01. APICE NEL REGNO DI NAPOLI

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Cordova nella disfida francese lanciata a Barletta: i Salernitani fermati in Calabria, poi sulla Montagna di Apice

In base a norme risalenti al tempo di Federico II e riformate nel 1447 da Alfonso D’Aragona, in Capitanata transumavano le greggi abruzzesi per l’inverno, pagando la dogana delle pecore. Fu forse questa ingente tassa il pretesto per guerreggiare nuovamente con gli Spagnoli che ritenevano quel territorio fra i propri possedimenti.
Per i Francesi la Capitanata integrava Terra di Lavoro e l’Abruzzo e perciò, guidati dal Generale Luigi D’Armagnac Duca di Nemours, vennero alle armi (1503), stanziatosi a Barletta, con presidi a Manfredonia, Andria, Canosa e Taranto. Il D’Armagnac cominciò ad attaccare i feudi di Cordova, partendo da San Giovanni Rotondo, che assediò per lungo tempo fino a prenderlo dopo essere stato distrutto per la terza volta (1503), e impadronendosi del bestiame. Da qui l’ennesima supplica dell’Università accolta poi da Cordova con la riconferma di privilegi, immunità e capitoli, delle grazie e delle consuetudini godute nel passato (1504).
D’Armagnac non diede tregua ai paesi del foggiano. Anche Canosa fu attaccata e costretta alla resa. Il Generale francese vi insediò l’esercito sperando di affrontare in campo aperto Consalvo, il quale, rifiutato l’attacco, colse di sorpresa la retroguardia francese trascinando i cavalieri a Barletta, per mostrare alla città il volto di chi l’assediava da sette mesi. Barletta era un porto di rincontro fra le navi adriatiche di Venezia, Trieste e Ragusa in rotta per il Mediterraneo, e mercanti d’ogni nazione che commerciavano fra loro e coi commessi fiorentini di Piero de’ Medici. Questa guerra intrapresa dai Francesi aveva stancato il popolo. A Barletta Consalvo aveva raggruppato attorno a se la maggior parte dei feudatari pugliesi, i quali, un mese dopo, si prepararono alla storica disfida di Barletta dopo aver già fatto numerosi prigionieri all’esercito del Vicerè D’Armagnac, compreso Charles de Tongue, detto Monsieur de La Motte, nelle mani del Capitano spagnolo Diego de Mendoza.14
La sfida dei 13 cavalieri, fra cui 2 ostaggi per parte, si avvalse di 4 giudici e 16 cavalieri per testimoni, individuando in Contrada S.Elia, in territorio neutro di Trani, fra Andria e Corato, appartenente alla Repubblica di Venezia, il campo della Battaglia. Il 13 febbraio, di buon mattino, i 13 italiani, scortati dalle compagnie di fanti e cavalli dei Colonna, dopo il discorso d’incitamento del Capitano dalla sciarpa azzurra beneaugurante, dono di Isabella d’Aragona, giurarono di difendere il proprio onore e quello del Regno a costo della vita. Nel pomeriggio infersero una sconfitta bruciante all’arroganza francese.
Fieramosca non approfittò neppure dell’inferiorità tattica di La Motte, quando, disarcionatolo, scese da cavallo per dargli da terra il colpo di grazia.
Persa la disfida, i Francesi, presentatisi fra l’altro senza riscatto, furono condotti prigionieri a Barletta, fra le urla festanti della città che accolse i 13 eroi, con li fuochi per le strade. Popolo e Sindaco, Consiglieri e Priori: tutti fecero festa. I preti del Capitolo della Cattedrale portarono in processione la Madonna dell’Assunta, l’icona del 1300 ribattezzata per l’occasione Madonna della Sfida.15
La cavalleria di Ferdinando d’Andrada sconfisse Alfonso Sanseverino di Salerno nel momento in cui questi portava i soccorsi allo Stuart (d’Aubigny) e, di lì a poco, anche il fratello Onorato subì la medesima sorte.
Nel frattempo a Barletta, Consalvo, ha già pronto un piano per sbaragliare i nemici, grazie ai rinforzi che gli stanno per giungere dalla Sicilia che, il 21 aprile 1503, hanno già consegnato la Calabria alle truppe iberiche di Ferdinando il Cattolico. Grazie all’aiuto dei Lanzichenecchi, giunti in tempo debito, all’alba del 28 aprile 1503, Consalvo fu pronto a dirigere l’esercito su Cerignola, lungo la strada vecchia che da Barletta porta a Canosa, oltrepassando la foce dell’Ofanto e diretti a San Cassano e San Ferdinando.
A Cerignola avvenne la battaglia decisiva con la sconfitta dei Francesi guidati dal Vicerè delle Calabrie.
Spogliato di armi e vesti risconobbe il trentenne disteso al suolo quale Vicerè delle Calabrie, quel D’Armagnac, ultimo della sua stirpe, al quale i vincitori organizzarono gli onori delle armi. Il Comandante della retroguardia Ivo d’Alègre tentò la fuga verso Melfi. Inseguito e battuto da Prospero Colonna tenterà la vendetta sul suo cavaliere Ettore Fieramosca, rafforzandosi nei dintorni di Capua con Antonello da San Severino. Rientrato in Capua a maggio con 500 cavalli, Fieramosca, cacciò d’Alègre e Sanseverino, mettendoli in fuga verso Gaeta, dove, ad ottobre, passato nella valle del Garigliano, riconquistò i suoi feudi di Rocca d’Evandro e Camino, occupati da Federico di Monforte. La sua attenzione verso la Corona, di lì a poco (1504), direttamente da Medina del Campo, gli farà meritare la conferma regia dei feudi di Migliano Monte Lungo, Rocca d’Evandro, Camino e Camigliano, la gabella nuova di Capua ed altri privilegi fiscali, divenendo Conte di Miglionico e Signore di Acquara.16
La battaglia di Cerignola del 28 aprile permise a Consalvo Cordova di imparare la tattica del nemico, sbaragliandolo nelle ultime battaglie sulla costa di Gioia e sul Garigliano.
Tornati in Calabria per il riaccendersi di un focolaio, il 14 maggio 1503, gli Spagnoli ottennero una nuova vittoria a Seminara, consolidandosi in tutto l’ex Regno con le truppe guidate da Consalvo pronte a sfilare festanti nell’ex Capitale.
Il 16 maggio seguente Consalvus Ferdinandi Corduba, dopo aver bombardato Castel dell’Ovo, entrava in Napoli accolto dai deputati, dove giurava fedeltà al Re.17
La nomina di Consalvo a Luogotenente, meglio definito su un ritratto Magnus Prorex Neapolitanus, fu quindi da definirsi come facente funzioni del re, in sua assenza, e non come Vicerè di un Regno di cui Ferdinando ancora non aveva preso materialmente possesso. La confusione nasce dal fatto che Consalvo, ai tempi degli Aragonesi, quando il trono era in Napoli e i vicetroni nelle singole province, avesse già ricoperto la carica di Vicerè delle Calabrie in Cosenza. L’impressione che si ha è quella di essere stato lasciato a Napoli per accordo preso con gli stessi Aragonesi. Questo giustificherebbe la luogotenzenza che lo seguì nella persona dell’ex Regina Giovanna, quando il Re, ripartito da Napoli dopo aver preso possesso del trono, le riaffidò la reggenza senza il titolo. Solo dopo si diede inizio alla lunga serie dei Vicerè ufficiali che si alterneranno nell’ex Capitale.18
Per Consalvo fu una passeggiata l’ultima battaglia sul Garigliano. E, nel gennaio del 1504, si arrese anche la fortezza di Gaeta. L’intero Regno di Napoli fu sottomesso alla Spagna. Il Sud perdeva il trono e l’ultimo vero Re Napoletano che gli Aragonesi avevano donato alla Capitale: “Sai, Napule, quanne fuste Corona? Quanno rignava Casa d’Aragona”.
Ma anche di Consalvo non resterà che il suo mantello, finito a Montecassino e divenuto pianeta per trecento anni prima della vendetta dei Francesi operata nel 1799, e qualche libro scritto sulla sua vita già nel 1552.19
L’Italia era ormai nelle mani del pontefice e degli Spagnoli. L’unico feudatario potente che si dichiarò indipendente fu Cesare Borgia, il Duca Valentino figlio del defunto Alessandro VI, il quale non volle lasciare la Romagna nelle mani dei parenti del nuovo papa Giulio II (1503-1513).
Quando l’ 11 febbraio del 1504 la Spagna concluse a Lione una tregua di tre anni con la Francia, Cesare Borgia fu il primo a rifugiarsi a Napoli dallo zio Cardinale Lodovico Borgia. Consalvo però non capì l’importanza di quell’alleanza con un principe che poteva definirsi il più potente d’Italia. Anzi, promettendogli aiuti militari previo consenso di Re Ferdinando, permise al Sovrano di Spagna di emettere un ordine di cattura, ritenendolo un soggetto pericoloso alla pace del Regno.
Eseguendo l’ordine, Consalvo fece catturare Cesare il 27 maggio 1504, ordinando a Prospero Colonna, incatenatolo e rinchiuso nel Castello di Ischia, di farlo scortare in Spagna da Ettore Fieramosca il 20 agosto, quando fu spedito nel castello regio di Medina del Campo.
Fieramosca (1505) tornò soddisfatto a Napoli, al fianco di Colonna e Giovanni Battista Spinelli, ricevuto a Pozzuoli da Cordova, ma lasciando un anno di tenpo a Borgia, il quale, il 25 ottobre 1506, calandosi da una finestra riuscì a evadere, senza per altro poter riconquistare i suoi Stati.
In fondo a Cordova interessò mantere solo il potere suoi feudi che lascerà ereditare ai successori, finchè il futuro Principe Ferrante Consalvo non vendette S.Giovanni Rotondo al barone Carlo di Mormile. Una lapide della peschiera di Polistena (1540), alle porte di Reggio Calabria, ancora attestava la presenza di Consalvo Ferdinando Ludovico di Cordova, nipote del Gran Capitano.20
Nè potrà lamentarsi l’altro discendente, Don Consalvo Ferrante de Cordova, Duca di Sessa, nominato Capitano generale e poi governatore del Ducato di Milano nel 1558.21
Questo Duca, in particolare, in linea con i cambiamenti dell’epoca, non mancherà di circondarsi di artisti, a cominciare da Cesare de Negri (1535-1604), come egli stesso afferma in un suo memoriale: “Hò ballato alla presenza dell’Eccellentissimo Signor Duca di Sessa mio Signore, & padrone”…..

Description

Inigo de Guevara, da Conte di Apice a Gran Siniscalco del Regno (1444)

Gli Aragonesi avevano annesso il Regno di Sicilia a quello angioino di Napoli nel 1442, grazie a volorosi capitani giunti al loro seguito dalla Spagna. Fra essi vi erano i fidati Don Pedro e Don Indico de Guevara, padre e figlio, i quali strapparono agli Angioini molti feudi importanti, come Potenza, Ariano, Montecalvo e Apice.
Qui ancora non si era spenta l’eco della distruzione subita dopo “l’assassinio di Andrea d’Ungheria, marito di Giovanna I d’Angiò, e l’arrivo in Benevento e nel Regno del fratello del defunto re, Ludovico, la cui presenza non mancò di apportare danni alla Città e alla Provincia: un quartiere di Benevento fu incendiato e il 7 settembre 1348, Apice, assediata dalle forze del secondo marito di Giovanni, Luigi di Taranto, venne saccheggiata e data alle fiamme, mentre dal canto loro gli Ungheresi saccheggiavano Arpaia nella loro marcia verso Napoli”.
La liberazione dagli Angioini appariva davvero attesa dopo anni di usurpazioni e vessazioni. “Benevento che in questo periodo (1378) si era mostrata ostile al legittimo pontefice Urbano VI, fu governata da funzionari angioini che non mancarono di fare le loro vendette contro gli avversari dell’antipapa ed espulsero l’arcivescovo Ugone Guidardi. Con le lotte che poi imperverseranno fra i pretendenti al trono di Sicilia, durazzeschi e angioini, non senza gravi ripercussioni nella città pontificia, con l’avvicendarsi di instabili governi e domini, con la distruzione di beni e l’anemia degli esili, si chiude in Benevento il XIV secolo e con esso la florida vita economica di un cinquantennio. Nella Provincia assistiamo all’esodo di abitanti per sfuggire non solo ai pericoli delle guerre, ma anche alle gravezze fiscali: terre divenute vacue e incolte, decadenza di feudi, malaria e desolazione un po’ dovunque. Telese vide discendere la sua popolazione, che aveva raggiunto circa trecento famiglie, a soli sedici abitanti, propter intemperiem aeris… et pestes alias subsecutas”.1
Con l’avvento aragonese, Apice, appartenente al Distretto di Ariano. Da San Giorgio verso la Montagna di Montefusco vi erano invece i feudi del Distretto di Avellino ricadenti nel Principato Ultra, fra cui Morroni, Bonito e Melito, ex suffeudi della Contea di Apice.
In realtà, i de Guevara, erano nella zona già prima della data ufficiale dell’insediamento aragonese in Napoli del 1442, impegnati ad annettere i feudi angioini al futuro regno aragonese. Don Pedro Vélez de Guevara, Signore di Onate, il quale sposa Costanza, figlia di Sancho Fernandez de Tovar e di Teresa de Toledo, era ad asserragliare proprio il castello di Apice già nel 1435, risultando il Capitano militare più potente di quest’area distrettuale.
Al de Guevara, però, il feudo di Apice fu donato ufficialmente da Alfonso I d’Aragona solo negli anni a venire, dopo, evidentemente, la salita al trono del 1442. A Don Pedro de Guevara seguì Inico, il quale morì per le ferite riportate in uno scontro vicino Troia (1462) e fu sepolto nel monastero degli Zoccolanti di Ariano. Apice ed Ariano erano feudi consolidati della nobile famiglia spagnola che li abitava da decenni.
Nella sostanza Pedro ed Inigo erano venuti in Italia al servizio militare di Alfonso V d’Aragona, già dal 1438, distinguendosi subito come migliori Capitani generali per la conquista del Regno di Napoli.
In particolare, Inigo, ebbe per certo il titolo di Primo Marchese del Vasto, Conte di Potenza, Conte di Ariano e Conte di Apice, Signore di Vignole, Anto, Aliano, Alianello, Montecalvo, Casalbore, Francolo, Monteleone, Campagna e Ginestra per investitura del 20 agosto 1444, seguito nello stesso anno dal più impotante titolo ereditario di Gran Siniscalco del Regno di Napoli, divenendo Cavaliere dell’Ordine del Toson d’Oro insignito dal Duca di Borgogna nel 1451 con brevetto n.49.
Ad Inigo de Guevara, I Marchese del Vasto e Potenza, sposo di Covella o Cubella Sanseverino, seguirà nei feudi dell’arianese il figlio Pietro II de Guevara (+1487), definito II Marchese del Vasto, Conte di Ariano, Conte di Apice, Signore di Vignole, Anto, Aliano, Alianello, Montecalvo, Casalbore, Francolo, Monteleone, Campagna e Ginestra e Gran Siniscalco del Regno di Napoli dal 1462.
A Don Indico (o Innigo) seguirono invece nei feudi del potentino Don Antonio e quindi Don Giovanni che, quale terzo Conte di Potenza, partecipò dalla parte degli Aragonesi alle guerre contro Carlo VIII e Luigi XII, fino a Don Alfoso, la figlia del quale sposerà un Loffredo Marchese di S.Agata e Trevico.2
Re Alfonso I d’Aragona aveva dunque donato il feudo di Apice ai nobili de Guevara, i quali ebbero, fra gli altri, proprio i titoli di Conte di Ariano e Conte di Apice, fino alla Congiura dei Baroni, quando gli vennero ritirati i feudi.
Ciò non accadde dunque con il padre di Indico, Pietro I, ma con il figlio, cioè Pietro II Guevara il quale partecipò alla Congiura dei Baroni e gli vennero confiscati i feudi.
Fu Pietro quindi il traditore che, nel 1452, perse anche il feudo di Vibo Valentia, conquistato da Inigo de Guevara Conte di Ariano e Apice e Gran Siniscalco del Regno.
Il Gran Siniscalco era la settima carica del Regno di Napoli. Il suo ufficio aveva come compito quello di provvedere ai bisogni primari della Corte Regia, come ad esempio il vettovagliamento. Divenne ereditario proprio dopo l’investitura ad Inigo de Guevara che lo portò in successione, di padre in figlio, ad ogni membro della famiglia.
Tale incarico, già nato ai tempi di Riccardo del Conte Drogone, sotto il Regno di Ruggero II, indi ad Ugolino di Tocco che l’ebbe nel 1195. A partire dunque dal 1444, fu di Inigo de Guevara, Marchese di Vasto e Conte di Apice, a cui seguirono Pietro de Guevara (1470), Etienne de Vec Signore di Beaucaire (1501), Carlo de Guevara Conte di Potenza (1535), Alfonso de Guevara, passato con gli Austriaci nel Regno di Carlo V e a tutti gli altri discendenti, fino a Carlo Guevara Suardo Duca di Bovino, quando arrivarono i Francesi nel 1799.3
Il sogno dei Catalani d’Aragona, ai quali andava il merito di aver annesso al Regno di Sicilia quello angioino di Napoli (1442), s’infranse poco dopo la scoperta dell’America (1492), per il tradimento continuato proprio del Gran Siniscalco de Guerava, Conte di Apice, a cui apparteneva la settima massima carica del Regno. Carica che mantennero, proprio in virtù del tradimento, con il sopraggiungere di Re Carlo VIII di Francia.
Occupata Benevento nel 1440, la città, a dire di Zazo, aveva ottenuto da Eugenio IV il vicariato. Col successore di Alfonso sul trono di Napoli, Ferrante I d’Aragona, scoppiata l’altra guerra contro il pretendente Giovanni d’Angiò, in Benevento, continuarono le provocazioni dei fautori angioini. Anzi, alcune di esse, si erano mutate in vere lotte civili con fazioni della Rosa rossa e della Rosa bianca, della Parte di sopra e di bascio: “Il 13 agosto 1482, una congiura favoriva, sia pure per breve tempo, la capitolazione della Città nelle mani di Ferrante che non mancò di concedere ai cittadini privilegi e grazie. La ribellione della città dell’Aquila (1485), incitata per convulso spirito di conquista da Innocenzo VIII, e le sue trame con i baroni del Regno, trascinarono il Pontefice a una sconsigliata guerra contro Ferrante, che pur si ripercosse nella Città e nella sua provincia. Non vi era più pace nell’Italia meridionale”.
Alla morte di Ferdinando I d’Aragona detto Ferrante (1431-1494), Re dal 1458, gli successe (1494) il figlio Alfonso II, il quale, essendo stato l’artefice della repressione per la Congiura dei Baroni, non riscosse alcun consenso, ancor meno verso il Conte de Guevara di Apice che s’alleò con in Principe Sanseverino di Salerno per una nuova ribellione dopo la confisca dei feudi.
Il Principe di Salerno Antonello Sanseverino fu il primo a convincere Carlo VIII di Francia che fosse giunto il momento di agire. Oltrepassato lo Stato Pontificio, Carlo giunse alle porte di Napoli (1494) con 3.600 fanti, 10.000 arcieri e 1.000 artiglieri seguiti da 140 cannoni. Gennaio non era ancora entrato quando Alfonso II abdicò (1495) lasciando le sorti del regno nelle mani del fratello Ferdinando II detto Ferrandino (1467-1496), scappato ad Ischia al solo rumore dei cannoni, il quale non mancherà di vendicarsi imprigionando i figli del Principe di Salerno e di Rossano e il Conte Gesualdo di Conza. Con l’aiuto del traditore aragonese, il Gran Siniscalco de Guevara, nel 1492, seguendo la tradizione, fu Carlo VIII in persona ad entrare nel Castello di Apice, recandosi poi a pregare nella chiesa della Madonna della Neve di Morroni. In realtà la visita potrebbe essere avvenuta in un secondo momento (forse la figura di Carlo VIII si confonde con quella di Carlo III). Di certo Apice venne distrutta dai filofrancesi dal Principe di Salerno, Antonello Sanseverino, deciso ad abbattere quelle mure appartenute a de Guevara e confiscategli da Ferrante.
“L’avvento al trono di Carlo VIII (1483) aveva infatti dato nuovo impulso alle pretese francesi sul Regno. Il 3 settembre 1494 quel re varcava il confine franco-savoiardo; il 31 dicembre giungeva a Roma e di là moveva su Napoli che gli aprì le porte. Alfonso II d’Aragona abdicò al trono e il figlio Ferrandino passo ben presto alla vittoriosa riscossa durante la quale egli disperse in Benevento la fazione favorevole ai Francesi. E questa, ingrossate le schiere di uno dei fautori di Carlo VIII, Antonello Sanseverino Principe di Salerno, assalì e devastò Apice; gravi danni alle sue fabbriche di cuoio ebbe poi a soffrire Guardia Sanframondi. Morto precocemente Ferrandino e successo a lui lo zio Federico, questi non mancò, concedendo esenzioni fiscali, di venire incontro al desolato paese impoverito di abitanti per numerosi fuggiaschi. Danni ebbero pure Morcone e Cusano Mutri dove esistevano fabbriche di pannilana e così Cerretto Sannita che aveva esperti tintori fin dal periodo romano, come si rileva da un’iscrizione del tempo”.4
In ogni caso, il 22 febbraio, Carlo VIII entrò in Napoli dove fece più rumore il diffondersi del morbo portato dagli invasori che l’assedio. Castelnuovo cadde il 7 marzo 1495, quasi tutto il Regno cedette nella metà di maggio alla volontà dei Francesi e alle ambizioni del Principe di Salerno, spalleggiato dallo spodestato Conte di Apice…

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EAN

9788872970133

ISBN

887297013X

Pagine

96

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Editorial Review

 I filospagnoli ricostruiscono i Casali al sicuro, fra Apice e Montefusco

 

 

 

 

 

 

 

 

La peste decimò la maggior parte delle popolazioni del Sud, già divise fra filofrancesi e filospagnoli. Passata l’epidemia in PrincipatoUltra, provincia dove la maggior parte dei comuni avevano inalberato la bandiera francese, con l’imporsi nuovamente degli Spagnoli, il 22 ottobre 1528, il sindaco di Montefusco esponeva alla Sommaria che i cittadini hanno sempre avuto devozione per la Cesarea Mestà nonostante che avessero data obedientia alla inimica Lega e prestato omaggio... s’hanno da tassare i Casali di Montefusco che con altre università alzarono le bandiere francesi... La Torre, San Nazzaro, Li Calvi, S.ta Agnessa, S.to Angelo, S.ta Paulina, S.to Iorio, La Ginestra, Santa Maria ad Thoro, Lo Pheudo di Montevergine, La Petra delli fusi, Santo Nicola Manfreda, Lentace et Mancusi, Santo Marco ad Munti et Rocchetta, S.Pietro ad Delicato, Vagnara, Pagliara, Piancha, Pianchetella, Petruro, Terrajone, Toccanisi, Castelmuzzo, Santa Maria in Grisone, Santo Angelo a Cupolo e Monteaperto.
Lo spopolamento della Montagna di Montefusco dovuto alla peste da una parte e all’invasione di Lautrec dall’altra, aveva portato alla rinascita di alcuni casali in luoghi diversi, ma contigui, da quelli originari.
La calamità era stata terribile. Piccoli Casali come Torrioni erano stati cancellati: per la peste et guerra sono state la magior parte sono morti et destrutti, nè bovij nè animali.
Avvenne cioè una separazione di alcune terre. Santa Maria Ingrisone, per esempio, fu separata da Montaperto di cui era stata casale. O viceversa, abitanti di Montaperto, si erano rifugiati a S.Maria per sfuggire alla peste e si ritrovarno in un nuovo territorio. Per comprendere questi ultimi passaggi storici, va accettata la tesi che, prima della divisione, erano uniti tutti i paesi della Montagna, sia del versante dei Caracciolo, da Torrioni a Casalbore, come del versante di Montemiletto e Montaperto, eguagliandosi la riscossione del Laudemio, cioè la quartame partem praedj vulgo dictam quarteria loco laudemii sive quinquagesimae, et hoc non sive violentia, ac propria autorità, per la maggior parte di essi.
Cambiò padrone il feudo di S.Marco dei Cavoti assegnato, con privilegio del Vicerè Filippo di Chalons, a Cesare Cavaniglia, Conte di Troja e di Montella. Era il 12 novembre 1528 quando i Cabanillas di Valencia entrarono in S. Marco e l’abitarono senza mai più uscirne per diversi secoli.
La nuova geografia post-peste finì per dividere gli stessi Casali della Montagna da Montefusco. Apice restò dall’altra parte di Ponterotto, sempre compreso nell’area di Ariano; Campanariello e Venticano appartennero al nucleo centrale di Pietradefusi, separatosi dall’area di Toccanisi, Torraioni, Bagnara, S.Giacomo, Mont’Orzo, Monti Rocchetto, Montefuscoli, S.Pietro Intellicato, S.Maria a Tuoro, S.Marco à Monti, Casale nuovo. Alcuni casali insomma si ritrovarono dall’altra parte della Montagna uniti ad altri paesi e non più al loro nucleo originario.
Così come si rileva dal Catasto del Castello di Toccanisi, da sempre unito a S.Angelo di Torrioni, che non va confuso con Torrioni di Tufo, che appartenne al gruppo dei feudi dei “di Tocco”, Conti di Montapero, dai quali sarà acquistato anche il feudo di Apice nel 1639.
Il nucleo di Marcopio di Apice, dal canto suo, non può essere confuso con il rifondato Casale di Marcopio di Montefusco. Se dispute avvennero fra verginiani e sofiani è perchè a diversi monaci si deve una diversa rifondazione dei casali col medesimo nome. Ma è evidente che alcuni appartennero ad un’abbazia, altri ad un’altra.12
Il primo moto insurrezionale del Sud fu quello dei fratelli Imperatore che nel 1523 erano falliti nell’intento di togliere la Sicilia alla Spagna per consegnarla a Marcantoni Colonna. Soffocata la congiura, coi capi mandati alla tortura, le acque del Mare Inferiore si calmarono per dieci anni, ma i tumulti continuarono.
La vendetta degli Spagnoli non si era fatta attendere contro chi si era schierato a favore del nemico. Il conte Enrico di Venafro, accerchiato nel suo castello da 300 cavalieri, condotto a Napoli, era stato già decapitato prima della fine del 1528....
Sembra che Apice, almeno stavolta, grazie all’influenza e alla potenza di Gonzaga, uscì indenne dalla vendetta spagnola, restando fedele alla Corona. Ma non fu così per i Casali e la città di Benevento. “Le conseguenze del patto di Granata tra il re di Francia Luigi XII e Ferdinando il Cattolico (11 novembre 1500) sulla progettata spartizione del Regno di Napoli, sfiorarono ancora la vita economica di Benevento per il gran numero di rifugiati che vi accorsero. Ma l’episodio non alterò sostanzialmente il suo commercio granario che - al dire del suo governatore, il fiorentino Luca Maso degli Albizzi - conservò la sua stabilità, sì da poter fornire 400 tomoli di grano la settimana, purché con lo denaio in mano. Non così favorevole lo spirito pubblico agitato dalle fazioni e dalla tracotanza ribelle dei nobili locali, uno dei quali, Ettore Sabariano, osò con una schiera di armati penetrare nel Castrum, assalire e uccidere il governatore, il ravennate Andreone degli Artusini. Poco dopo, altro nobile fuoruscito, Paolo Scantacerro, ardì a sua volta, con centoventi armati, scalare le mura della Città, uccidere, saccheggiare, per poi allontanarsi indisturbato. A questo e ad altri episodi del genere, posero freno meno i vari commissari apostolici che si susseguirono, e più esterni avvenimenti. Le conseguenze della Lega Santa contro Carlo V, Lega che aveva avuto tra i principali artefici Clemente VII, provocò l’arrivo in Benevento (1528) di settemila soldati spagnuoli, i quali - ci dice un contemporaneo - per due mesi devoraverunt omnem substantiam, comedentes et bibentes gratis; episodio che si rinnovò nel 1557 quando il viceré di Napoli, duca d’Alba, occupò la Città durante la guerra provocata dall’acceso antispagnolismo di Paolo IV Carafa contro Filippo II”.
Il popolo abruzzese dell’Aquilano, stanco delle continue vessazioni giungerà alla rivolta (1528), soffocata a febbraio 1529 da Filiberto di Chalon, principe d’Orange, accampatosi presso Fossa con un esercito di 2.500 lanzichenecchi. Arresasi, la città di Ocre dovette sottostare al Tallione, ossia all’obbligo di dover pagare 120.000 ducati. Subì l’impoverimento proprio dai saccheggi contro cui si era ribellata non essendo in grado di pagare il Tallione. Costretta a ricorrere al prestito dai ricchi mercanti tedeschi, tra cui Francesco Incuria ed Angelo Sauro, a causa di quel debito, verrà da questi sfruttata per anni, insieme ad altre popolazioni aquilane.20
La linea spagnola, passava il dominio a quella tedesca con Carlo V d’Asburgo. Non per questo la grande estensione dell’Impero non provocò contese con Ferdinando per la successione, che in alcuni regni gli spettava da primogenito, in altri in associazione.
Una nuova pace arrivò quando Carlo vinse i Francesi, con il trattato di Barcellona che pose fine anche alla guerra con Clemente VII. Il papa decise quindi di concedere a Carlo l’investitura del Regno, costringendo i Francesi a riconoscere con la pace di Cambrai la legittimità del dominio su Napoli.
Incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero a Bologna nel 1530, Carlo V, decise di punire solo chi si era messo a capo di milizie al di fuori dei propri feudi e di amnistiare quei feudatari che, pur avendo appoggiato i Francesi, erano rimasti nei loro feudi.
Uno di questi fu Giovanni Maria Annecchino che perse anche l’altra metà del feudo di Bomba nel 1534 a favore di Giovanni Genovoyx, signore di Chalem, per sé e per i suoi eredi.21
1. Ferrante Gonzaga conquista Apice e diviene Duca di Ariano (1532)
La scelleratezza del Carafa, vendutosi a Lautrec, durò poco. La spedizione di Carlo V fu capeggiata da Don Ferrante Gonzaga Duca di Mantova, poi insignito del titolo di Duca di Ariano e Principe di Molfetta (1532), vincitore su tutti i fronti per la sua abilità di condottiero.
Ferdinando Gonzaga, all’epoca detto Don Ferrante (1507-1557), conosciuto per la sua brillante carriera militare, acquisito il Ducato di Mantova, mantenne alto il nome del padre Francesco II e della famosa madre, Isabella d’Este, venendo alla conquista del Sud e restando fedele per sempre all’Imperatore Ferrante, per liberare il Regno di Napoli da quel guastafeste di Lautrec. Tornato dalla Spagna nel 1526 si mise al servizio del Papa. Presente al sacco di Roma, partecipò alla difesa di Napoli assediata da Lautrec, meritandosi da papa Clemente VII il titolo di Governatore della Città Pontificia di Benevento e restando al seguito di Carlo V. Fu a capo di 3000 cavalieri anche nella guerra contro i Turchi, continuando ad acquisire titoli e terre.
Il più interessante fra tutti fu quello ricevuto dall’Imperatore che lo nominò Duca d’Ariano e delle sue terre, fra cui Apice, prima di essere creato Cavaliere del Toson d’Oro, sposando (1534) la neo Duchessa d’Ariano Isabella di Capua (m.1559), figlia del Duca di Termoli. Il più importante fu sicuramente quello che ne seguì in Sicilia, ivi spedito (1535) a capo di quel Viceregno da Carlo V, dove restò fino al 1546, lasciando il governo di Ariano nelle mani del vice e poi del figlio.
In quell’anno, infatti, alla morte del Marchese di Vasto, gli fu affidato il ben più importante governo del Ducato di Milano. Quando l’anno dopo venne ingiustamente accusato di aver ucciso Pier Luigi Farnese, la commissione lo dichiarò innocente (1555), ma rimase profondamente amareggiato dall’accaduto, al punto che aveva già rinunciato al governo di Milano (1554). Dopo la sentenza imperiale decise di ritirarsi, pur accettando di stare dalla parte di Filippo II di Spagna, seguito all’abdicazione di Carlo V, fino alla morte (1557), lasciando al primogenito Cesare, marito di Camilla Borromeo e cognato di San Carlo, il titolo di Duca di Ariano, in quanto gli altri due, Francesco e Gianvincenzo, divennero cardinali. Infatti, nonostante i gravosi impegni, il figlio Cesare, continuò ad essere il successore nel Ducato di Ariano (1557-1575) e Apice già dall’anno in cui Gonzaga fu trasferito alla guida del Ducato di Milano (1546).1
Per quel che riguarda Apice, infatti, restò presumibilmente nelle mani di Gonzaga e non dei Guevara in quanto nessuna notizia traspare a riguardo dagli archivi se non una ricompera del feudo nel 1546. Nè ci viene in aiuto un documento del 1542 in cui si intima di pagare il rilievo al Conte pro tempore, ignorandone però il nome. Ciò avvalora l’idea che Apice fosse con il partito avverso, quindi ancora coi Gonzaga, ignorando di pagare la tassa del rilievo, in quanto ribelli, e comunque dopo la morte del feudatario precedente.
“Nel Regio Significatorio Relevio 5° folio 52, è registrata significatoria di Ducati 1129,2,10 spedita ex officio dalla Camera senza denuncia à 16 giugno 1542 contro il possessore [anonimo] della Terra di Apice per lo Relevio debito alla Regia Corte per morte dell’Illustre Conte di detta Terra, liquidate giusta il libro dell’erario dell’anno 14 indicato in Ducati 2259. Nel detto Regestro folio 164 è registrato decreto della Camera de 23 ottobre 1543 in discussione delli aggravi pretesi da detto Possessore per lo quale fu provisto doversi dedurre dà detta significatoria /
Ducari 586,1,13 e 1/3 ciè d.300 di fiscali burgensatici, /
[Ducati] 60 metà delli Ducati120 spesi per lo Molino, /
Ducati 73,4,3 e 1/4 per la quinta delli grani spettanti all’Ospedale della SS.Annunziata di Napoli, /
Ducati 32.4.6 e 1/4 per la decima spettante alla Chiesa di San Marco e/
Ducati 119.3.3 e 1/3 per l’adoha pagato in anno mortis /
dalli quali 586.1.13 e 1/3 di dette deduzioni ne furono dedotti Ducati 32.4.12 e 1/2 per aumento del prezzo delli grani meno portato ne calcolo di detta significatoria e restano dette deduttioni à beneficio del detto Possessore in Ducati 553.2.0 e 5/6 che furono dedotti dà detta significatoria la quale restò per somma di Ducati 576.98. Nel detto decreto si fa mentione di due partite di Ducati 300 l’una di fiscali inburgensatico e per tutte e due fu provvisto quod deducantur e nel calcolo di dette deduttioni se ne porta una, come di sopra sta distintamente portato, che forse sarà stato per errore del calcolante”.....

Riccardo del Conte Drogone Regno di Ruggero II
Ugolino di Tocco 1195
Ruggero di Sangineto Conte di Corigliano 1269
Giovanni d’Appia (Jean d’Appie) 1292
Carlo della Leonessa 1302
Goffredo de Milliaco (Geoffroy de Milly) 1304
Ugo del Balzo Conte di Soleto 1308 e ancora nel periodo 1310/1311
Leone Regio Regno di Roberto I
Roberto de Cabani Conte di Eboli 1345
Nicola Acciaioli Conte di Melfi 1348 e 1360
Cristoforo di Costanzo 1352
Angelo Acciaioli Conte di Melfi 1365
Marsilio da Carrara 1382
Salvatore Capece Zurlo Regno di Ladislao I ante 1404
Gabriele Orsini Duca di Venosa 1409
Artuso Pappacoda 1410
Giovanni Scotto intruso, creato da Luigi II Duca d’Angiò 1415 ca.
Pietro d’Andrea Conte di Troia 1415 ca.
Sergianni Caracciolo Duca di Venosa 1-1418
Enrico d’Anna 1425
Francesco d’Aquino Conte di Loreto 1438
Francesco Capece Zurlo Conte di Nocera 1442
Inigo de Guevara Marchese di Vasto 1444
Pietro de Guevara Marchese di Vasto 1470
Etienne de Vec Signore di Beaucaire 1501
Carlo de Guevara Conte di Potenza 1535
Alfonso de Guevara Conte di Potenza Regno di Carlo V
Alfonso II de Guevara Conte di Potenza Regno di Filippo II
Inigo I de Guevara Duca di Bovino 27-7-1584
Giovanni II de Guevara Duca di Bovino 1602
Carlo Antonio de Guevara Duca di Bovino 1631
Giovanni III de Guevara Duca di Bovino 1674
Carlo Antonio II de Guevara Duca di Bovino 1704
Inigo II de Guevara Duca di Bovino 1708
Giovanni Maria de Guevara Duca di Bovino 1748
Prospero Guevara Suardo Duca di Bovino 1778
Carlo Guevara Suardo Duca di Bovino 1799