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INTRODUZIONE
Circondata dai monti Cervialto, Altillo, Polveracchio e Pollaro, Calabritto si trova a circa 480 metri di altitudine su una collina che sovrasta la Valle del Sele. Ricca di fiumi sorgivi, alimenta con il fiume Zagarone il primo corso del fiume Sele, incontrandolo nella zona denominata Temete. La superficie del suo territorio, compreso Quaglietta, è di 51,67 km², e i suoi confini sono ad est Caposele e Valva, ad ovest Bagnoli Irpino e Acerno, a nord Bagnoli Irpino, Lioni e Caposele, a sud Acerno e Senerchia.
Diverse sono le ipotesi di origine del toponimo: da una locandiera di nome Britta; da una pianta del posto, forse il biancospino o altra pianta dei terreni rocciosi; dal cervo (britto)1. Le disparate versioni sull’etimologia del nome trovano comunque analogia con altre località del meridione, tra cui Calabricito presso Maddaloni, la Calabria ed altri toponimi lucani.
La zona dell’Alta Valle del Sele fu abitata già dal Neolitico, come testimoniato da alcuni ritrovamenti archeologici, in particolare quelli di Piedelmonte, località tra Calabritto e Senerchia, e si può supporre che le genti che popolarono Piedelmonte prima e Calabritto dopo, fossero composte in grande maggioranza da Picentini, che formarono certamente il nucleo principale degli insediamenti anche di Senerchia, Quaglietta, Oliveto Citra ed altri Comuni limitrofi, i quali per volere dei Longobardi divennero poi vere fortezze contro i Saraceni. La gente del luogo, infatti, per tener lontane le incursioni, eresse una fortezza solida da opporre alle orde saracene, aiutata dai Longobardi, giunti da alcuni anni nella Valle del Sele. Scelse un rilievo ben definito, uno spuntone roccioso, solido e compatto, che oggi non esiste più, essendo stato spianato in seguito alla ricostruzione post-terremoto del 19802. Da quella altura, il castello sorgeva a guardia e difesa della valle del fiume Zagarone, raccogliendo il primo nucleo di quella gente che dette origine ad un ordinato villaggio che prese il nome di Calabritto. Del castello già a partire dal Settecento non rimanevano che i ruderi e la torre di avvistamento, alta e quadrata. Fino alla sera del terremoto dell’80, i resti del castello e della sua torre vennero usati dall’amministrazione per scopi pubblici: venne installato l’orologio, indispensabile per orientarsi durante la giornata. Demolito dopo il sisma l’ultimo avanzo del fortilizio medioevale rappresentato dalla torre di avvistamento del castello di Calabritto, dunque, dell’antico paese non rimane più niente.
Il nome di Calabritto era anche legato alla nobile famiglia dei Tuttavilla, feudatari locali. Tale casata era famosa per la bramosia di potere e di alterigia, tanto da scatenare spesso la reazione della popolazione locale. Tuttavia, era anche nota per le forti doti di organizzazione e di comando, nonché per la presenza nella sua genealogia di importanti guerrieri. Inoltre, tra le famiglie nobili del tardo periodo feudale vi erano quella dei Del Plato e dei De Feo, le effigi e gli stemmi delle quali erano raffigurati presso i loro palazzi costruiti in paese. Furono i Mirelli, principi di Teora, ad essere l’ultima famiglia baronale di Calabritto e con essi, nel periodo che vedeva svolgere la Rivoluzione Francese, si chiuse la storia feudale di Calabritto3. Nei documenti relativi alla Valle del Sele, noi troviamo scritto Terra di Calabritto, Terra di Quaglietta, Terra di Senerchia, ad indicare non solo il feudo, ma anche il paese come entità civile e la gente che vi abitava con tutta la sua organizzazione amministrativa. Due erano le organizzazioni che si dividevano il territorio e che erano in contrasto tra di loro: l’Università e il Feudo. Il feudatario voleva imporre su tutti e su tutto il proprio potere, mentre l’amministrazione (Università) cercava di sottoporre al diritto degli usi civili alcuni territori appartenuti al feudo. Il primo documento riguardante il centro è un atto di donazione del 1020, dove è nominato un lohannes Calabritanus. Già a partire dal 1100, la Terra di Calabritto entrò a far parte di un esteso complesso feudale che riuniva Calabritto, Laviano, Massa ed Oppido (questi ultimi villaggi scomparsi da secoli), sotto la signoria del barone Guglielmo di Laviano. Alcuni anni più tardi, il feudo di Calabritto era diventato possesso di Filippo di Balvano, la cui baronia si estendeva anche sulla terra di Caposele e su quella di Sant’Angelo dei Lombardi.
Fino al febbraio del 1861, Calabritto aveva sempre fatto parte della provincia di Salerno (Principato Citeriore), per motivi storici e geografici, ma anche culturali e commerciali, per volere degli Angioini. Ma il Regno Sabaudo volle che Calabritto venisse a far parte della provincia di Avellino (Principato Ulteriore) e a nulla servirono le richieste per il ritiro di quel provvedimento. Tale distacco dal salernitano significò l’abbattimento di quei legami commerciali e giurisdizionali che si ebbero per secoli. Fu difficile fare in modo che Calabritto, insieme ad altri comuni come Senerchia, potessero di punto in bianco intrattenere relazioni di qualunque tipo con la provincia di Avellino, sia per l’asperità delle comunicazioni con i Comuni circostanti che per la mancanza di “legami storici”. Nel 1928, Quaglietta non ebbe più un’amministrazione autonoma: a causa del suo deficit nel bilancio, dopo centoundici anni di autonomia (dal 1817 al 1928), venne annessa come frazione al Comune di Calabritto.
Molteplici sono stati i terremoti che hanno interessato quest’area, tra i quali ricordiamo quelli particolarmente violenti del 1733 e del 1853, riducendo di volta in volta il numero degli abitanti del paese e cancellando le testimonianze del passato. Il segno tangibile della riduzione demografica è sempre stato lasciato negli anni, oltre che da eventi catastrofici, dal fenomeno dell’emigrazione. Infatti, tante famiglie originarie di Calabritto, tra cui Della Fera, Di Trolio, Di Popolo, Gonnella, Mattia, Megaro, Ficetola, Del Guercio, Fungaroli, Sierchio, Zecca, etc. hanno i loro ceppi sparpagliati tra le Americhe, il nord Italia, Germania e Inghilterra per la maggiore, e l’ondata migratoria fu più accentuata tra il 1881 e il 1921.
La storia di una comunità è sempre legata a quella dei suoi luoghi sacri e per i Calabrittani religiosità è sinonimo di devozione e orgoglio. Anche dopo il terremoto del 1980, alcuni di questi luoghi sono stati ricostruiti, ma parecchie chiesette, specie quelle presenti nei vari rioni del paese, si sono perse. Il Santuario della Madonna della Neve è il luogo a cui i Calabrittani sono particolarmente devoti: fu ricostruito con identica struttura architettonica dopo il sisma, insieme all’annesso convento, situato sul Monte Altillo che sovrasta la Valle del Sele. Prima usato dai monaci come luogo di preghiera e di raccoglimento, oggi è meta di visitatori e devoti, anche per lo splendido panorama che vi si osserva da quell’altura. Secondo la leggenda, la collocazione del santuario alle pendici dell’Altillo fu decisa dalla Madonna stessa che apparve in sogno all’arciprete del tempo, segnando l’area con neve all’inizio del mese di agosto (il 5 agosto è la festa della Madonna della Neve, Santa Patrona di Calabritto, insieme a San Giuseppe). Grazie ai fondi raccolti dalle comunità Calabrittane delle città venezuelane e inglesi, il santuario venne riedificato.
Altro importante luogo di culto è la cappella della Madonna dei Grienzi. La storica abbazia è una caratteristica chiesetta di montagna, ai confini con il territorio di Acerno, Caposele e Bagnoli. La statua della Madonna dei Grienzi è molto simile a quella della Madonna della Neve e del Fiume, e anch’essa è molto antica (si pensa sia dell’età rinascimentale). Ogni anno, dal 4 luglio del 1751, la prima settimana di luglio, si festeggia la Madonna dei Grienzi e verso la fine di giugno, il popolo si reca sulla montagna a prendere la statua della Vergine, portandola in paese. Dopo una settimana, la statua viene riportata in processione nella sua tranquilla residenza.
Altra chiesa importante, di origine bizantina, fu quella di Costantinopoli, sita nell’omonima strada del paese: probabilmente eretta dai monaci basiliani, prima fuori dal centro abitato, oggi con l’allargamento dello stesso si ritrova costeggiata dalle strade principali del paese. La chiesetta, recuperata dopo il sisma dell’80 e ufficialmente riaperta al culto nel maggio del 1990, venne usata come chiesa parrocchiale in attesa della ricostruzione della chiesa madre. Molte delle chiese andate perdute dopo il terremoto, tra cui quella di San Michele (la più antica del paese) e Sant’Antonio, non furono più ricostruite. Inoltre, da molti dimenticata, in un anfratto della costa della montagna che fa da lontano sfondo alla piazza Matteotti, in mezzo al rigoglio della vegetazione, si trova una grotta naturale che la gente del luogo ha chiamato “Grotta dell’Angelo”. In tempi remoti, sorgeva in essa un altarino e sulla volta un angelo con le ali aperte raffigurante San Michele Arcangelo. Ai piedi dell’altarino sgorgava una sorgente di acqua pura ed era luogo di visita di montanari e pastori. La festa di San Giuseppe, patrono di Calabritto, viene celebrata due volte l’anno, il 19 marzo, come vuole il calendario della Chiesa, e l’ultima domenica di luglio, rispettando la tradizione locale.
La prima occasione vede la manifestazione dei Falò di San Giuseppe nei diversi rioni del paese, una sorta di rituale tra il pagano e cristiano. Un tempo tra i rioni vi era una gara per chi avesse saputo realizzare il falò più grande e duraturo. L’ultima domenica di luglio si celebra la festa di San Giuseppe, sia perché in tale periodo estivo è più comodo e fastoso osannare un ciclo festivo ricco di manifestazioni religiose, sia perché il giorno della festa del Protettore è vicino al 5 agosto in cui si celebra la Madonna della Neve, cui i Calabrittani sono particolarmente devoti. La bellissima scampagnata, consacrata da una lunga tradizione, è per i Calabrittani quella che si celebra il lunedì in Albis. Il popolo si avvia alla volta della Grotta della Madonna del Fiume, posta fuori dal paese, lungo il pendio della montagna dal lato destro della valle del fiume Zagarone, affluente del Sele. La grotta di natura carsica presenta un ambiente molto suggestivo, nel quale anticamente la gente del luogo, che si recava sulla montagna, collocò l’immagine della Madonna su di un rustico altarino nella chiesetta addossata alla roccia. La Madonna del Fiume sollevò una rivendicazione di possesso nel 1500 dall’Università di Acerno, ma i Calabrittani non vollero conoscere quei motivi, contestando la proprietà dell’Università di Calabritto. La chiesa parrocchiale dedicata alla SS. Trinità, che in quella sera fatale del 23 novembre del 1980, sotto i colpi violenti del terremoto, fu distrutta nello spazio di un minuto, era il luogo più caro alla fede dei Calabrittani, ed era ancora quella stessa chiesa che nel 1735 era risorta dalle rovine della precedente distrutta dal terremoto del 29 gennaio del 1733: dopo tale evento, il tempio era sorto bello e maestoso, accanto al suo campanile che svettava sul panorama del paese. Per la ricostruzione di quel tempio, furono utilizzate le pietre dell’antico castello, anch’esso crollato per eventi sismici.
L’evento tellurico che Calabritto subì nell’80 polverizzò il 90% delle sue abitazioni. Le vittime furono molte, 87 in paese e 10 calabrittani morti in altri comuni limitrofi, con un gran numero di feriti e invalidi, e circa 3000 persone senza tetto4. Il colpo più violento si abbatté sulle chiese, che crollarono quasi tutte: crollò la chiesa madre, quella di San Michele Arcangelo e di Sant’Antonio da Padova, crollò infine lo stupendo santuario della Madonna della Neve in Alta Sede. Subirono gravi danni la chiesa di Santa Maria di Costantinopoli e quella della Madonna del Carmine, le quali ultime hanno ricevuto un adeguato restauro che ha conservato le forme e la struttura architettonica che avevano prima del sisma. Il maestoso e imponente campanile era crollato abbattendosi sul tetto della chiesa madre, sfondando tutto e sbriciolando ciò che la furia del sisma aveva già fatto crollare. I lavori di ricostruzione della chiesa madre iniziarono nell’anno 1997, modificando totalmente la struttura che aveva avuto da secoli, ma non la sua collocazione sulla collina del paese. Nello spazio di un breve minuto, in quel fatidico 23 novembre 1980, si consumò uno dei drammi più atroci patiti: interi comuni polverizzati, distrutti, inceneriti, cancellati; morti e feriti. Tutta la parte antica (che era la più estesa), il centro storico, le vetuste chiese, le case, furono ridotti in cumuli di ingombranti macerie. L’epicentro del sisma si può individuare in una zona compresa tra Sant’Angelo dei Lombardi e Laviano, a cavallo delle alte valli dell’Ofanto e del Sele. Oggi Calabritto è stata ricostruita dalle macerie, con un processo di ricostruzione che, pur presentando enormi difficoltà e durato anni, è stato realizzato con tutte le tecniche più progredite, per evitare che un nuovo terremoto possa recare gli stessi danni e provocare altre vittime5.
Per quanto riguarda il quadro economico, non solo di Calabritto, ma anche del resto dell’Alta Valle del Sele, la situazione non è particolarmente vivace. Si ha la sensazione, quasi tangibile, di una marginalità economica oltre che geografica, le cui ragioni risiedono nelle caratteristiche intrinseche del territorio che viene così a configurarsi come un sistema parzialmente chiuso. Eppure Calabritto non ha nulla da invidiare ad altri paesi: esso fa parte della Comunità Montana Terminio-Cervialto e dell’Ente Parco Monti Picentini, e possiede acqua e vegetazione in abbondanza. Il paesaggio è rigoglioso di vegetazione in estate e la neve compare in inverno su vaste aree, arrivando perfino in paese. Le nostre splendide montagne sono rimaste celebri nella storia del brigantaggio meridionale post-unitario come luogo di rifugio dei fuorilegge, che ne fecero spesso teatro preferito delle loro imprese, ma sono famose pure per le mete di culto, il verde incontaminato e lo splendido paesaggio che vi si osserva. Inoltre, ricchezze economiche dei Calabrittani sono da sempre state la coltivazione di oliveti, con la produzione del famoso olio di Calabritto, i vigneti, i castagneti (famosi i castagneti di Ponticchio) e altri alberi da frutta, il frumento, nonché una discreta pastorizia praticata da alcuni ancora con vecchi e antichi metodi6.
Francesco Ficetola
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