dimostrarsi ben degno di tale stima e fiducia se gli furono in seguito donati altri feudi quali quello di Tramonti e di Caiano (Caggiano). Altro importante titolo di cui il medico onorava vantarsi fu la baronia di Postiglione, che era appartenuta ai parenti di sua moglie Pandolfina o Landolfina della nobile famiglia longobarda dei Fasanella, tristemente noti per aver partecipato alla congiura di Capaccio».3
Dopo la morte dell’Imperatore passò dall’essere «medico a uomo politico, strenuo difensore della causa ghibellina e, dopo la morte di Corrado, fautore di Manfredi come re del regno di Sicilia. Fu proprio il suo attaccamento a Manfredi, di cui forse era stato anche precettore, che fece ricadere sul salernitano l’accusa di aver avvelenato, d’accordo con Manfredi, sia Federico II e poi Corrado IV per sgombrare al suo protetto la strada per il trono. Ma erano accuse di parte guelfa e neppure ben congegnate: nel caso di Corrado non fu Giovanni il medico che lo assistette (ma anch’egli salernitano), e non sarebbe stata mortale la soluzione eventualmente somministratagli. Manfredi gli affidò alte cariche se molti documenti di competenza del Gran Cancelliere o del Protonotaro portavano la firma del da Procida. In quel periodo assai si produsse come consigliere e ambasciatore per creare un clima favorevole allo Svevo, ma, oltre che fine diplomatico, non mancò di perseguire iniziative atte a favorire l’economia del regno: un esempio è l’istituzione (o l’istituzionalizzazione), della fiera di Salerno e l’ampliamento del porto che si premurò di presentare e sostenere all’attenzione del re. La fiera di San Matteo era la più grande fiera dell’Italia meridionale ed era opportuno riaprire ed allargare gli scambi commerciali che nel precedente periodo si erano arenati in una stasi ed un irrigidimento degli schemi, mentre nel Mediterraneo si profilavano altre potenze mercantili e si affermavano nuove piazze per lo scambio di merci. Se le fiere erano canale vitale dell’economia, quella di Salerno è stata definita autentico strumento di politica economica. E proprio per favorire ed ampliare il mercato meridionale l’anno successivo (’60), si approvò anche l’ampliamento del porto salernitano. …
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