04. CONTROVERSIE E CRIMINI NEL ‘500. Roberto Maranta da Venosa (1476-1539) tradotto per voi dal latino

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I Consilia e altre storie napoletane nella Lucania di Roberto Maranta da Venosa


“Pel secolo XIV è attestato vivo ancora l’uso del diritto longobardo da Baldo, e professioni se ne trovano perfino nell’Italia settentrionale, anzi a Bergamo non fu espressamente abolito che da uno statuto della metà del secolo XV, mentre in questo stesso tempo le prammatiche napolitane (n. 104) ed i riti della gran corte (n. 103) fanno ancora considerazione per quelli che vivono a legge longobarda, tanto che a tenore di questa si vuole che alle donne venga sempre dato il tutore. Né le cose erano molto cambiate nel secolo seguente. Lo dimostrano alcuni atti beneventani compilati secondo le norme longobarde : e Matteo degli Afflitti, commentando le costituzioni di Federico II, parla della legge Longobarda come tuttora viva ai suoi tempi ed efficace a derogare al diritto romano : nei tribunali infatti di Carlo V accadevano casi eguali a quelli che Andrea da Barletta lamentava, cioè che oscuri causidici vincessero i dotti in diritto romano, per la sola cognizione delle leggi longobarde ; onde il Ferretti, giurista ravennate ed uditore, ai tempi appunto di Carlo V, nel Principato Ulteriore, tornò a scrivere nel 1541 un trattato sulle discordanze fra i due diritti, ed un altro De regulis iuris Langobardorum fu pubblicato a Venezia nel 1599. E’ ancora per entro al secolo XVII i giudici degli Abruzzi dovevano conoscere il diritto longobardo, perché si presentava loro occasione di doverlo applicare; anzi neppure nel secolo seguente se ne erano dissipate le ultime reliquie, né se ne era mai avuta espressa abrogazione, di modo che, di fatto come di diritto, la legge longobarda, sia pur nascosta fra le gole degli Appennini e fra la gente di campagna, la quale ne ha ancora oggi fortissime tracce nei suoi speciali costumi, deve dirsi che continuò ad esser viva, fino a quando avvenne la introduzione delle leggi francesi, ossia fino a quando non giunse il diritto ad avere la sua ultima formazione nell’epoca moderna.
In conseguenza di tutto ciò era inevitabile il contatto fra i due diritti, romano e longobardo. Questo era fortemente osteggiato dai romanisti. In tutte le loro opere essi dimostrano il più grande disprezzo pel diritto longobardo: Odofredo dice che non è legge né ragione, ma un insieme di regole, che i re barbari avean composto per propria utilità; Luca di Penne sdegna di ricordare le leggi longobarde, come irragionevoli, bestiali, feccia piuttosto che diritto, e facea voti perché fossero abolite; Andrea d’ Isernia (1230-1316) chiama la legislazione longobarda diritto asinino; e ancora più tardi in simil modo la trattano De Luca e Gravina. Tanta ostilità avea causa non solo nella evidente inferiorità del diritto longobardo, ma pur nel fatto che non potevasi facilmente sradicarlo, onde i più acerbi contro esso sono i giureconsulti dell’Italia meridionale, dove più diffusamente e con maggiore tenacia che altrove esso manteneva, in certe materie, la propria autonomia.
Dal che poi avvenne che lo stesso diritto romano non fu sempre immune dalla influenza longobarda, perché i giureconsulti, che miravano principalmente alla pratica, non poterono non tener conto d’inveterate consuetudini, che non era possibile interamente abolire. In tali casi si venne quasi ad una transazione, formando colla unione del duplice elemento nuove istituzioni giuridiche, taluna delle quali, sopravvissuta, è giunta anche a penetrare nei diritti moderni: tale, per esempio, è il consiglio di famiglia, formato dalla giurisprudenza col prendere dal diritto romano la istituzione del tutore unico e da quello longobardo la partecipazione di tutti i familiari alla tutela di un loro appartenente. (Carlo Calisse, Storia Del Diritto Italiano, vol. I Le fonti, Firenze 1902.pp, 252-254).
Nella sua esposizione Roberto Maranta cita spesso la Constitutio Puritatem, la quale imponeva ai giudici l’applicazione delle norme contenute nel Liber Augustalis. Il Liber è una raccolta di leggi emanata nel 1231 a Melfi da Federico II di Svevia, conosciuta anche come Constitutiones Regni Siciliae o come Constitutiones melphitanae o Augustales. Trattandosi di norme di diversa provenienza, qualora la materia oggetto di controversia non fosse stata disciplinata dal Liber, i giudici potevano ricorrere alle consuetudini, ai diritti locali delle città del Regno, non in contrasto con le leggi regie. In questi casi, veniva concessa ai giudici la possibilità di attingere anche dal diritto dei Longobardi.
“L’avvento degli Angioini formalmente non portò a stravolgimenti degli assetti costituzionali. La monarchia aragonese molto sensibile al mito dello stato accentrato e libero da condizionamenti feudali ed ecclesiastici portò a una rivalutazione della legislazione fridericiana. Il Liber, mai formalmente abrogato, fu espressamente convalidato da Ferrante I d’Aragona che, con la prammatica data a Foggia il 25 dicembre 1472, lo riportò all’attenzione di giudici e avvocati nei giudizi. Anche nel nuovo assetto non vi fu nessuna abrogazione dell’ormai corposa massa legislativa preesistente. Ferdinando il Cattolico, sotto il cui regno ebbe inizio la reggenza vicereale, formalmente riconobbe come vigenti le Costituzioni. Venuto infatti nel Regno, nel 1507 espressamente ordinò, dinanzi al parlamento generale, che si osservassero “constitutiones, capitula et pragmaticae Regni” (Ortensio Zecchino, Liber constitutionum in TRECCANI, LA CULTURA ITALIANA, Federiciana (2005).

Il consilium sapientis giudiciale 2. Andriana, la nipote, può ereditare? 3. Il diritto longobardo, come un fiume carsico 4. Il pelo del cavallo 5. Confutazione, quasi filosofica, dei testimoni 6. Adulterio familiare 7. Adulterio con delitto 8. Rosella la testimone 9. Quando si può uccidere l’adultero 10. Come far fuori l’adultero 11. Le colpe del cane ricadono sul suo padrone?

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Come risolvere le liti: I Consigli di Roberto Maranta nella Venosa del XVI secolo

Avete mai pensato di guardare una città non attraverso i suoi monumenti e le opere d’arte, ma attraverso le relazioni tra i suoi cittadini? E quale luogo migliore per conoscere i momenti di frizione, di scontri e di contrasti se non le aule delle corti locali?
Cerchiamo di soddisfare questa curiosità attraverso alcuni dei cento quarantotto consigli dell’avvocato Roberto Maranta, cittadino di Venosa, dove nacque nel 1476 e, probabilmente, vi morì intorno agli anni 30 del secolo XVI.
Il libro di Roberto Maranta si intitola Consilia sive responsa D. Roberti Marantae Venusini Iure Utroque Doctoris celeberrimi, Venezia 1591; un’edizione postuma. Una sorta di “vademecum” per uscire illesi dalle controversie giudiziarie. Sono 148 “consigli” su controversie molto frequenti nella sua città, ma non solo. Perciò attraverso alcune delle varie questioni esaminate, proviamo a ripercorrere la storia quotidiana della città nella prima metà del Cinquecento, fatta di relazioni tra i cittadini, tra le famiglie e di questi con le istituzioni. Le controversie giudiziarie, con il loro carico di delusioni, ire e talvolta di vendette, ci forniscono elementi sicuri per ricostruire la vita della gente di Venosa, di mezzo millennio fa.
“Roberto Maranta nacque nel 1476 a Venosa, probabilmente da un Bartolomeo originario di Tramonti in Principato Citra. Ebbe una sorella, Elisabetta detta Giovanna, che sposò il giurista venosino Giovanni Simeone, zio di Vincenzo Massilla; e un fratello, Cristoforo. Le nozze con Beatrice Monna, figlia del notaio Gaspare e di Angelella Schinosa, gli procurarono l’aggregazione alla nobiltà di Molfetta. Ne nacquero Bartolomeo, Pomponio, Lucio, Silvio. Non è chiara l’attendibilità della notizia (Giacomo Cenna, p. 344) di un successivo matrimonio con Viva Cenna. Si laureò nello Studio di Napoli sicuramente prima del 1502. La fantasiosa cronaca del Cenna lo vuole uditore generale del Principato di Melfi dal 1501. Non occupò, comunque, magistrature di rilievo. Si dedicò all’avvocatura, che tra il 1507 e il 1520 esercitò alternando gl’inverni a Salerno, le estati venosine, i soggiorni a Molfetta…L’anno di morte del M. è incerto. A lungo si è indicato il 1530. Ma (come dimostra Maffei, p. 54) l’arco cronologico va circoscritto tra il 4 sett. 1534, giorno dell’ultimo consilium datato (CXXVII, c. 154r), e il 4 febbr. 1535, allorché fu stipulato un atto notarile avente a oggetto immobili del suo asse ereditario” (M. N. Miletti, s. v. Maranta Roberto in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 69, Treccani 2007).

L’istituto del Consilium Sapientis Giudiciale si diffuse in Italia nella giurisprudenza medievale a partire dal XII secolo. Si ricorreva ad esso da parte dei giudici, quando veniva richiesto il parere (consilium) di un giurisperito (sapiens), prima di pronunciare la sentenza, e veniva assunto tale parere nelle loro sentenze (cfr. G. Rossi, Consilium sapientis iudiciale, 1958. M. Ascheri, Saggio di bibliografia consiliare,1991. M. Vallerani, Consilia iudicialia, 2011).
Il giurisperito interveniva nel processo con i suoi consilia in quanto esperto del diritto comune. Egli portava in tribunale la testimonianza della dottrina e della propria autorità scientifica. Tra la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna le raccolte di consilia sapientis contribuirono allo sviluppo del ius commune. Nel XIV secolo i consilia diventarono fonti di diritto.
Come è noto, il consilium conobbe due forme. Il consilium sapientis iudiciale, richiesto dal giudice, e il consilium sapientis pro veritate, richiesto dalla parte o dalle parti in causa. In questo secondo caso la parte in causa, che era assistita dal proprio avvocato, poteva anche chiedere al giudice che il caso fosse esaminato da un giurista perché non si sentiva garantita nel processo. Il giurisperito valutava imparzialmente e motivava in diritto. Il giudice era in genere tenuto a trasferire gli atti della causa all’esperto giurista e sospendeva la sua decisione fino a quando quest’ultimo non avesse fatto pervenire la sua valutazione in merito. Un particolare da tenere presente: le spese del consilium erano sostenute dal soccombente.
L’istituto del consilium sapientis giudiciale, particolarmente diffuso nel medioevo, declinò con l’avvento del giudice diventato anche esperto giurista, nell’età moderna. Le argomentazioni fondamentali utilizzate nel consilium sapientis iudiciale venivano fatte sulla base della legge (ex lege), sulla base della ratio (ex rationibus), sulla base della autorità dottrinale di un giurista (ex auctoritate). (cfr. M. Cavina, Consilia, 2015).

Consilium XXVII p. 54. Si pone il problema: Se un nipote per parte della sorella debba ereditare i beni dello zio materno equamente insieme con il fratello del defunto.
Nel presente processo tra il notaio Antonio di Ettore procuratore di Andriana moglie di mastro Tartaglia Tancredi da una parte, e Fabrizio di mastro Iannuzio dall’altra circa la richiesta di metà dell’eredità, beni che furono del fu Angelo di mastro Iannuzio, come appare dagli atti esibiti davanti al giudice, ne nascono tre dubbi.
Il primo: se la suddetta Andriana in qualità di nipote del fu Angelo debba equamente succedere ai beni di lui insieme con il suddetto Fabrizio fratello, morto senza testamento.
Il secondo: se fino a che punto Geronima madre della suddetta Andriana e sorella del suddetto Angelo che pretende di essere stata dotata dei beni paterni e fraterni, debba rappresentare un impedimento per la suddetta Andriana sua figlia, da escluderla dalla successione del suddetto Angelo suo zio.
Il terzo: se sia accertata una qualche comunione di Fabrizio e Giovanni nei beni del suddetto Angelo loro fratello, ragion per cui possa il suddetto Fabrizio dedurre una qualche antiparte sulla predetta eredità.
Prima di trattare il primo punto io presumo dal processo che l’intenzione (la querela) della suddetta attrice dell’azione giudiziaria sia stata ben fondata per quanto riguarda l’atto di citazione, perché si dimostra la richiesta dell’eredità, da cui risulta, che non si dà regolarmente, se non contro il possessore a titolo di erede, oppure in favore del possessore regolarmente dell’eredità, perciò la suddetta attrice ben ha esposto il suo intento, vale a dire, che il suddetto Fabrizio possiede come erede, come lo stesso Fabrizio dichiara nei suoi articoli e nella sua disamina.
Fatta questa premessa vengo al primo dubbio, sul quale a prima vista sembra che la suddetta Andriana debba essere esclusa dalla successione del detto Angelo per tre motivi.
Primo: perché il suddetto Fabrizio è fratello carnale del suddetto Angelo, e la suddetta Andriana è sua nipote, figlia di sua sorella premorta, come si prova da processo, in questo caso è certo che il fratello è in secondo grado, il nipote in terzo grado di consanguineità; per motivo del grado di preferenza la suddetta Andriana deve essere esclusa.
Secondo: perché essendo la suddetta Andriana parente, congiunta per linea femminile, deve essere esclusa per via del suddetto Fabrizio, che è maschio e congiunto per parte paterna col defunto e molto più vicino nel grado di parentela.
Terzo: perché come è stato comprovato nel processo da due testimoni, vale a dire, il notaio Dionisio e il notaio Palmerino, che a Venosa si vive secondo il diritto Longobardo, e soprattutto perché in questo regno lo si antepone a quello Romano. E’ certo che secondo questo diritto i cognati sono esclusi dalla successione, quando vi sono congiunti prossimi.
Ma non ostando le cose dette innanzi, nel nostro caso la verità va nel senso opposto; vale a dire che la suddetta Andriana equamente concorra alla successione con il suddetto Fabrizio. Infatti, per quanto in grado di parentela non uguale, tuttavia subentra il grado di parentela della madre premorta, che era del medesimo grado…
Non osta il terzo motivo, perché in nessun modo è provato che a Venosa si viva secondo il diritto Longobardo in generale; infatti fanno menzione di ciò solamente i predetti due testimoni, che in nessun modo portano prove di molte cause. Primo perché depongono per sentito dire, dal momento che hanno sentito, che così si viva in Venosa. Secondo, perché in tutta la loro deposizione, tanto in causa scientiae (n. d. r. Le circostanze grazie alle quali si viene, o si è venuti a conoscenza di qualcosa), quanto nella pratica dello stesso diritto Longobardo, non dicono altro se non che di solito alle donne che contraggono matrimonio si dà il mundoaldo, quindi non includono il nostro caso, in cui si tratta di successione. Infatti non prende valore da cose diverse, vale a dire, come si osserva il diritto Longobardo per quanto riguarda il mundoaldo, così similmente si osserva nelle successioni, mentre in molti casi la maggior parte di quel diritto non si osserva perché carente di ratio, come si è detto, inoltre dalla loro stessa deposizione appare che non si osserva; infatti dicono che nei testamenti delle donne non si dà il mundio, e tuttavia secondo il diritto Longobardo quando la donna è in potestà del marito non può testimoniare senza il mundoaldo. Infatti la donna in qualsiasi azione “muore” senza il mundoaldo, come il pesce fuori dell’acqua. Ne consegue che a Venosa non si osserva in questo atto testamentario. Inoltre dicono nell’interrogatorio che alle donne ragazze o adulte viene dato il mundoaldo secondo il diritto Longobardo, e tuttavia dicono che a Venosa viene dato il tutore e il curatore non il mundoaldo; e così osservano, in quest’altro caso, il diritto romano. Inoltre non provano i detti testimoni perché entrambi sono stati e sono procuratori in detta causa in favore del detto Fabrizio, e fautori, non provano perché si propongono di conseguire la sua vittoria.
Inoltre non provano detti testimoni, perché non dicono in generale che a tutte le donne è dato il mundio, così distinguono, che non viene dato alle nobili, ma soltanto alle plebee, come dice anche Nanno di Gervasio nella deposizione per detto Fabrizio. Ne consegue che generalmente non si vive a Venosa secondo il diritto Longobardo. Inoltre stando la suddetta differenza fatta dagli stessi, occorreva che il suddetto Fabrizio provasse a fondamento della sua accusa che la suddetta Andriana fosse non una nobile tale che viveva secondo il diritto Longobardo. Altri dubbi vengono dalle loro deposizioni, come avrebbe potuto essere nobile, dubbio che è interpretato sempre contro il promotore della causa. Ma il fondamento dell’accusa di Fabrizio era la non nobiltà, quindi doveva da lui essere provato, come diciamo in caso simile la povertà deve essere provata; perché il diritto non presume chi sia ricco né povero, ma si deve provare dal querelante, che per il fondamento della sua accusa allega povertà o ricchezza.
Inoltre non portano prove detti testimoni, appunto perché furono (promotori) di detta causa in favore di Fabrizio, in questo caso lo stesso si dice sia della persona delegata che del procuratore.
Al contrario dai testimoni di detta Andriana è pienamente provato che a Venosa non si osserva il diritto Longobardo propriamente nelle successioni, conformemente a quanto depongono Don Giovanni e il notaio Bernardino. Lo stesso dicono per quanto riguarda il mundoaldo, perché anche se la donna ha il marito si suole darle un estraneo; e tuttavia secondo il diritto Longobardo non si dà se non il marito per mundio alla donna coniugata.
Non osta, che il diritto Longobardo sia preposto nel Regno al diritto Romano, infatti tutte le dottrine di Andrea d’Isernia sono eloquenti su questo, ovunque si fondano per mezzo della sola Puritatem costituzione del Regno, da cui se ne deduce necessariamente, secondo il tenore di quella costituzione secondo Bartolo di Sassoferrato, in quanto non prepone indistintamente il diritto Longobardo al Romano; ma qualificatamente, quando dice come la qualità dei litiganti esige; parole che felicemente espone ivi Andrea d’Isernia: colui che vive secondo il diritto dei Francesi, sia giudicato con il diritto Romano, gli altri con il diritto Longobardo; ne consegue che la vera esposizione di quella costituzione per mezzo di quelle parole è qualificativa, così che colui che vive secondo il diritto Longobardo, sia giudicato col diritto Longobardo, e in questo si deroga dalle leggi romane, invece colui che vive secondo il diritto Romano, sia giudicato col diritto Romano; ne consegue, che conviene a chi, si poggia sul diritto Longobardo, provare che la detta Andriana viveva secondo il diritto Longobardo, essendo questo il fondamento della sua accusa; come è stato detto avanti, non ostante, che al contrario sia stato provato (soprattutto nelle successioni) che a Venosa si viveva secondo il diritto Romano. Dunque secondo quello bisogna giudicare. E così la costituzione Puritatem, così valutata va in favore di detta Andriana, e massimamente per quelle cose che dice ivi Andrea d’Isernia, cioè proprio per quello, che una città come sempre ha vissuto e vive, così in essa bisogna giudicare.
Tra l’altro abbiamo un’altra decisione di Andrea d’Isernia dove dice che questo diritto Longobardo è asinino e carente, se non per la massima parte, e perciò nel merito non è osservato ovunque, di conseguenza tanto meno si deve osservare in queste successioni, in cui manca di ogni motivazione giuridica. Inoltre è contro la ratio naturale, che è considerato il più grande vizio in una legge. Le Costituzioni a proposito del donante prima delle nozze, alla fine della colonna dicono che il diritto Longobardo non è legge né criterio di giudizio; e per tanto non è da accogliere in aula.
Inoltre dato e non concesso che tutte le cose dette prima non siano prese in considerazione tuttavia a questo punto il diritto Longobardo non soddisfa il caso nostro, perché è stato espressamente modificato per quanto riguarda le successioni dalla costituzione del Regno…
Infine, poiché il suddetto diritto Longobardo non è utilizzato in specie in questo Regno per quanto riguarda le successioni, aggiungo, che più volte nelle successioni fu deciso dal sacro Consiglio Napoletano, secondo la disposizione del diritto Romano. Per prima cosa adduco due decisioni del Consiglio Napoletano una al numero 125 e un’altra al numero 204 in cui appare deciso che la sorella può impugnare il testamento del fratello che contravviene al dovere, e così deve avere la legittima, perciò ne consegue che poteva succedergli anche se non è stato fatto testamento; perché altrimenti. se non le competesse il diritto di successione, come vuole il diritto Longobardo, che prepone a lei il fisco, non potesse sporgere denunzia per il testamento, e questo è evidente al senso. E lo vediamo molto bene in un caso simile, che la figlia dotata veniva esclusa dalla successione del padre per le Costituzioni.
In altri casi mai si potrebbe dire che il testamento del padre sia nullo, anche fosse stata esclusa in esso, come è la decisione 158 del Consiglio Napoletano. E la ratio è questa, che non le competeva il diritto di succedere al padre, come si dovrebbe dire nel caso della sorella esclusa per il diritto Longobardo, perché non le competeva il diritto di querelare il testamento del fratello, e tuttavia fu deciso il contrario”. Il ragionamento giuridico dell’avvocato Maranta è quanto mai interessante, ma la sua lettura potrebbe riuscire alquanto ostica, per chi non ama le lunghe e articolate disquisizioni. Per questo riporto subito il parere di Roberto Maranta:” Per le cose suddette concludo che la suddetta Andriana equamente ha diritto alla successione all’eredità del suddetto Angelo insieme con il suddetto Fabrizio senza alcuna diminuzione. E così io ritengo sia di diritto”.

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Editorial Review

La riflessione su Maranta

 

Il filosofo Biagio de Giovanni (Napoli 1931) nel 2002 ha pubblicato un interessante libro dal titolo L’ambigua Potenza dell’Europa, quando erano in atto molti cambiamenti politici ed economici nel vecchio continente. Proviamo a rileggere insieme queste riflessioni del filosofo napoletano, raccogliendole sotto forme di domande poste a noi stessi. Riflessioni, che unite alla scorribanda nella storia di Venosa, ci possono essere di aiuto nel prospettare il futuro delle nostre comunità locali.
Che dire della nascita di un principio di “cittadinanza europea”, per dar corpo allo “spazio”, nominato nel Trattato dell’UE? Si dovrebbe cercare di liberare tutte le potenzialità che un principio simile porta con sé, oggi in tempo di storia “mondiale”, di mondo globale, quando lo spazio si apre alle altre nazioni e le garanzie e la sicurezza decrescono.
Perché non approfondire le risorse di un principio, affrontato già dalla Roma imperiale, con il dono della cittadinanza a tutti gli “stranieri”, nel quale un patrimonio culturale è diventato diritto, istituzione, politica? Lo spazio europeo non è forse ancora destinato a dover dire qualcosa che possa contare nella storia del mondo? (pp.29-30).
Gli interrogativi, che l’autore inserisce in molti punti del suo libro e, soprattutto, in quelli più impegnativi, quasi prevengono quelli che possono sorgere spontanei nella lettura. La nuova dimensione dell’Europa andrà vissuta a un più alto livello di unificazione dell’intero sistema, o non sancirà un sistema di differenze tese fino ai limiti di un “possibile” da definirsi?
Perché la potenza dell’Europa è ambigua? La sua ambiguità – afferma il prof. De Giovanni - è interamente consegnata e rappresentata nell’ambiguità del rapporto fra gli Stati e l’Unione…essa è carica di senso, mostra da un lato una tensione verso un carattere ampiamente problematico del rapporto fra sovranità e territorio, dall’altro verso uno spazio territorio propriamente europeo.
L’Unione Europea si trova obbligata a rimettere in discussione il proprio rapporto con l’Europa. Per comprendere quali potenzialità l’idea di Europa ha portato dentro di sé per secoli è necessario l’ausilio della filosofia. Perché –sostiene de Giovanni- l’Europa è anzitutto un’idea prima di essere un fatto, senza la tentazione di una progressione storicistica.
Intorno alla questione della legittimità dell’Europa il ragionamento del prof. De Giovanni si fa più stringente e impegna ad una riflessione che va oltre gli schemi di una pubblicistica spesso fuorviante. Da una parte la difesa dell’autonomia dell’esistenza politica che fuoriesce dalla concentrata potenza dello Stato; dall’altra il processo di “giuridificazione” della politica che toglie la decisione a favore del primato della norma.
Per il prof. De Giovanni è vero “che il tramonto degli Stati nazionali non apre verso quella immaginaria unità…Come se il trasferirsi verso l’alto –l’immaginato diritto internazionale- della normatività e della capacità di decisione costituisse la salutare e semplice premessa per una legittimità globale che potesse finalmente guardare dall’alto ai contrasti dell’umanità nella rappresentazione di un passato finito per sempre.
Tutto ciò ha contribuito all’irrompere dei processi del globalismo e ad un allentamento delle catene di legittimazione, “con una crescita di vuoti che rompe ogni dimora e dunque incrina la sicurezza dell’esistenza”. Perché gli Stati hanno rappresentato i contenitori della democrazia e la loro allentata legittimazione ha rotto lo schema consolidato della rappresentanza politica.
Che cosa rispondere a chi è convinto del tramonto dell’Occidente? Che la Modernità è sdradicamento? E che la cultura moderna ha creato retrospettivamente la tradizione dell’Europa? Che la sua identità o essenza è un mito reso necessario dall’assenza naturale di identità e di essenza?
Il ragionamento che propone il prof. De Giovanni “va nella direzione di una costruzione di senso che può essere colta alle origini del pensiero occidentale e di una identità di Europa che si raccoglie intorno alla comprensione attraverso la storia e all’idea di libertà politica, muovendo dalla storiografia greca e da Machiavelli”.
E la Basilicata, e le regioni meridionali? Quanto mai interessante e utile rileggere quello che scriveva Giuseppe De Luca, il sacerdote nato a Sasso di Castalda nel 1898. Sacerdote dai grandi interessi culturali, in contatto con gli intellettuali italiani più prestigiosi, aveva scritto nei primi anni ’30 questo appunto:
In un abbozzo inedito su Henri Bremond, autore di una monumentale Histoire littéraire du sentiment religieux en France, don Giuseppe De Luca afferma: Io sono dell’Italia meno italiana che esista: dell’ultima Italia che si stende verso l’Africa e la Grecia, stata gran tempo (sinora) l’albergo di vari signori, e mai casa nostra soltanto, sicché sembriamo, noi, senza volto, o almeno nessuno ce ne riconosce uno, solo pensando, ognuno, le successive maschere.
In questo passo, scritto probabilmente nel 1931 o 1932, il prete originario della Basilicata, con la consueta efficacia espressiva, dà conto, in rapidissima sintesi, di tutta la storia meridionale, non dimenticando nessuno degli ingredienti costitutivi: la vocazione mediterranea del Mezzogiorno, gli influssi orientali di derivazione greca e bizantina, ma anche araba e musulmana, le dominazioni che nel corso dei secoli si sono succedute e che hanno indotto taluni a dire, in maniera alquanto superficiale, che il Mezzogiorno non ha un’identità precisa ed un volto ben definito, ma soltanto la fisionomia, che di volta in volta, gli hanno conferito i vari dominatori (G. Maria Viscardi, 2005).
Dovremmo ripartire da questa constatazione di Giuseppe De Luca per dire quello che siamo, e quello che non vogliamo.