10. Tavernola San Felice nel 1754

10. Tavernola San Felice nel 1754

Il Catasto Onciario di Aiello e Tavernola S.Felice è la prima indagine investigativa condotta su cittadini, congiunti e conviventi, attraverso una breve, chiara e distinta sintesi sui beni immobili, e sull’attività esercitata, sulle tasse da pagare nella seconda metà del 1700. Caratteristiche che non escludendo la vivezza della enunciazione formale e la passionalità del piglio giornalistico, forniscono dati quasi mai letti e trascritti prima, che non si esauriscono certo in modo cronologico o con la mera elencazione, ma risultano godibili, per la ghiotta disponibilità di fatti, di evocazioni gustose e acute, annotazioni riferite alla nostra Aiello e alla nostra Tavernola a quei tempi Casale autonomo anch’esso dello Stato di Atripalda.
Cosicchè dalla trattazione non spunta il ventaglio delle considerazioni, non la cattiva abitudine degli storici locali dell’eccessivo consultare di libri consunti, che pure necessitano, ma la vivacità e il colore scavato nei tomi originali, finoggi tenuti sotto chiave, ed ora tirati a lucido per l’occasione. Un merito che va tutto ad onore del gruppo di lavoro, che si è sobbarcato con perizia e volentieri la fatica, basato, ricordiamolo, sul costante scrupolo della trascrizione al fine di fornire conclusioni assolutamente di prima mano.
Chiude questa edizione sul Catasto di Aiello, come tutti i singoli comuni dell’ex Regno di Napoli, l’affascinante raccolta di curiosià sui capifamiglia, nome per nome, con l’età e l’attività svolta dai membri del “fuoco”, per portare a conoscenza di noi eredi non un elenco listato a lutto di fronte alla storia con la S maiuscola, ma il valore, l’ardire di ogni singolo avo, quell’essere stato artefice, più che oggetto, nella consapevolezza, oggi, da parte dell’uomo, della continua ricerca delle proprie radici…
E’ IL lavoro certosino di un Editore (che è diventato mio amico) e del suo Gruppo Lavoro che rappresenta la pietra miliare per chiunque della mia cara Comunità voglia fare “un giro nel passato”…per comprendere da dove veniamo, non solo come Storia ma sul piano sociale, di economia locale e demografica.

Dott. Antonio Felice Caputo
Già Sindaco di Aiello del Sabato

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50. BELLIZZI NEL 1753

50. BELLIZZI NEL 1753

Bellizzi era un paese distaccato da Avellino

Alla fine del V° secolo, i cittadini di Abellinum iniziarono ad abbandonare le case, per le scorrerie dei barbari e ladroni e si trasferirono più ad ovest, sulla collina “La Terra”, borgo che diverrà poi, con il passare dei secoli, il capoluogo Irpino.
La città ha visto nella sua storia il passaggio di diverse civiltà. Fu centro religioso importate sin dal VII° secolo, quando le venne assegnato il ruolo di sede vescovile, cioè sede del potere religioso e di quello temporale. Per tutto il lungo periodo del medioevo Avellino era rimasta arroccata intorno alla Cattedrale sull’amena collina “La Terra”, completamente delimitata da una cortina di vecchie casupole, alcune in pietra e la maggior parte in legno, cinta da solide mura, ove si rifugiavano i contadini in caso di guerra, circondata da campi coltivati e vigneti ad un altitudine di 350 metri sul livello del mare. Ai piedi della collina si ergeva un maestoso maniero, residenza dei vecchi feudatari. Verso l’8° secolo venne conquistata dai Longobardi di Benevento. Successivamente fu dei dell’Aquila, dei de Balzo e dei Filangieri.
Con l’avvento, nel 1589, della potentissima e ricca famiglia dei nuovi feudatari, i Caracciolo, iniziò un risveglio generale ed un fervore di iniziative, dovuto all’intraprendenza della popolazione che voleva uscire dalla vecchia miseria ed alla determinazione dei Caracciolo a modernizzare e rendere più vivibile la città. Tutto ciò fu agevolato anche dall’invidiabile posizione strategica del luogo, posto ala confluenza di due fiumi, il Rio Maggiore e il Rio Cupo, dall’esistenza di tre strade che controllavano il transito per Salerno, Napoli e Benevento, dalla vicinanza di grossi centri di consumo, come Napoli capitale del Regno.
La ristrutturazione, da parte degli Angioini nel 1560, della strada Regia delle Puglie, che divenne carrozzabile, agevolò di molto il commercio ed in particolare il trasporto del grano dalle Puglie alla Dogana di Avellino. Con l’esplosione della popolazione, subito dopo la peste del 1656, la città ebbe una forte crescita commerciale. Questo portò alla creazione di un esteso tessuto industriale che aprì la città a molti commercianti locali e internazionali, che venivano per acquistare panni di lana, all’epoca molto pregiati, grano alla Dogana, all’epoca una delle più importanti del Sud, e ferro lavorato nelle molte ferriere che i Caracciolo avevano aperto. Per non bloccare la ripresa economica in atto, per dare l’avvio ad un ulteriore sviluppo era necessario uno spazio libero e pianeggiante, perché il centro antico, densamente popolato, non reggeva più ai tempi.
C’era estremo bisogno di costruire nuove industrie artigiane, ampliare le vecchie, impiantare nuove botteghe, costruire nuove e più moderne abitazioni e nuove stalle e taverne per accogliere i molti commercianti che si recavano in città per i loro affari.
A conferma di quanto sopra esposto, trascrivo un documento del Ministero e Real Segreteria di Stato degli Affari Interni, tratto dall’Archivio di Stato di Avellino, Intendenza busta n°172, fascicolo 643.
Napoli 12 Dicembre 1835, Signore a seconda di quanto ella ha esposto col suo rapporto segnato al 7 Ottobre, il quale mi è pervenuto al 9 Novembre ultimo, l’autorizzo a disporre che il progetto approvato con ministeriale del 26 Aprile 1834, per la costruzione di 15 botteghe dinanzi al palazzo dè Tribunali di questo capoluogo (accosto al Monastero di S. Francesco) colla spesa di ducati 4.196, già riformato nel modo da lei indicato, cioè che invece delle 15 botteghe se né formino dodici, che col risparmio che si otterrà da tale riduzione, e con qualche supplemento si costruirà a basolato calcario la copertura delle botteghe medesime, e non già a selciato come era stabilito nel primitivo progetto…. Bisogna quindi portarsi prestamente ad esecuzione tanto più che si trova anche approvata la spesa… Le osservo poi che riducendosi il numero da 15 a 12, e costruendosi più condizionatamente, né dovrebbe risultare conseguentemente per ciascuno un affitto oltre ducati 50 [F.to Santangelo].
Questo spazio libero e pianeggiante fu individuato verso porta Napoli, all’altezza dell’attuale Prefettura, lungo la strada Regia, che da Napoli portava ad Avellino raggiungendo Bisceglie.
Esso originariamente era chiamato largo dell’Annunziata, perché vi era il Convento della S.S. Annunziata dei P.P. Predicatori, successivamente Largo, piazza dei Tribunali ed oggi piazza Libertà.
Fino dall’inizio dell’Ottocento esso spazio segnò i limiti dell’espansione urbanistica. Lentamente, il cuore civile ed amministrativo della città si spostò verso questa nuova zona, anche in conseguenza dei due disastrosi terremoti che si susseguirono nel 1688 e nel 1702, che danneggiarono gravemente il centro storico. Questi eventi accelerarono il progetto di rinnovamento urbanistico e di modernizzazione della città elaborato da quella illuminata e ricca dinastia che furono i Caracciolo.
Nel 1710, iniziò la costruzione della nuova e più bella residenza dei Caracciolo in Piazza Libertà, seguita subito dopo dalla costruzione, da parte dei privati, di nuove e più moderne case.
Nel 1735, nel nuovo palazzo, i Caracciolo ricevettero Carlo III° di Borbone, evento che intendeva segnare un deciso spostamento del centro direzionale della Città. Con questo iniziò l’abbandono del vecchio borgo, con i gradoni, gli angiporti ed i piccoli violetti, bianchi di polvere e di pietre che avevano resistito per secoli.
Sono stati indispensabili, per concludere questa mia breve ricerca, lo studio della pianta del Largo del 1765, ritrovata nell’Archivio di Stato di Avellino, e del Catasto Onciario del 1745 (questo sistema sostituiva quello più antico dei fuochi o tassa focatica). Il catasto si è rilevato di grande interesse per conoscere notizie autentiche ed inedite in merito alla composizione familiare, al reddito, alla professione ecc. delle famiglie residenti nella piazza (nel 1765 la popolazione di Avellino era composta da 1.052 fuochi, con una popolazione di 8.700 abitanti).
Mentre la pianta del Largo, presenta uno spaccato vivo di come era la piazza nel 1765, viene allegata in calce, si riportano di seguito gli elementi del Catasto Onciario.

2. I monumenti nella cartina di Piazza della Libertà
1) Palazzo Baronale sito e posto in detta Città nel luogo detto il Largo quale serve per uso proprio, nella parte antistante dalle rivele è detto Alloggio Baronale. quando dimora in questa Città. Possiede un basso per uso osteria sita alla Piazza detto il fosso, affittato a Nicola Baratta. Casa e bottega per uso ferriera sita alla Pontarola affittata a Giuseppe Vigilante. Una osteria per uso di tinteria sito nel luogo detto la Tinta, affittata al Magnifico Domenico Iannaccone.
2) Monistero di San Domenico dell’Ordine dei Padri Predicatori possiede una casa attaccata al medesimo monastero, un comprensorio di case al Largo, un’altra casa alle Cannelle e numerose rendite annue per un totale di 941,20 da diversi.
3) Il Venerabile Conservatorio di Monache et Educande sotto il titolo dell’Immacolata Concezione di Maria possiede un comprensorio di case alla piazza, due case allo Casale (in una abita una serva gratis), due botteghe site al Largo, due case al Conservatorio, un comprensorio al Cortile, tre botteghe alla strada della fontana, due magazzini con camera dietro la Dogana, due osterie e un sottano, oltre vari territori.
4) Il Venerabile Convento della S.S. Annunziata dei P.P. Predicatori possiede un comprensorio di case al Largo, due stanze di case per uso magazzini sotto il Convento, bassi di case alla strada delle Campane, due case alla Cupa, una casa alle tre Cannelle e una casa alle Carceri.
5) Il Venerabile Monistero di Donne Monache di clausura sotto il titolo di S. Maria del Carmine possiede casa allo Casale, una casa Palizzata alla Strada della Piazza più sottano per uso di bottega, una casa al Largo della Nunciata, tre botteghe alla strada della Piazza, due stalle alla Beneventana e dietro la Dogana, un cellaro a Rio Cupo, una casa alla Porta della Terra e vari terreni.
6) Il ferraro Adrea Saggese del fu Giacomo di anni 45, abita in casa affitto alla Strada del Largo e paga once 16. Vive con la moglie Giovanna Siniscalco di 40 anni e i figli Pasquale di 11 anni, Giacomo di 3 anni, Costantina vergine in capillis di 15 anni, (in età di matrimonio), Rosa di 12 anni, Giusepe di 8 anni e Fortunata di 6 anni.
7) Il mastro falegname Andrea Iandolo di 64 anni, abita nella casa propria e ne possiede un comprensorio al Largo, un basso affittato a Francesco Lepore, un soprano affittato, un cellaro e tre stanze affittate per totale di 157,10 once. Vive con la moglie Orsola Genovese di anni 40 e la figlia Carmina di 8 anni. Con lui anche i figli lavoranti falegname: Pietro di 23 anni, Agostino di 20 anni, Vincenzo di 4 anni, e le figlie in capillisi Petronilla e Giuseppa di 18 e 14 anni, Angiola e Carmina di 10 e 8 anni.
8) Il lavoratore di chiavettiero Antonio Falcetano, del fu Giovanni di 60, anni abita in casa affitto allo Largo e paga once 48. Vive con la moglie Vittoria Luciano di 58 anni e i figli Andrea di 30 anni lavorante di cortellaro con la moglie Atonia Tolinodi 23 anni, Domenico lavorante di chiavettiero di 22 anni e Geronimo lavorante cortellaro di 18 anni.
9) Il cardalana Carlo del Gaizo del fu Andrea di 54 anni abita in affitto à Largo e paga once 18. Vive con la moglie Angiola Battista di 60 anni, la figlia Teresa in capillis di 20 anni e il nipote cardalana Grillo di 17 anni.
10) Il bracciale Francesco Festa fu Giuseppe di 50 anni abita in casa propria al Largo e possiede alcuni terreni pagando once 91. Vive con la moglie Teresa della Bruna di 45 anni e i figli: Chiara in capillis di 15 anni, Santella di 12 anni, Domenico fratello bracciale di 35 anni sposato con Chiara di Argento di 45 anni dalla quale ha avuto: Giuseppe, Pasquale, Angiolo e Nicola di 15,13, 11, 9 anni.
11) Il cuciniere Francesco Lepore fu Carmine di 22 anni abita in casa affitto al Largo e viene tassato per un reddito di 44,20 ance. Vive con il fratello Pasquale lavorante scarparo di 20 anni, la sorella in capillis Alessandra di 18 anni e la madre Teresa Soreca di 40 anni.
12) Il professore delle leggi magnifico Francesco Antonio del Gaudio fu Nicola di 20 anni abita in casa propria al Largo, possiede casa alla strada della Ferriera, terreni e selve a lo Bosco, li Gregari e lo Bagnulo. Viene tassato su un totale di 111,20 once che dichiara. Vive con la sorella suor Maria Candida bizzoca di 34 anni, la sorella bizzoca suor Maria Scolastica di 32 anni, lo zio inabile Domenico di 70 anni, il fratello canonico Don Marco Antonio di 42 anni, la madre magnifica Teresa Laviello di 67 anni, la bizzoca domestica suor Colomba Todisco di 33 anni, i servitori Filippo Parziale di 17 anni e Alessandro Marena di 14 anni, e il garzone Catiello dè Manzi di 24 anni.
13) Il bracciale Gennaro Luciano fu Flaviano di 42 anni abita in casa d’affitto a Largo e possiede due territori e selve allo Bosco pagando once 62. Vive con la moglie Angiola Noviello di 45 anni e i figli: bracciali Francesco Antonio e Pasquale di 18 e 16 anni. Vincenzo Michele di 9 anni e Maria Rosa di 6 anni.
14) L’armigero caporale Giuseppe Troisi fu Domenico Antonio di 55 anni abita in casa di affitto a Largo e paga per 15 once. Vive con la moglie Caterina Imbimbo di 55 anni e i figli: lo scolaro Francesco Antonio di 17 anni, Domenico di 10 anni, il diacono Don Simone di 23 anni.
15) Il fabbricatore Lorenzo Visconti fu Felice di 60 anni abita in casa propria al Largo e paga per 18 once. Vive con la moglie Teresa Cesa di 50 anni e il figlio Vitantonio manipolo di 14 anni.
16) Il solapianielli Luca Todesco fu Carlo di 50 anni abita in casa d’affitto à Largo e paga 29,20 once. Vive con la moglie Antonia della Bruna di 49 anni e i figli: Carlantonio di 12 anni, Rosa e Angiola in capillis di 18 e 16. Giuseppa di 9 anni, Gelsomina di anni 3, il cognato bracciale Giacinto della Bruna di 22 anni, la suocera Angiola Pugliese di 70 anni e la zia vedova Catarina Pugliese di 65 anni.
17) Il fornaio Modestino Bellabona del fu alias di Panto di 66 anni abita in casa affitto al Largo compra e industria nocelle pagando per 59,20 once. Vive con la moglie Orsola Luciano di 66 anni, suor Agnese Luciano cognata bizzoca, Domenica di 70 anni, la nipote Rosa Santucci di 20 anni col marito Luca Cocco sartore di 29 anni con la madre Orsola Latino di 65 anni.
18) Il Passasemola Modestino Gagliardo fu Onofrio di 50 anni abita in casa affitto al Largo e paga 30 once. Vive con la moglie Dianora Galasso di 52 anni e i figli : il lavoratore semmolaro Giuseppe di 14 anni, il lavorante semmolaro Pasquale di 18 anni, Teresa e Rosa di 18 e 16 anni, Carmena di 10 anni e la madre vedova Anna Vitello di 80 anni.
19) il piperniero Nicola Guerriero fu Andrea di 45 anni abita in casa propria al Largo, venendo tassato per un reddito imponibile di 45,20 once. Vive con la moglie Teresa d’Offeria di 40 anni e i figli: pipernieri Pasquale e Michele di 20 e 18 anni, Antonio di 13 anni, Andrea di 8 anni, Modestino di 2 anni, Agnese di 15 anni, Isabella di 10 anni, Lucia di un anno. Con lui la madre di 86 anni.
20) Il mastro d’ascia Nicola Saggese fu Giacomo di 50 anni abita in casa affitto allo Largo e viene tassato per 27,20 once. Vive con la moglie Giovanni Tulimieri di 78 anni.
21) Il dottore magnifico Don Pasquale Testa di Alessandro di 32 anni abita in del fratello reverendo e possiede casa al Largo della Nunciata e numerosi moggi di territorio pagando per 83 once. Vive con il fratello reverendo Don Nicola primicenio cantore di 45 anni la madre Vittoria del Gaizo di 75 anni, la cognata vedova Antonia Carpentiero di 50 anni, il nipote Domenico Testa di 12 anni e la zia vedova Cecilia del Gaizo di 55 anni.
22) Il portarobbe Pietro Berlingiero fu Geronomo di 48 anni abita in casa affitto al Largo pagando 12 once. Vive con la moglie Rosa Luciano di 40 anni, il disabile Geronimo di 14 anni, Pasquale di 10 e Teresa di 2 anni.
23) Isabella Mascolino di 60 anni, vedova di Felice Pellecchia abita in casa affitto al Largo insieme alla nuora Mattia Peluso di 40 anni, moglie di Giuseppe Pellecchia, forgiudicato [fuori giurisdizione]. Con loro abitano i figli di Mattia: Alessio, Nicola, Rosa in capillis, Carmena e Fortunata di 13,8, 17, 10 e 5.
24) Il bracciale Gennaro Luciano fu Flaviano di 42 anni abita in casa affitto à Largo e possiede due territori e selve allo Bosco pagando 62 once. Vive con la moglie Angiola Novello di 45 anni e i figli: i bracciali Francesco Antonio e Pasquale di 18 e l6 anni. Vincenzo Michele di 9 anni e Maria Rosa di 6 anni.
25) Domenico Marica, di Serino, di 55 anni, abita in casa affitto del magnifico Martino Russo sita al Largo, insieme alla moglie Maria Iandolo di 60 anni e al figlio Donato di 28 anni sposato con Atonia Ziccardo di 29 anni.
26) Gaetano Samuele, Napoletano (cioè della città di Napoli), di 40 anni abita in casa affitto del Canonico di S. Giovanni di Dio sita al Largo. Vive con la moglie Giuditta Picaro di 35 anni e i figli: Donato,Marco e Rosa di 13,7 e 10 anni.
27) Modestino Gamberino, di Norcia, di 45 anni abita in casa affitto allo Largo con la moglie Teresa Baldassarre di 50 anni.
28) Il Fornaio Nicola Spagnolo fu Carlo di anni 54 abita in casa propria al largo venendo tassato per 48,10 once . Vive con la moglie Rosa Carpentieri di 52 anni e i figli: Lorenzo di 14 anni, Giuseppa di 19 anni,Geronima di 18 anni, e la nipote Maria Agostina di 5 anni.
29) Giuseppe Rossi di… anni, tiene in affitto al Largo, angolo strada pubblica, che si dice alla Ferriera, a Michele Baratta, una Osteria con cucina, taverna, con stanze e loggette ed altre comodità……….

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32. Carovigno nel 1741

32. Carovigno nel 1741

FORESTIERI E COME ESEMPIO I LUOGHI DI: Torre S. Sabina, S. Angelo, S. Caterina, S. Stefano, Chiesa Madre, S. Nicola

Non resta che osservare in che modo hanno cambiato la consistenza dei quartieri solo quanti dei 38 ferestieri residenti (laddove è indicata la casa di residenza) non abitano in casa di parenti acquisiti, in quanto gli ulteriori 100 forestieri bonatenenti risiedono nel comune di provenienza, con ulteriori forestieri aggiunti fra cui il Notaro Giuseppe Vito Franco Carella, il dottore fisico Filippo Lannicandro di Mola, il dottore Carmine di Leo proveniente da San Vito.
Questi i nomi dei forastieri abitanti laici: Angelantonio Lo Rizzo di Ostuni, Carlo Andriano di San Vito che abita alla strada del Pozzillo, Catalfo Gioja di Ceglie che abita in Casa della Barolal Corte, Carlo Maria d’Ippolito di Fra[cavi]lla che sta a casa della suocera Vittoria Leo, Carmelo Ferrara di Ostuni che abita in casa di Giuseppe Capriglia, Donatantonio Anglano di Ostuni, Domenico Pipino di Ceglie, Franco di Tommaso di San Vito, Filippo Faragone di Ostuni, Franco La Fornara di Martina sulla strada del Forno Vecchio, Giuseppe Giovanni di Moda di Francavilla che abita al vicinato di San Nicola, Giorgio Perrino di Fasano al vicinato del Castello Baronale, Giuseppe Carriere di Francavilla, Giuseppe di Milato di Francavilla, Giacinto Sorrentino di Cava, Giacomo Bruno di Francavilla del vicinato di Sant’Angelo, Giovanni Pasino di Ceglie al vicinato di San Martino, Ignazio Giannattasio di Napoli alla strada di San Martino, Luca Prudentino di Ostuni al vicinato dell’Ospedale, Leonardo Galasso di San Vito alla strada delli Pilella, Lonardo Verna di Ostuni alla strada del Paradiso, Nicola Minnelli di Francavilla, Nicola Piccolomini di Montecalvo al vicinato del Campo Sibilia, Nicola Castagnero di Savignano al vicinato di Campo Sibilia, Oronzio La Quintana di Ostuni al Campo di Sibilia, Orazio Saponaro di Ostuni alla strada del Soccorso, Oronzio Tingaro di Ostuni alla strada delle Case Nuove, Oronzio Stanca di Solito alla strada di Campo di Sibilia, Pietro Li Noci di Ostuni alla strada della Pizzica, Pasquale Castagnero di Brindisi, Pascale Barrella di Latiano al vicinato delle Case Nove, Paulo Pevrino di Fasano al vicinato del Castello, Pascale Aniello di Ostuni alla strada di Santo Stefano, Salvatore Ciano di Calviello alla strada del Soccorso, Santo di Latte di Novoli al vicinato del Castello, Salvatore di Latte di Novoli alla strada di Sant’Angelo, Vito Inzano di Squinzano al vicinato di San Martino, Vito Catanerò di San Vito al vicinato di San Nicola.
Risultano forastieri bonatenenti laici: l’Illustre Principe Don Giuseppe Marchese che possiede la Massaria oggi chiamata Poggioreale di tumola centossessanta di terre, serrate ed aperta.
Antonio Spagnolo, Antonio Spagnolo, Angelo Franco Pizzigallo, Ambrogio di Petto, Antonio Pippa, Antonio di Domenico commerciante a San Vito, Angelo Ruggiero, Anna d’Errico, Antonia Maria di Vito, Carmenia Memmola, Carmela Memmola, Caterina dell’Imbrici, Crescentia Sardelli, Donato di Tommaso, Domenico Sarracino, Donato di Luca, Domenico Oronzio, Domenico Carrone, Elisabetta Mingolla, Emanuele Catamarò, Francesco Pavolo Mingolla, Federico Chionna, Ferdinando d’Agnato, Francesco Maria Ruggiero, Francesco Filla, Francesco d’Errico, Francesco Pippa, Giovannantonio Preite, Giovanni Affarano, Giuseppe Ruggiero, Geronimo Sticchi, Notaro Giuseppe Vito Franco Carella, Giacomo Marrazzo, Giuseppe Cavallo, Gianbattista Ruggiero, Giovanni di Tommaso, Giuseppe Carmine Candanella, Giacomo Massaro, Giovanni Scarano, Giuseppe d’Orlando, Gloria Mingolla, Giuseppe Oronzio Memola, Giuseppe Vito Pila, Giuseppe Bianco, Gianbattista di Nisio proveniente da Netto di San Vito, Giuseppe Canta, Lorenzo Vita, Lucia Teresa Cappone, Leonardantonio Martino, Leonardo Giovanni Memola, Marcantonio Trezza, Marco d’Orlando, Marco Piccigallo, Michele Poci, Nunzia Sardelli, Nicola Cocchiara, Nicola Marazzo, Nicola Caggiulo, Orsola Maria di Luca, Onofria Sardelli, Pascale Scarano, Paulo Roma, Palma Valente, Pascale ed Antonia Caliolo, Pietro Epifani, Pietro Pecoraro, Pietro di Leo, Paulo di Leo, Pietro di Leo, Santo di Leo, Stefano Scarano, Stella galasso, Sabina Bottara, Scipione Coleccio, Salvatore Piccigallo, Stella Mingolla, Teodoro Francavilla, Tommaso Michele, Vitomodesto Cavaliero, Vitogiacomo Rutigliano, Vito Cavaliere, Vito Nicola Misa, Vito Greco, Vito Saracino, Vito Galasso, Vito Elefante, Vitopietro Ruggiero, Vito Mapullo, Vito di Luca, Vitodomenico Valente, Vitantonio Ruggiero, Vittoriamaria Marazzo e Donato Ruggiero d’Angelo, Vitantonio Ruggiero, Francesco Vazano di Ostuni, Santo Carluccio di Ostuni, Domenico Caliardo di Ceglie, Felice Minore di Ceglie, Giovanni Santabarbara di Brindisi, dottore fisico Filippo Lannicandro di Mola, Pietro di Lumma di Francavilla, Pietro Oronzo Filomena di Francavilla, Tommaso Sica di Francavilla.
Risultano possedere beni a Carovigno: gli eredi del fu Domenico Chionna di San Vito, Giovanni Chionna di San Vito, Don Carmine Natto di San Vito, Giovanni Sardelli di San Vito, Vincenzo Carella e Vito Ruggiero e Don Francesco Paulo de Leonardi proprietari in comune tutti di San Vito, Elisabetta Fredi di Santovito, Maddalena e Anna Carbone proprietarie in comune entrambe di San Vito, Angelo de Leonardi di San Vito, Caterina Freda di San Vito, Francesco Cavaliero di San Vito, Vito Gatto di San Vito, Vito Leo alias Annuviato di San Vito, Francesco Sardelli di San Vito, Don Giuseppe Gaetano Sardelli di San Vito, gli eredi di Giuseppe Santo di San Vito, il beneficio deli Giandoni, Don Ignazio Catamerò di San Vito, Francesco Carella di San Vito, Giovanni Chionna e il padre Don Giulio Chionna di San Vito, Antonio d’Adamo di Carovigno commerciante in San Vito, Mastro Giro di Leo di San Vito, Sebastiano Cavaliero di San Vito, gli eredi di Oronzio Barbaro di San Vito, gli eredi di Antonio Galasso di San Vito, il beneficio di San Giacomo di San Vito, Salvatore Gaeta di San Vito, Nicola Gaeta di San Vito, il dottor Don Carmine di Leo di San Vito, Lonardo Muscio di San Vito, Vito Catarriello di San Vito, il beneficio detto di Autigno, gli eredi di Carlo Cimino di San Vito, Giuseppe Giovanni de Leonardo di San Vito, Giovanni Santabarbara di Brindisi, Mario Petrelli di Ostuni, Giovanni Greco di Ostuni e altre sedi ecclesiastiche già nominate altrove.
In defintitiva i forestieri erano andati ad ingrandire il Campo di Sibilia, le vicinanze del Castello, il Soccorso, San Martino e San Nicola, senza mutare l’assetto urbanistico. l’assetto urbanistico di Carovigno è il seguente:
– 35 fra vicinato e lungo la strada del Carmine,
– 29 fra vicinato e strada di San Martino,
– 26 alla strada del Soccorso,
– 25 fra vicinato e lungo la strada di Sant’Angelo,
– 23 fra strada e vicinato delli Pilella,
– 22 fra strada, vicinato e Forno Vecchio,
– 21 davanti, dietro, nel vicinato e sulla strada della Chiesa Matrice,
– 20 fra lungo la strade e al vicinato della Pizzica,
– 19 proprio nel luogo, strada e vicinato del Campo di Sibilia,
– 16 fra vicinato e strada di San Nicola,
– 14 fra Casa baronale, piazza e vicinato della pubblica Piazza,
– 12 al vicinato e strada del Castello Baronale,
– 11 fra strada, vicinato e una proprio in Santa Caterina,
– 11 al vicinato della Case nuove,
– 9 fra forno, strada e vicinato del Forno (delli Brandi?),
– 8 alla strada del Pozzillo o Puzzillo,
– 7 fra vicinato e strada del Casolaro,
– 7 alla strada della Chianca,
– 7 fra strada e vicinato dei Molini,
– 7 fra trappeti, strada e vicintao delli Trappeti,
– 6 alla strada dei Chiazzarelli o Piazzarelli,
– 6 fra vicinato e strada dell’Ospedale,
– 5 alla strada di Santo Stefano,
– 4 fra strada e vicinato del Trappitello,
– 3 alla strada di Rotondo,
– 3 alla strada dei Ferri o della Fierra,
– 1 vicinato dell’Arcolello,
– 1 sulla strada di Erriquez,
– 1 al vicinato della Mara Universale…………

Continua
07. Lapio nel 1747

07. Lapio nel 1747

LA COMUNITA INTORNO ALLA CHIESA E ALLA PIAZZA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In questi anni ogni paese è davvero uno stato a se. Sarà sempre meglio quindi distinguere prima la Chiesa parrocchiale, così come accaduto per altri luoghi, perchè una Parrocchia può essere anche vacante e la Chiesa principale funzionare lo stesso, come abbiamo sottolineato anche oltre la montagna del Partenio, da Caserta a Mugnano del Cardinale, in quanto vanno sorgendo in essa Cappelle e Congregazioni di monti frumentari, rette da laici, talvolta indicate con nomi diversi, con decine di ecclesiastici che ci girano intorno.
Da una parte il resto della Montagna di Montefusco fino a Torrioni,12 con la parrocchiale di S.Angelo che possedeva terreni fino a Tufo, di proprietà e non, in quanto alcuni risultano a censo ed appartenenti al Barone Piatti.13 Nessuna confusione, quindi, neppure con Toccanisi, dove la Parrocchiale, nel Catasto di quel paese, è intitolata a San Giovannin in Cotoli.14
Un quadro completo lo si ha proprio dai Catasti, nella sezione relativa ai beni di Chiese, monisteri, Badie, Beneficij e Luoghi Pij.15
Del resto, i parroci, sono coloro che già registravano i cittadini, fra libri di nati, morti, matrimoni, etc. Ed anche per il Catasto, stavolta in collaborazione con il parroco, ma in forma civile, ogni residente è addirittura obbligato a dichiarare i beni posseduti, come si legge negli atti preliminari, dov’è allegato il singolo atto di fede di ogni cittadino, cioè l’impegno scritto, a cui spesso si rimanda, giusta la fede, quella degli atti preliminari. Ed è partendo da queste dichiarazioni, cioè dalle rivele effettuate dai cittadini (quasi sempre spontanee), che le commissioni poterono redigere i catasti in tempi brevi per l’epoca, benchè in alcuni casi furono terminati dopo molti anni: Lapio consegnò nel 1753 un tomo che, al contrario di Caserta, per esempio, non ebbe bisogno neppure delle sezioni dei volumi catastali denominate Repertori.
L’Onciario del nostro comune fu denominato I. M. J. / Catasto Generale di Lapio / 1747, archiviato come Lapio (Av) – Vol. N°.5016 / Distretto di S.Angelo dei Lombardi / Principato Ulteriore. E, a seguire cominciano i nomi: Angiolo Caprio, Alessandro Iannino, Angiolo de Cristofano… Vengono quindi dichiarati gli Apprezzatori e i Deputati che hanno redatto materialmente il Catasto, con la variante degli Estimatori, come accaduto per Torrioni,16 che, pur non essendo divisa in rioni, ma per luoghi, fra Cima, Mezzo e Piedi Casale, oltre la più lontana Tuoro, è rappresentata dalla massa di braccianti e da rari magnifici, compresi gli inabili (non lavoratori disabili e ultra sessantenni) e i minori (eredi senza lavoro), comunque lontani dai grandi numeri dei ricchi comuni di Terra di Lavoro.17
Viene dato quindi inizio alla redazione del Catasto, chiaramente diversa dai numeri delle 6.129,21 e 1/2 once dichiarate da Torrioni,18 cioè dalla sommatoria di tutti i redditi imponibili, a cominciare da quelli dichiarati dal singolo capofamiglia.19
L’aggregazione ecclesiastica di Lapio più attiva, dal punto di vista economico, è rappresentata dal Venerabile Convento de’ Padri Minori Conventuali di S.to Francesco sotto il titolo di Santa maria degli Angioli. Esso possiede beni a Pepari, Arianello, Tognano, Bordovano, Stazzone, Bosco, Toppola d’Angelo, Santo Ercolano, Vallo, Fontanavecchia, Santo Nicola, Petrariello, Forchia, Monte, Fratta, Acigliano, Brancale, La Selva del Convento, Santo Felice, Vallavano, Citro de’ Mantri, Pozzillo e Ferruma. Ha ance case date in affitto ad tempus nelle località di Palazzo, Arenella, Pantanielli e Sterparo, seu Taverna; e case concesse in enfiteusi nei luoghi di Palazzo, Arenella, Pantanielli, paradiso e Sterparo. Il Convento di San Francesco possiede anche numerosissimi territori a censo enfiteutico, dichiarando in totae rendite annue pari a once 1639.4 e 1/2.20
Vi è poi la Venerabile Chiesa sotto il titolo di Santa Maria dello Reto eretta dentro l’abitato di questa Terra a Sterparo. Essa possiede territori a Ferrunma, Lenze, Canneta, Ortale, Tognano, Santo Ercolano, Santo Martino, canfora, Santa Lucia, Paradiso, Carpignano e Pantana, oltre le case all’Arenella, dichiarando un reddito di 81.4 once.21
Nella Venerabile Chiesa Madre sotto il titolo di Santa Caterina Vergine e Martire sono raggruppate tre Cappelle. La prima è la Cappella di Santa Maria della Neve che possiede territori a Austelle, Campo di Lupo, Fornace, Brancale, Pantanielli, Tognano, Pozzillo, Scarpone, Sterparo, macchie, Serroni, Vigna alli Serroni, Toppola d’Angelo, Macchia di Fezza, Santo Nicola e Santa Lucia, con numerose rendite annue, dichiarando un reddito di 260.13 once. L’altra Cappella del SS.mo Corpo di Cristo possiede invece beni a ferruna, gaudio, Serruni, Santo Nicola, Orto d’Ognico, Pantanielli, Tuoro, Fontana Vecchia, Cerreto, Campo dello Monaco, con una casa a Porta di Piedi, dichiarando un totale di once 204.16 e 1/2. L’altra Cappella di Santo Filippo Neri ha etrritori a Paterno, Airella e Acigliano, dichiarando once 16.18 e 1/2.22
A Porta di Piedi v’è infine la Cappella seu Beneficiato di Santa Maria delle Grazie eretta dentro l’abitato di questa Terra a Porta di Piedi che possiede territori a Brancale, Morticchiano, Serroni, Monticella e Scarpone, ed ha case ad Airella e Porta de Piedi, dichiarando un totale di once 47.27 e 1/2.23
Vi sono anche beni sul territorio che appartengono a luoghi pii forestieri per un totale di 398.28 once e 1/2 di reddito imponibile dichiarato. E’ il caso del Collegio di Santo Spirito di Benevento che ha una rendita da 33.10 once e del Collegio di Santo Bartolomeo Apostolo di Benevento che ha una rendita di 50.25 once. Vi sono poi diverse venerabili chiese come: la Chiesa sotto il titolo di Santa Margarita di Santo Giorgio della Mulinara che per capitale dichiara 17.15 once; la Chiesa Colleggiata della Pietra de’ Fusi che ha rendite da 100.25 once; la Chiesa di Santa Maria del Carmine eretta in territorio della terra di Santo Mango che ha territorio a Isca seu Auciello; la Chiesa di Santa Maria degli Angioli della Terra di Chiusano che ha territorio a Verzara. Vi sono poi i Venerabili Conventi come: il Convento di Montevergine sotto il titolo di Santo Guglielmo da 4.25 once; il Convento di Montevergine sotto il titolo di Santa Maria dello Reto di Montefalgione con Selva ad Acquara che dichiara 78.10; il Convento di Montevergine della Candida con territori a Tuoro e Acqua dell’Ausielli da 59.18 once; il Convento della SS.ma Trinità della Cava per l’Orto d’Ognico e Ferriera; il Convento di Santa Caterina di Siena delle Moniche di Montefuscoli da 6.20 once. Infine v’è la Cappella di Santo Antonio della terra di Chiusano con territori a Auciello e Saudoni da 35.10 once.24
Beni di una certa importanta sono anche quelli posseduti da Mense Arcipretali ed Ospedali del Paese Forastiere. Si tratta del Pio Ospedale a Porta de Piedi che possiede casa a spedale con innumerevoli esigenze di capitali per case e territori affittati da 252.3 once. V’è poi la Chiesa Arcipretale sotto il titolo di Santa Caterina Vegine e Martire di questa Terra di Lapio con casa e Orto d’ognico, Palazzo e vari territori, numerose case e territori per cenzi enfiteutici e redimibili, dichiarando once 372.1 e 5/12. Infine vi sono la Venerabile Chiesa Arcipretale di SS.Mango con territorio a Chiaire da 6.20 once, e la Venerabile Chiesa Madre Arcipretale sotto il titolo di Santo Vitagliano della Terra di Parolisi con territorio a Pietra Chiana seu Auciello da 66.20 once.25

4. Il cittadino più ricco è il feudatario: Don Gaetano Filangieri
Non v’è dubbio che fra i vari signorotti che si aggirano in paese colui che merita davvero il titolo nobiliare è l’Eccellentissimo Signore Don Giovanni Gaetano Filancieri: utile Padrone e possessore di questa Terra di lapio e Principe d’Arianiello. E’ lui che possiede nel tenimento e territorio di questa predetta Terra di Lapio li seguenti Beni Feudali. Si tratta di diverse cose, dalla la giurisdizione Civile, Criminale e Mista, col mero e misto imperio colle quattro lettere arbitrarie nelle prime istanze tanto nella terra di Lapio e suo tenimento, al titolo di Principe appoggiato dal Casale di Arianiello, quale al presente è diruto, al Palazzo Baronale di più e diversi membri superiori ed inferiori con cortigli, sito e posto nel ristretto di questa Terra nel luogo detto Pianello, che serve per uso proprio.26
Seguono diversi diritti: Jus Padronato della Chiesa madre sotto il titolo di Santa Caterina, col Jus di nominare, presentare l’Arciprete quando vi mancherà, come altresì il Jus di nominare e presentare il Beneficiato sotto il titolo della SS.Annunciata nella terra di Fontanarosa, sempre che mancherà; mastrodattia Civile e Criminale colle prime cause; gius della Piazza da quelle persone che non sono franche esiggersi di quello che li tocca; bagliva. Vi sono poi: 10 ducati dall’Univesità di Lapio e per essa dall’Affittatore del Jus proibendi del Forno, seu pane a cuocere…; gius dello scannaggio degl’animali che si fanno nella macelleria, toccandoli 1/2 rotolo di granone per ogni pezzo d’animale, grande o picciolo che sia.27
Infine si conclude la nota con: boschetti di cerri a Campo Marino e S.Lucia; territori a Prato di Sopra, Toppola, Verzara e Villani; oliveto a Orto d’Ognico; cantina vecchia a Prati e casa con orto a Cantina.28
In un mini elenco a parte viene poi indicata fra i possessori di beni feudali anche la Marchesal Camera di Santo Mango e la Magnifica Università della Terra di Lapio che possiede territori, beni stabili, annue rendite, gabelle, fondi ed altro, fra Corpi giurisdizionali e Portolania.29
E questo senza entrare nei particolari della tassa sul fuoco, cioè sul nucleo familiare, quella pagata da ogni famiglia, già trattati in altri volumi.30…

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06. COMUNE DI ALTAVILLA IRPINA (AV) NEL 1746

06. COMUNE DI ALTAVILLA IRPINA (AV) NEL 1746

Presentazione

Scopo di questo lavoro che andiamo a presentare al pubblico è documentare l’articolazione degli scenari politici ed economici attraverso arti, professioni, imposte e gabelle dei Catasti Onciari in modo che si abbia un quadro storico della vita sociale nel Regno di Napoli del Settecento. L’intenzione è quella di pubblicare un numero al mese, uno su ogni comune che formano l’ex Provincia di Principato Ultra del Regno di Napoli. Perché i Catasti Onciari? Innanzitutto perché introducono nuovi sistemi di tassazione da cui si ricavano le condizioni reali della vita della gente. E’ vero. Nelle altre parti d’Italia i beni venivano valutati dal fisco, mentre nel Regno di Napoli e, dunque, anche ad Avellino, si procedette su dichiarazioni di parte, con tutti gli inconvenienti (false rivele, diminuzione della consistenza dei propri beni, negazione addirittura di possederne) che tale sistema comportava. I catasti comunali, teoricamente, avrebbero dovuto servire alle amministrazioni locali per una equa tassazione, che, al contrario, molto spesso veniva fatta gravare artificiosamente addirittura sui meno abbienti. Era necessario per ovviare a questi veri e propri soprusi che i dichiaranti indicassero tutti i beni stabili, le entrate annue di ciascun cittadino e dei conviventi. I nobili dovevano rivelare i beni posseduti nella propria terra e anche quelli in cui abitano con la famiglia e con i congiunti, facendone una breve, chiara e distinta sintesi sul margine della rivela (autodenuncia). Fine del Catasto Onciario era quello che il povero non fosse sottoposto a tasse esorbitanti e che il ricco pagasse secondo i suoi reali possedimenti. In base a questo principio i sudditi vengono tassati non solo per il possesso dei beni immobili, ma anche singolarmente per le industrie che possiedono, commercio, mestiere o arte che esercitano. Dunque oltre all’imposta patrimoniale restava anche in vigore la vecchia imposta personale. Infatti il focatico, l’imposta del nucleo familiare dovuto da ogni focolare, venne sostituito dal testatico, l’imposta pro capite a quota fissa, pagato da tutti coloro che non vivevano nobilmente, cioè solo da coloro che si dedicavano al lavoro manuale.
Questo aiuta i cittadini di oggi a scoprire i nomi, i mestieri e le arti dei propri antenati. Un merito che va soprattutto al direttore Arturo Bascetta, che si è sobbarcato con perizia e volentieri l’immane lavoro di una collana aperta a più collaboratori, come già abbiamo visto per i volumi pubblicati. E’ la meravigliosa documentazione del Catasto Onciario portata alla conoscenza diretta degli eredi di quei nonni.

Ing. Francesco Maselli
Presidente Provincia di Avellino

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11. Altavilla nel 1746

11. Altavilla nel 1746

Presentazione

Scopo di questo lavoro che andiamo a presentare al pubblico è documentare l’articolazione degli scenari politici ed economici attraverso arti, professioni, imposte e gabelle dei Catasti Onciari in modo che si abbia un quadro storico della vita sociale nel Regno di Napoli del Settecento. L’intenzione è quella di pubblicare un numero al mese, uno su ogni comune che formano l’ex Provincia di Principato Ultra del Regno di Napoli. Perché i Catasti Onciari? Innanzitutto perché introducono nuovi sistemi di tassazione da cui si ricavano le condizioni reali della vita della gente. E’ vero. Nelle altre parti d’Italia i beni venivano valutati dal fisco, mentre nel Regno di Napoli e, dunque, anche ad Avellino, si procedette su dichiarazioni di parte, con tutti gli inconvenienti (false rivele, diminuzione della consistenza dei propri beni, negazione addirittura di possederne) che tale sistema comportava. I catasti comunali, teoricamente, avrebbero dovuto servire alle amministrazioni locali per una equa tassazione, che, al contrario, molto spesso veniva fatta gravare artificiosamente addirittura sui meno abbienti. Era necessario per ovviare a questi veri e propri soprusi che i dichiaranti indicassero tutti i beni stabili, le entrate annue di ciascun cittadino e dei conviventi. I nobili dovevano rivelare i beni posseduti nella propria terra e anche quelli in cui abitano con la famiglia e con i congiunti, facendone una breve, chiara e distinta sintesi sul margine della rivela (autodenuncia). Fine del Catasto Onciario era quello che il povero non fosse sottoposto a tasse esorbitanti e che il ricco pagasse secondo i suoi reali possedimenti. In base a questo principio i sudditi vengono tassati non solo per il possesso dei beni immobili, ma anche singolarmente per le industrie che possiedono, commercio, mestiere o arte che esercitano. Dunque oltre all’imposta patrimoniale restava anche in vigore la vecchia imposta personale. Infatti il focatico, l’imposta del nucleo familiare dovuto da ogni focolare, venne sostituito dal testatico, l’imposta pro capite a quota fissa, pagato da tutti coloro che non vivevano nobilmente, cioè solo da coloro che si dedicavano al lavoro manuale.
Questo aiuta i cittadini di oggi a scoprire i nomi, i mestieri e le arti dei propri antenati. Un merito che va soprattutto al direttore Arturo Bascetta, che si è sobbarcato con perizia e volentieri l’immane lavoro di una collana aperta a più collaboratori, come già abbiamo visto per i volumi pubblicati. E’ la meravigliosa documentazione del Catasto Onciario portata alla conoscenza diretta degli eredi di quei nonni.

Ing. Francesco Maselli
Presidente Provincia di Avellino

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46. CERVINARA NEL 1753 (VALLE CAUDINA – AV)

46. CERVINARA NEL 1753 (VALLE CAUDINA – AV)

CERVINARA FRA 1700 E 1800

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’arrivo dei Francesi significò l’abolizione della feudalità, delle Università e la nascita del Municipio, con degli Eletti ed un sindaco alla guida dell’amministrazione. Non mancarono le liti presso la Commissione feudale tra ex feudatario, Comune e privati cittadini per il pagamento di tasse e diritti spesso finiti in disuso.
Ritornati i Borboni, anche i cittadini di Cervinara si sentirono in dovere di partecipare ai moti del 1820-21 e a quelli del 1848, dando un valido contributo all’Unità d’Italia. Un servizio alla giusta causa offerto anche dopo, per la cattura delle più tremende bande guidate dai briganti Cipriano La Gala, Andrea Masi e Tommaso Romano che per molti anni avevano saccheggiato e depredato l’intera Valle Caudina.
Il paese era cresciuto, culturalmente e praticamente, divenendo capoluogo di Circondario della provincia di Avellino e arrivando a contare, a metà del 1800, oltre 7500 abitanti, fino a raggiungere numero 9.000 verso la fine del secolo scorso. Che cosa abbiano fatto i Consiglieri Provinciali del Mandamento di Cervinara, del quale Cervinara faceva parte, che si sono succeduti dal 1861 al 1901, è difficile dirlo. Sappiamo però che anche Cervinara era tenuto in considerazione dall’avvocato Giovanni Finelli (1861-62), da Alessandro Campanile Cocozza (1862-67), dal cavalier Francesco Del Balzo (1867-71) e dal barone Girolamo Del Balzo (1871-1901).
Molte le mini industrie artigianali di fine ottocento, come quelle rappresentata da Salvatore Cioffi di Pasquale e da altri negozianti vari. Ma vediamo nei particolari gli abitanti di Cervinara che esercitavano arti e professioni. Negozianti di cereali erano Pietrantonio e Raffaele Cioffi fu Sigismondo, Onofrio Cioffi fu Lorenzo, Andrea Caporaso fu Saverio, Raffaele Cioffi fu Domenico, Isidoro e Giuseppe Cioffi di Onofrio, Michele de Dona fu Orazio, Marco de Dona fu Giovanni, Francesco Lanzillo fu Antonio, Antonio Lanzillo fu Francesco e Pasquale Pitaniello fu Carmine.
Facevano parte della categoria dei negozianti di stoffe Antonio e Giacomo Cincotti fu Giuseppe. Negozianti di vino (venduto anche nella cantina di Antonio Cantone fu Pietro) erano Raffaele Milanese fu Angelandrea e Saverio Marro fu Pietro; la neve, pigiata a ghiaccio nelle fosse montane, era invece una specialità di Pasquale Clemente fu Domenico che, dopo averla nascosta sotto le foglie per tutto l’inverno, aspettava i giorni più caldi per rivenderla ai caffè e alle gelaterie del napoletano, oltre che a quelle della Valle Caudina e alla caffetteria cervinarese di Felice Cincotti fu Giuseppe; il sensale autorizzato per situazioni varie era Giuseppe Cioffi fu Domenico.
Diversi i negozianti di legnami, come Filippo Ceccarelli fu Michele e Fortunato Ceccarelli fu Felice che, dopo aver disboscato le montagne lavoravano il legno in maniera artigianale; ricordiamo anche altri venditori come Pasquale Cioffi fu Gregorio, Luciano De Maria fu Felice, Pasquale Fierro fu Giuseppe, francesco Iglio fu Angelo, Pasquale Miele fu Carmine, Giovanni Pagnozzi fu Antonio e Luigi Ricci fu Arcangelo.
Tanti volti, tante storie, tanti mestieri, come l’appaltatore di opere di fabbrica Antonio Bianco fu Stefano, il negozio di formaggi di Andrea Taddeo fu Domenico e l’industria agraria di Nicola Tangredi di Giuseppe. Altre aziende agricole erano quelle di Giovanni de Gregorio fu Vincenzo, Luigi Lengua fu Nicola, Luigi, Nicola e Pasquale Marchese fu Gennaro, Luigi Iacchetta fu Giuseppe, Orazio e Gennaro d’Onofrio fu Giovanni, Stefano Casale di Giuseppe, Raffaele Niro fu Domenico.
Mugnaio del paese era Alessandro Cioffi fu Pasquale; Michele Schettini fu Domenico, il farmacista. Vi erano inoltre Antonio de Maria fu Felice col negozio di coloniali, Pasquale Iacchetta fu Nicola col negozio di spiriti, Francesco Mignuolo fu Pasquale, negoziante di frutti, e Giuseppe Pitaniello di Pasquale, col magazzino di cuoiami.
Di Cervinara conosciamo i nomi degli esercenti l’arte salutare che, nel 1880, risultano essere medici cerusici originari del posto: Gaspare Cecere fu Francesco, Luigi Girardi fu Vincenzo, Clemente Mercaldo fu Francesco, Giambattista De Bellis fu Bernardo, Vincenzo Cecere fu Gaspare, quest’ultimo laureatosi presso la Real Università di Napoli, tra il 1830 e il 1877.
Vi erano poi i quattro farmacisti locali con la cedola: Scipione Madonna fu Domenico, Luigi Cecere fu Gaspare, Paolo Barionovi fu Pietro, Michele Schettini fu Domenico, e la levatrice, sempre col certificato, Anna Ragalzi fu Giambattista, che aveva acquisito cedola universitaria il 27 febbraio 1871.
A quei tempi, diciamo nella seconda metà del 1800, Cervinara, compresi i villaggi di Trescine, Salamoni, Mainolfi, Mizii, Cioffi, Pie’ di Casale, Ferrari, Pantanari, San Paolino, Ioffredo, Castello, Valle e Pirozza contava 7147 abitanti.
Il paese era abbastanza grande e commerciava in vini, mele, pere, ortaggi, canape e pioppi, lungo la provinciale Irpina e la San Martino Valle Caudina propriamente detta, oltre che durante il mercato settimanale del mercoledi.
Siamo venuti a conoscenza che, nel gennaio del 1873, la pretura era retta da Teodoro Del Grosso e dal vice Gennaro Baccalone e che cancelliere e vicecancelliere erano rispettivamente Filippo Martini e Francesco De Feo. Alle liti ci pensava invece il giudice conciliatore Pasquale Simeone, assistito dal cancellerie Girolamo Piccolo.
Notizie più approfondite ne abbiamo però solo sugli ultimi anni di fine secolo, a partire dal 1889, allorquando primo cittadino del paese, nonché presidente del Circolo dell’Indipendenza, era Giovanni Barionovi, coadiuvato da Errico Pepicelli nella qualità di segretario e da Luigi De Maria che faceva l’esattore. Gli assessori erano invece Alessandro Pagnozzi, Giacinto Barionovi, Girolamo De Nicolais e Pasquale Simeone. Addirittura sei i parroci: Giuseppe Pisanelli della parrocchia di San Marciano, Pasquale De Dona della parrocchia di San Potito, Vincenzo Barionovi della parrocchia di Sant’Adiutore, Vincenzo Marro della parrocchia di San Gennaro, Angelo Ragucci della parrocchia di San Nicola e Giuseppe Clemente della parrocchia di Santa Maria alla Valle. Giuseppe De Maria era il presidente della Congrega di Carità; ben diciotto, i componenti della famiglia clericale: Mariano, Pietro e Antonio Valente, Pasquale Cecere, Giuseppe De Maria, Michele Dorio, Andrea, Giuseppe, Pasquale e Luigi Bove, Francesco Barionovi, Francesco Bianco, Zaccheria Clemente, Francesco De Nicolais, Antonio Cioffi, Nicola Simenone, Raffaele e Vincenzo Cioffi.
Pare che gli oltre 7.000 cervinaresi dell’epoca mandassero fra i banchi quasi 800 alunni, dislocati nelle 8 scuole elementari, sotto la guida degli insegnanti Nicola Simeone, Antonio Valente, Francesco Mainolfi, Francesco Bianco, Carmela ed Elisabetta Cavaccini, Blandina Cioffi e Teresa Iuliano. Erano i tempi in cui ai vecchi medici andò ad aggiungersi il chirurgo condottato Pietro De Nicolais e una nuova levatrice nella persona di Filomena Viggiano.
Nella schiera dei professionisti laureati figuravano – oltre gli ingegneri Saverio Rossi e Luigi De Nicolais, il medico chirurgo condottato Giuseppe Ferrannini e la levatrice condottata Coletta Palma – gli avvocati Francesco Cecere, Giovanni Bruno, Nicola Mendozza, Gennaro Boccalone e Angelo Maietta; i farmacisti Luigi Cecere, Giuseppe Boccalone, Scipione Madonna; gli altri medici-chirurghi Clemente Mercaldo, Luigi Girardi e Vincenzo Cecere.
Giovanna Mignuolo e Antonio Iuliano erano gli albergatori del paese che offrivano un posto per pernottare. Gennaro Sorice, Giuseppe Crispino e Marco Marro si davano da fare con le armi, nella vendita e negli aggiusti. Francesco, Giuseppe e Domenico Cioffi, Girolamo Marro, Michele Villacci e Antonio Mauriello costruivano botti. Giuseppe Cioffi, Francesco, Giovanni e Ferdinando Pitaniello, Luigi Cappabianca e Francesco Fuccio facevano i barbieri. Nei loro saloni, qualche volta, si presentavano a perdicchiare tempo i tanti artigiani, dopo un buon caffè gustato da Mariantonio Cincotti oppure nelle altre caffetterie, cioè da Raffaele De Notaris, Lucia De Girolamo e Felice Cincotti. Di fama, non solo locale, erano i proprietari di cave di pietra Giuseppe Visconti, Francesco Ricci, Nicola Visconti e Vincenzo Simeone; questi ultimi due, insieme a Domenico Simeone, andavano alla ricerca delle venature più estrose per lavorare la pietra e il marmo secondo antica tradizione.
Dicevamo degli artigiani. Possiamo ricordare i capimastri muratori (Antonio Bianco, Antuono, Gaspare e Giambattista Mercaldo, Angelantonio e Pasquale Gervasi), la schiera dei calzolai (Domenico D’Agostino, Domenico Cioffi, Arcangelo Moscatiello, Berardino Iuliano, Michele e Giuseppe Pitaniello, Alfonso e Orazio Miele), i cappellai (Raffaele Ippolito, Luigi Cappabianca e Francesco Ricci), i commercianti in genere di moda Emilia Candela, Concetta Brevetti, Mariantonia Mercaldo, Nicola Caniello, Luigi Cappabianca, Giacomo e Antonio Cincotti; del commissionario Girolamo Piccolo e i droghieri Pasquale e Luigi Cioffi. Non possiamo qui dimenticare i fabbricatori di stoffe e di tele Marianna De Simone e Carmela D’Onofrio, Filomena Valente e Maria Cioffi; di cera, come Pasquale Telaro, e quelli di mobili Angelantonio Marro, Giuseppe Fierro, Pasquale e Luigi Perrotta, e Domenico Cioffi. Vendevano mattoni e stoviglie Giovanni e Raffaele Niro; Matteo De Dona, Lorenzo Cioffi, Saverio e Andrea Caporaso erano negozianti in olii; da non dimenticare quelli di tessuti Antonio e Giacomo Cincotti, Nicola Caniello, Concetta Brevetti, Emilia Candela e quelli di legnami, Pasquale e Luigi Perrotta, Domenico Mercaldo e Girolamo Marro. Due i fabbricanti di sedie, Agostino Miele e Pasquale Ricci, e uno quello di gassose, Antonio De Maria.
Anche se quasi ogni famiglia allevava in casa il maiale o degli agnelli, vi erano comunque i beccai Antonio Iuliano, Pasquale, Giovanni e Raffaele Cappabianca, Andrea Iuliano e Francesco Fucci che “sfasciavano” la carne, oltre i mugnai Angelantonio e Pasquale Mastone, Alessandro Cioffi, Pasquale Moscatiello, Giovanni e Vincenzo Befi, i panettieri, Onofrio Cioffi, Raffaele De Dona, Giuseppe e Raffaele Cioffi, e i negozianti in grani e farine Pietrantonio Cioffi, Luigi Lanzilli e Giuseppe e Raffaele Cioffi; ai vini ci pensava invece Raffaele Milanese. La frutta toccava a Pasquale Moscatiello e Pasquale Taddeo; e tre erano le fruttaiuole: Rosa Pitaniello, Angelamaria D’Agostino e Carmela D’Onofrio.
Ancora i fabbri-ferrai Giovanni e Diodato Ricci, e Lorenzo, Pasquale e Gregorio Brevetti, al pari dei falegnami Raffaele Cincotti, Raffaele Mauriello, Antonio Cioffi, Carlo e Stefano Bianco, Antonio Mauriello e Giuseppe Villacci. E i sensali: Nicola e Giuseppe Cioffi, Giuseppe Esposito, Luigi Celentano, Ferdinando Villacci, Giuseppe Simeone, Pietro Stellato, Carminantonio Finelli e Antonio Lanzilli.
E che dire degli orologiai Giuseppe e Francesco Cioffi, del pittore di stanze Nicola Esposito, dei fuochisti pirotecnici Carmine Leone e Francesco Starace; dei sarti Luigi Ricci, Giuseppe Russo, Carlo e Francesco Ricci e Vincenzo Vassallo; gli speziali manuali Giuseppe Tagliaferri e Antonio De Maria. Vi erano poi i venditori di generi diveri Giacomo e Antonio Cincotti; quelli di cuoiami Lorenzo Cioffi e Vincenzo Pitaliello. Nomi e cognomi che ricorrono tutt’oggi.
Un fiaschetto di vino lo si poteva trovare nelle trattorie, da Clemente Taddeo e Giovanni Mignuolo, o dai bettolieri, Fortunato Cappabianca, Giovanni Telaro, Luigi, Gabriele e Clemente Taddeo, accompagnato o meno da un nostrano piatto caldo. Per chiudere poi il pranzetto, più o meno leggero, bastava un buon sigaro da comprare in uno dei vari tabacchini. Giuseppe Cioffi, donna Carmela Vele, Nicola Moscatiello, Giuseppe Ricci, Giovannantonio D’Onofrio o Francesco Ruggiero conoscevano bene “tabacchi” e “pacchetti”.
Al progresso civile ed economico di Cervinara contribuirono, nei primi anni del 1900, la costruzione della ferrovia Benevento-Cancello, la realizzazione di un acquedotto locale e la nascita di una centrale elettrica.
Il nuovo secolo si era aperto senza grandi cambiamenti nella vita politica e amministrativa di Cervinara: i possidenti mantenevano le loro proprietà; i contadini, servendosi delle proprie braccia, si affacciavano al mondo con la speranza di sempre. Continuavano a dividere il raccolto con i proprietari, a portargli i capponi nelle ricorrenze civili e religiose, riuscendo a stento a mettere da parte i pochi risparmi che certo non sarebbero bastati ad acquistare terreni, ma a dare vita a quel triste fenomeno che è l’emigrazione. Pur tuttavia, qualcuno, spostatosi verso il borgo, riuscì a mettere in piedi un’attività artigianale. Il rimanente basso ceto, i figli dei braccianti, dei giornalieri, degli artigiani, nonché qualche sporadico possidente, scelsero però nell’emigrazione la soluzione più giusta ai propri problemi.
Alcuni avevano preferito abbandonare la vita rurale già alla fine del secolo scorso, in vista di più facili e immediati guadagni oltreoceano. Chi c’era stato, e aveva fatto “fortuna”, anche come scaricatore di porto o come minatore, era ritornato diffondendo tra il popolo l’immagine di un’America ricca e florida. Seguendo le orme di quegli “avventurieri” imbarcatisi al porto di Napoli, si partì sempre più spesso, sperando nella stessa fortuna. Ma l’imminente scoppio della Prima Guerra Mondiale richiese quelle braccia al fronte: la grande emigrazione era rimandata. Molti cervinaresi non fecero più ritorno. Poveri soldati come Amatiello, Befi, Bizzarro, Bove, Buccieri, Campana, Calabrese, Garofalo, Ceccarelli, Cerasuolo ed un altro centinaio, come risulta dall’elenco ufficiale dell’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi di Guerra, non fecero più ritorno. I reduci si ritrovarono nuovamente nei campi, stavolta incolti. Anche i vecchi capivano: la campagna non poteva continuare a dare, ai loro figli, ciò di cui essi si erano accontentati. L’indelebile marchio del “servo della terra” doveva scomparire; la guerra aveva riaperto le speranze: gli stenti erano abrogati. Si sentiva il bisogno di una vita diversa, in direzione di Napoli, oppure, della cara vecchia America. Più di 4 milioni di italiani entrarono negli Stati Uniti nei decenni a cavallo del secolo. Sono contadini del Mezzogiorno, inseriti d’impatto nel processo di sviluppo industriale americano di quegli anni.
Quasi un terzo di essi si stabilirono a New York, diventa quasi una grande città “italiana”. E’ un’altra piccola Italia, la Little Italy. Fu questo uno dei motivi che spinsero il governo degli Usa ad emanare delle leggi restrittive, impedendo l’ingresso agli analfabeti di razza bianca, riducendo gli italiani ammessi ogni anno a 3.845 unità contro i 409.239 che si erano recati in America nel 1920 procurando un dissesto nell’equilibrio demografico della regione Campania.
Avellino era l’unico centro della provincia a superare i 10.000 abitanti tra il ’21 ed il ’31. Anche Cervinara diede il suo contributo. Ma quanti degli oltre 200 cervinaresi che nel 1930 ancora restavano in contatto col paese natio fecero fortuna? Potremmo parlare di Gaetano e Antonio Clemente, Antonio e Pasquale Sorge, Antonio Martone, Onorio Ruotolo, del dottor Salvatore Brevetti, di Antonio Mercaldi, Antonio Leparulo, Ferdinando De Dona, Carmine Russo, Nicola Villacci, Alberto Milanese, Carmine Clemente, degli Onor Prisco e Nicola Vecchione. Ma gli altri fecero veramente fortuna? Addirittura c’è chi sottoscrisse somme per il monumento da erigersi nella piazza di Cervinara e mai pagò, forse per miseria, forse per errore, forse per dispetto. Gente come Carmine Buccieri, Salvatore Brevetti, Angelo Cillo, Emilio, Raffaele e Giuseppe Cioffi, Domenico Cappabianca, Pasquale del Balzo, Francesco D’Agostino, Giovanni Finelli, Francesco Formato, Luigi e Andrea Iuliano, Francesco Lippoli, Domenico e Francesco Mercaldo, Giuseppe Madonna, Pasquale Taddeo, Orazio Vaccarelli, Antonio Zucale, la signora e la signorina Villacci. Con quest’ultima famiglia dovette accadere qualche diverbio di cui nulla sappiamo se è vero che Nicola Villacci, tempo addietro, aveva offerto ben 900 dollari (verdoni americani del 1930) che mai sborsò alla giusta causa. “Molti in Italia o in Europa”, scriveva il Cavaliere Gaetano Clemente, “hanno la convinzione che l’America è la terra dell’oro; è la terra dove si inciampa contro la ricchezza e che per divenire ricco basta semplicemente volerlo-sogni chimerici!”. Chissà quanti cervinaresi, intrepresa una carriera e gettatisi negli affari, fecero marcia indietro, “ritirandosi scoraggiati dopo averci rimesso del tempo prezioso per lanciare la loro impresa e soprattutto dopo avere assorbito fino all’ultimo soldo che avevano messo da parte a furia di stenti e privazioni”. Il Cavaliere Clemente scrisse che i suoi primi affari furono di una meschinità unica. Lui non pensava classicamente “Quello che non guadagno finanziariamente adesso lo guadagno in cognizioni che domani mi daranno quello che rimetto oggi”. Che tradotto in dollaroni, pardon, in soldoni, significa che o guadagni da subito o cambi mestiere. Nato a Cervinara nel 1865, si può dire che Gateno Clemente, alla stregua dei fratelli Palermo, fu il cervinarese più fortunato d’America. Emigrato nel 1902, dopo aver sperimentato le proprie capacità con i primi lavori stradali in Valle Caudina, cercò subito qualcosa da fare a più ampio respiro, fino a farsi un nome nell’ambiente edilizio e arrivando a fondare la Clemente Contracting Company del Bronx, una ditta che, prima di espandersi, si occupava appena di escavazioni e di costruzioni, realizzando tunnels e fondamenta sull’isola di Manhattan. Fra le opere più importanti ricordiamo gli edifici che formarono il più grande Medical Centre del mondo a Washington Height dove sventolò alto il tricolore, oltre alcune strade newyorkesi alle quali furono dati i nomi dei due illustri connazionali Casanova e Barretto. Il Cavaliere impiegava solo mano d’opera italiana. Un uomo che si fece da sé: un vero ed autentico “self-made man”. Altre opere del suo ingegno furono il Polyclinic Hospital, alcuni edifici della Fordham University ed altri edifici importanti, contribuendo anche all’erezione e al mantenimento della Casa Italiana di Cultura presso la Columbia University, elargendo inoltre somme per ospedali e chiese. Ed a lui si deve anche l’erezione del monumento ai 100 caduti della Grande Guerra, per esclusiva contribuzione dei cervinaresi d’America, ricevendo medaglia d’Oro alla esposizione e Fiera Campionaria di Tripoli, sotto l’alto patronato di Benito Mussolini.
Egli si recherà a Cervinara per inaugurare personalmente il monumento ai caduti eroici, opera di grande valore ideata e scolpita da un mago dell’arte, anch’egli cervinarese, popolarissimo all’epoca, Onofrio Ruotolo. Clemente, insomma si circondò sempre di cervinaresi, come nel caso di Carmine Clemente, presidente della Clemente Brothers, e Antonio Mercaldi, che raccolse i fondi per il monumento nel banchetto del giugno 1927, nella Lotteria, nel Concerto e Ballo del 1928, alla festa di San Clemente, nella pubblicazione di un “souvenir”. Il monumento che ancora vediamo nella piazza di Cervinara fu inaugurato il 17 agosto 1930, con un solo pensiero “clemen-tiano” rivolto agli orfani: “Vivere pericolosamente – abbiate fede in quello che fate ed il successo sarà vostro”. Fra quegli eroi ricordiamo: il maggiore di fanteria Michele De Dona, ch’ebbe medaglia d’argento l’11 aprile del 1918 per aver dato l’assalto ad una posizione avversaria difesa da mitragliatrici e fucilieri il 25 agosto del 1927 a Tolmino; il sottotenente Giuseppe De Maria, medaglia di bronzo alla memoria; e i soldati Pietro Ferraro e Giovanni Girardi, anch’essi medagliati col bronzo.
I cervinaresi d’America, a dire il vero, sono stati sempre uniti. Fin dal 1915 avevano scritto un’altra pagina di patriottismo e di fratellanza, organizzando la Loggia Cervinara Valle Caudina del grande Ordine Figli d’Italia in America, grazie ad Antonio Mercaldi, Michele Battuello e Luigi Moscatiello che aggregarono consensi nel Circolo Educativo Cervinara, dove i compaesani si riunivano quotidianamente. Un circolo con a presidente Mercaldi, a vice Arcangelo Ricci, Pasquale Moscatiello a segretario; Domenico Cappabianca era il cassiere, Antonio Martone il provveditore (detto Zì Totonno), Giuseppe Moscatiello e Giuseppe Cioffi, i curatori. Una Loggia di tutto rispetto con il venerabile Vincenzo Baldini, l’assistente Silvio Rosati, l’ex venerabile Pellegrino Moscatiello, l’oratore Luigi Moscatiello, i segretari Andrea Bello e Otello Rapini, i curatori Michele Battuello, Raffaele e Daniele Ricci, Francesco Formato e Antonio Fogliani, i cerimonieri Luigi Battuello e Florio Stumpo, la sentinella Felice Cataldo e il medico sociale Salvatore Brevetti.
Chiudiamo questa parentesi ricordando che lo stemma del Comune di Cervinara è costituito da un cervo su tre cime ed una stella cometa all’interno di una cornice di papiro, con sottostanti rametti di alloro e di quercia legati da un nastro con sopra una corona costituita da cinque torri unite.
Il gonfalone del Comune è di colore blu e reca al centro lo stemma ed in alto la scritta “Comune di Cervinara”, completandosi con un nastro tricolore annodato al di sotto del puntale.
Il Comune ha beni demaniali e beni patrimoniali come da apposito inventario, regolando gli usi civici da apposite leggi speciali.
Il Comune fonda la propria azione sui principi di libertà, di uguaglianza, di solidarietà e di giustizia e concorre a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che ne limitano la realizzazione. Negli ultimi due articoli dell’atto municipale è detto che Cervinara “concorre a promuovere e conseguire il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione politica, economica, sociale, e culturale del paese all’organizzazione politica, economica, sociale e culturale” e che inoltre il comune “garantisce la partecipazione delle formazioni sociali nelle quali si realizza la personalità umana, sostiene il libero svolgimento della vita sociale dei gruppi, delle istituzioni della comunità locale e favorisce lo sviluppo delle associazioni democratiche”.
In una descrizione dell’anno 1532 già si leggeva che “la Terra di Cervinara si trova situata a lato del monte Pizzone”, che ha piena giurisdizione su tutti i Casali,che sono undici, disposti a mo’ di triangolo. Si tratta, come abbiamo visto, dei Casali di Pirozza, Curielli, Scalamoni, Ferrari, Joffredo e Castello a monte; Salamoni, San Marciano, Trìscine, Pantanari e Valle, verso la pianura.
Ma è tempo di lasciarvi solo a nomi, cognomi, età, degli abitanti del 1700, dei mestieri, delle strade e delle chiese, tratte direttamente dai dati ufficiali e quindi senza manipolazioni di alcuni.
Questa è verità storica, non le chiacchiere da bar.
Buona lettura.

Continua
44. PRAIANO NEL 1752 (e Casale di Vettica)

44. PRAIANO NEL 1752 (e Casale di Vettica)

I cognomi studiati nel testo riferiti alle singole famiglie: nel libro figli, mestieri e progenie

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cognomi registrati a Praiano e Vettica Maggiore nella metà del Settecento sono, in ordine di diffusione: Rispolo, di Rosa, Irace, di Ruocco, Criscuolo, Montuoro, Gallo, d’Acampora, Galano/Gagliano, Merolla, Zingone, Ferriulo, Buonocore, Izzolo, Migliaccio, Lastaria, d’Urso, della Lama, Bolognino, Capriglione, Cimmino, Cinco, d’Ajello/d’Ayello, d’Apuzzo, di Vivo, Porzio, Rocco, Russo, di Fiore, di Luise, Esposito, Franco, Ientile, Mascolo, Mandara, Marchisciano, Miniero, Ricco, Vuolo, Palma, Punzo e di Milo. A questi vanno aggiunti i cognomi dei Praianesi trasferiti fuori sede, cioè che sono Cittadini assenti e non più registrati in loco: Amendola, Casabona, della Vecchia, Grillo, Longobardo, Monteforte e Natale.

Tali cognomi sono riconducibili, tutti, a famiglie di modesti marinari pescatori ed artigiani registrate nel Catasto Onciario, ma non mancano ceppi familiari che nella storia di Praiano e delle aree limitrofe si contraddistinsero per censo, nobiltà o personaggi illustri. Matteo Camera, nella sua opera Memorie storico-diplomatiche dell’antica città e ducato di Amalfi, menziona le famiglie distinte di Praiano e Vettica Maggiore: de Rocco, de Montorio (Montuori), Bolognino, de Urso, Ajello, de Lama, Zingone, Rispoli, Capriglione, Lastarìa, Gagliano, Merolla, Irace, Ricco23.
Riccardo Gallo, trattando delle famiglie Praianesi, ci trasmette una notizia molto interessante: In tutto, agli inizi del Cinquecento c’erano una decina di cognomi; oltre a Gallo, gli altri erano: Cinque, De Rosa, Della Lama, di Montorio, Ferraiolo, Irace, Merolla, Richa, Rispoli, con molteplici varianti. Nel 1532 a Praiano le case, o meglio i fuochi, cioè i focolari censiti dal fisco, erano 68. In ogni casa abitavano più nuclei familiari. Come ha ricostruito Rosalba Ragosta, tra il 1535 e il 1555 otto praianesi, appartenenti a sei di queste dieci famiglie, si immatricolarono all’Arte della seta: Michele Richa, Piero Merolla, Lucia Rispolo, Lisantonio de Jerace, Gio:Filippo Cinque, Paolo Merolla, Sebastiano Rispolo, Ferrante de Rosa. Dunque a Praiano la quasi totalità della gente lavorava la seta. Scrisse Giustiniani nel 1797: a Praiano «gli abitanti lavorano del filo, ch’è eccellente, e di costo, ma non è della qualità di un tempo… a Vettica Maggiore i naturali son tutti tiratori di seta»24.
Sempre il Gallo, sulle famiglie praianesi, scrive: La comunità di Praiano era chiusa e piccola. Tra il 1577 e il 1599, furono celebrati 60 matrimoni e 460 battesimi. Nel primo Registro dei Matrimoni mancavano purtroppo le pagine dall’anno 1579 al 1582 e quelle dal 1588 al 1594; inoltre alcune registrazioni erano del tutto illeggibili. Per questi due motivi, stimai che i matrimoni fossero in realtà un centinaio, cioè più di una volta e mezza i sessanta registrati, con una media di quasi 5 all’anno. Riguardo ai Battesimi, le pagine iniziali del relativo Registro erano assai mal ridotte, poco più che brandelli. Inoltre, anche alcune trascrizioni di battesimi erano illeggibili. Per queste due ragioni, stimai che il numero delle nascite nel periodo fosse almeno cinquecento, con una media di quasi 22 battesimi all’anno, quasi cinque figli per ciascuna delle cento coppie. In testa con il maggior numero di nascite, un centinaio, un quinto del totale, c’era la famiglia de Rocco, con tutte le varianti del cognome (di Rocco e inizialmente, a metà Cinquecento, de Ruocho o di Ruocho o de Ruoca). Il fatto che la “d” di “de Rocco” e varianti fosse minuscola o piuttosto maiuscola non era dimostrabile, perché nel Registro parrocchiale non trovai quasi mai lettere maiuscole. È come se cinquecento anni fa usassero il sistema oggi in voga sui motori di ricerca Internet, dove si scrive tutto minuscolo. Seguiva con una cinquantina di nascite la famiglia de Rosa, senza varianti di cognome. Al terzo posto in graduatoria, con un po’ più di una quarantina di battesimi, venivano i Rispoli, con molte varianti del cognome (Rispolo, Respolo, Respola, Rispulo, ecc.). Al quarto posto, con 35 nascite, c’era la famiglia Gallo. Tra i suoi componenti trovai una contessa Gallo (“cõtessa Gallo”). La trovai nel Registro dei Matrimoni quando il 16 febbraio 1583 sposò Giuliano Richa e in quello dei battesimi quando il 13 giugno 1585 fu battezzato il loro figlio Pietre Jacono. Seguivano, con una trentina di nascite ciascuna, le famiglie: Merolla (tra cui una marchesa Morolla); Richa (e Richo, Ricco, Ricca); Feriolo, con una amplissima gamma di varianti (Feriola, Ferriolo, Ferraiolo, Ferraiuolo, Feriulo, ecc.); Irace (raramente Irage, un paio di volte Yrace e un altro paio Jrace), comparsa nei registri di Praiano peraltro solo a partire dal 1585 (a Vettica Maggiore nel 1595 figurava un barone Irace); Crisconi (Crisconio, Criscuoni, Criscuonio, Creschuonj, Crescona eccetera). Con una ventina di battesimi ciascuna venivano poi le famiglie: Bolognino; de Montorj (de Mentori, de Montorio, de Montuori, de Montuorio), con talvolta l’appellativo “conte” prima del cognome. I de Montorj venivano dall’entroterra. Nel Duecento esisteva all’interno del Regno di Napoli il Principato di Montoro. Siccome era troppo esteso per essere amministrato con un unico distretto amministrativo, cinque anni prima di elevare Praiano a universitas, nel 1273 re Carlo I d’Angiò lo suddivise in due metà: “Principatus ultra serras Montorii” e “Principatus citra serras Montorii”, ovvero Principato al di là delle montagne di Montoro (a nord, tra Solofra e Mercato Sanseverino) e Principato al di qua delle montagne di Montoro (a sud). Il confine tra i due nuovi giustizierati era segnato dai monti Picentini. Dunque Nuntia di Montorio, sposa di Carlo Gallo nel 1596, apparteneva a una famiglia originaria dei monti Picentini. Con una decina di battesimi ciascuna, venivano poi tre famiglie, qui elencate in ordine alfabetico: Cimino (o Cimmino, anzi Cimino con quel grafema ~ sulla prima m che consente di omettere la seconda); Crapiglione (il cognome era scritto proprio così, con la “r” tra la “C” iniziale e la “a”); D’Apuenzo (D’Apunzo, D’Apuzo, D’Apuzzo). Chiudevano con pochissime nascite, ciascuna meno delle dita di una mano, le famiglie: de la Vigna, della Lama, Lante (a volte come secondo cognome accanto a Montorio), Loise (o de Loise), Migliaccio, Rossa e Russo. Nei registri parrocchiali non compariva alcuna famiglia Del Jodice. Nonostante la presenza di quattro titoli nobiliari da me riscontrata nel registro parrocchiale di S. Luca per gli ultimi decenni del Cinquecento (marchesa Morolla, contessa Gallo, conte de Montorio, barone Irace), nell’elenco ufficiale dei nobili delle terre di Amalfi, come confermò Manzi, non figurava nessuno di questi. Le famiglie patrizie che avevano detenuto il patronato sulle due parrocchie non erano di Praiano o di Vettica Maggiore, erano di Amalfi. Non è noto quanti fossero i residenti a Praiano nel 1577, ma dalle cifre dei registri parrocchiali emerge che nella seconda metà del Cinquecento si verificò un vero e proprio boom demografico, confermato dai dati di origine tributaria sui fuochi. Dopo il Concilio di Trento, ci fu una progressiva crescita del numero di case. A Praiano si passò dai 68 fuochi nel 1532, a 97 nel 1561, a 153 nel 1595. Siccome i matrimoni nella parrocchia di S. Luca furono in media cinque all’anno tra il 1577 e il 1599, negli ultimi trent’anni del Cinquecento le case di Praiano si riempirono sempre più. Come vedremo, solo l’edificazione di nuove case via via nei primi decenni del secolo successivo allentò un po’ la pressione della densità abitativa. Agli inizi del Cinquecento, insomma, Praiano era poco più che un piccolo villaggio. Visto inoltre che alcune famiglie (Cimino, Crisconio, D’Apuzzo, De Rosa) venivano da fuori (da Vico Equense e da Scala), giunsi alla conclusione che le famiglie presenti nel luogo già prima del Cinquecento erano pochissime: i Merolla, i de Montuoro, i Rispoli, i Rocco, le loro varianti, nonché la famiglia Gallo. Non esisteva una documentazione ecclesiastica prima del Concilio di Trento e della nascita della parrocchia di S. Luca. Perciò mi era impossibile continuare la ricerca più indietro nel tempo. Ma ero assetato di scoprirne di più. Così comprai e lessi tutti i testi pubblicati dal Centro di cultura e storia amalfitana. Ma soprattutto, a ferragosto del 2012, dopo averci pranzato nel noto ristorante La Caravella di Amalfi che proponeva piatti della cultura gastronomica più antica, chiesi aiuto a Giuseppe Gargano, studioso della storia medioevale amalfitana e curatore di un archivio informatizzato di antichi testi: il Codice Perris, Cartulario Amalfitano, Sec. X-XV; le Pergamene degli Archivi Vescovili di Amalfi e Ravello; Le Pergamene dell’Archivio Vescovile di Minori; la Regesta Amalfitana; le Memorie storico-diplomatiche dell’antica città e ducato di Amalfi; la Istoria dell’antica Repubblica d’Amalfi; il Codice Diplomatico Amalfitano; gli Archivi dei Monasteri di Amalfi25.
Procediamo, quindi, con una sintesi etimologica e storica dei cognomi sopraelencati, seguendo l’ordine di diffusione rilevato nel Catasto Onciario, e non quello alfabetico.
RISPOLO – Registrato attualmente nella forma pluralizzata Rispoli, trae origine dalla cognominizzazione del nome di persona medievale Rispolo. È attestato già in epoca longobarda, come dimostra il Codex Diplomaticus Cavensis, in cui si legge: signum manus Benedicti filii Tolomei Rispolo26. A Napoli è presente nel 1325 con un Nicolaus Rispolus incisor cuneorum nella locale Zecca. A Praiano fu importante un ramo dei Rispolo, poi Rispoli, ed i maggiori rappresentanti della casata furono: Ferrante Rispolo (o Rispoli) figlio di Giovanni Vittorio, nato agli inizi del Seicento, che divenne Maestro di Campo e fu fedele a Filippo IV. Morì il 4 marzo 1661 e lasciò una cospicua eredità ai fratelli Giuseppe e Carlo, i quali con la sua considerevole fortuna fondarono un Monte dei maritaggi per le donzelle discendenti dal ceppo familiare. Ancora, Nicola Rispoli, figlio di Vincenzo e Maria Teresa Punzo, perfezionatosi in Anatomia e Fisiologia, fu professore nel nuovo Collegio Veterinario a Santa Maria degli Angeli alle Croci, inaugurato il 13 ottobre 1815 da Ferdinando IV di Borbone, mentre Crescenzo Rispoli, fratello del predetto Nicola, nato il 18 febbraio 1785, occupò la cattedra del fratello dal 1819 al 1847 e morì a Barra il 3 marzo 184727. Un Rispolo di Vettica Maggiore, di nome Luca, è ricordato tra le prime vittime della peste del 1656. Pescatore, il 15 giugno di quell’anno stava doppiando Punta Campanella dopo aver costeggiato la penisola sorrentina sulla sua imbarcazione, per proseguire lungo Positano e arrivare a Gavitella. Ma morì sulla barca a Punta Campanella: i marinai del posto se ne accorsero e lo buttarono in mare28.
DI ROSA – Oggi De Rosa, si è formato nel medioevo da “rosa”, come augurio di bellezza, e si è affermato con il culto di varie sante con questo nome, e specialmente di Santa Rosa, patrona di Viterbo29. Il cognome è rappresentato a Praiano nella metà del Settecento dai Notari Francesco e Giuseppe di Rosa, che compaiono nel Catasto Onciario.
IRACE – Tipico di Praiano, deriva dall’ipocoristico aferetico30 del cognome Girace, a sua volta originato da Gerace. Potrebbe trattarsi della cognominizzazione di toponimi come Gerace (RC) o Gerace Marina, antico nome di Locri, ma le forme griche locali Ieraki e Ieraci derivano dal bizantino Hagía Kyriakç, cioè “Santa Ciriaca”31. Tra gli Irace, si menziona Isabella Irace, sposa del medico Tiberio Gagliano agli inizi del Seicento e tra i capostipiti della famiglia Gagliano di rango baronale.
DI RUOCCO e ROCCO – Oggi presente a Praiano nella forma Ruocco, senza il “di” patronimico per la variante dialettale Ruocco, è tra i cognomi tipici del luogo. Già nel 1562 Serio de Rocco de Plagiano è sindaco dell’Università di Praiano e Vettica Maggiore e da una cronaca tramandataci dal Camera, del 1645, abbiamo notizia di un Costanzo Ruocco padrone di un legno da pesca. Nel Catasto Onciario, le figure più rappresentative sono quelle dei medici dottorati Nicolò e Tomaso Rocco.
CRISCUOLO – Tipico della Costiera Amalfitana e di Salerno, si ha menzione di un casato Criscuolo amalfitano che godette di nobiltà. È, più precisamente, quello dei Crisconio, che donò alla storia personaggi di spicco quali Giovann’Angelo Crisconio, o Criscuolo, pittore e notaio a Napoli dal 1536 al 1560, fratello minore probabilmente del celebre pittore Giovan Filippo. A Praiano e Vettica i Criscuolo nel Settecento appartenevano al ceto borghese ed erano venditori di coralli, pescatori, maestri calzolai, venditori di filo, mercanti, tessitori, filatori e sacerdoti.
MONTUORO – Largamente diffuso in Campania sia nella forma originaria Montuoro che in quella pluralizzata Montuori, deriva dalla cognominizzazione del toponimo di provenienza della famiglia, appunto Montoro (AV). A Praiano si distinse particolarmente Padovano de Montorio o Montuoro autore di pregevoli opere come il quadro della Beata Vergine del Rosario nella chiesa di San Luca, che visse nella metà del Cinquecento.
GALLO – Tipico campano e panitaliano32 per diffusione, fu il cognome di un’aristocratica famiglia di Amalfi, come ricorda anche il Camera che ripercorre le tappe di due illustri personaggi di questa casata. Un Giacomo Gallo, nato a Napoli dall’amalfitano Luigi e da Giulia della Bella di Firenze, fu amico di Ferdinando-Francesco d’Avalos, marchese di Ferrara, e sposò Sarra Brancato nel 1494 circa, mentre Giacomo iuniore, figlio di Nicolantonio, nato a Napoli nel 1554, fu giureconsulto e professore di diritto all’Università di Napoli. Il figlio di Giacomo iuniore, Alessandro, fu arcidiacono e vicario generale di Salerno, poi vescovo di Massalubrense nel 163233. Il cognome Gallo è un patronimico, originato appunto da Gallo, nome documentato in Italia con alta frequenza già a partire dall’VIII secolo. Deriva da un soprannome scherzoso o polemico nell’accezione di “gallo, pollo”, oppure dall’etnico Gallo, ossia “abitante, oriundo della Gallia”: il soprannome esisteva già in tutti e due i valori semantici in epoca romana, con il cognomen Gallus34. A Praiano si ricorda la figura del parroco don Fabrizio Gallo, al quale agli inizi del Seicento fu donata da un religioso cappuccino di Amalfi la sacra reliquia della patella di San Luca, estratta dal venerando reliquiario del Monastero di Montevergine di Avellino35. Lo storico ed economista Riccardo Gallo fa menzione di un ceppo nobile dei Gallo di Praiano nella sua opera Dòmini, magnifici, mercadanti36.
D’ACAMPORA – Ancora registrato a Praiano, e tipico del Napoletano e del Salernitano, deriverebbe dalla cognominizzazione del luogo di provenienza della famiglia, appunto Campora nel Cilento, da cui da Campora, d’Acampora, Acampora, Campora e varianti come Canfora. La radice è il termine latino campus, con il significato di “campo o terreno coltivato, piazza, campagna”37. Un Carlo d’Acampora, medico napolitano di 36 anni, al tempo dei tumulti di Masaniello fu decapitato a Napoli per ordine della Vicaria, precisamente il 18 giugno 1630, perché accusato di corrispondenza de lettere con gl’inimici38. A Praiano menzioniamo Nicola Acampora, tra gli eletti dell’Università di Praiano e Vettica Maggiore nel 1749.
GALANO/GALANI/GAGLIANO – Diffusissimo in passato a Praiano e Vettica nelle due forme Galano e Gagliano, il cognome appartenne pure ad un ramo che si elevò al rango baronale. Si hanno infatti dei Gagliano le seguenti notizie: Giuliano Gagliano visse a Praiano nel XV secolo; suo nipote Vincenzo fu notaio regio dal 1563 al 1618 e sposò Girolama Cacace. Da questo matrimonio nacquero Tiberio, il 29 febbraio 1587, e Gian Vittorio, celibe. Tiberio studiò medicina a Salerno e fu medico condotto nella sua Praiano, dove celebrò nozze con Isabella Irace. Tiberio, con il fratello, fu coinvolto in una sanguinosa faida con la famiglia Zingone39, per cui fu costretto a rifugiarsi in Napoli. Ebbe tre figli: Pompilio, Donatantonio e una femina che sposò Scipione Vitagliano barone di Marianella. Pompilio Gagliano, addottoratosi nell’una e nell’altra legge, fu avvocato. Con il fratello dovette trasferirsi in Napoli per l’inimicizia con tal Michele Merolla lor paesano, uomo di maltalento. A Napoli poté dedicarsi agli affari e prese in appalto la portolania di Salerno. Acquistò la baronia di San Mauro Cilento e delle terre di Ortodonico e Cosentini. Sposò la nobile amalfitana Costanza del Giudice nel 1644. Nel 1652 fu ascritto al Seggio di nobiltà amalfitana. Morì nel 1656 e una lapide lo ricorda a Vettica Maggiore, nella chiesetta di Santa Maria a Grasta: Elemosina perpetua a magnifico Pompilio Gagliano V.J.D. Terrae sancti Mauro domino pro huius suae lampadis oleo – anno 1656. Figli di Pompeo Gagliano e Costanza del Giudice furono: Giuseppe, Tiberio, Matteo, Domenicantonio ed altri. Tiberio fu dottore in entrambe le leggi e Auditore di Provincia; Matteo fu abate commendatario della Badia di Santa Maria di Positano nel 1685 e vescovo prima di Fondi e poi di Sora nel 1699 e morì nel 1717; Domenicantonio fu religioso dei Padri Teatini e poi vescovo di Lettere nel 1709. Tra i discendenti: Michele (1773-1844), figlio di Giambattista, fu insigne e dotto religioso, professore di matematica nel Real Liceo del Salvatore in Napoli40. Nel Catasto Onciario spicca la figura del funzionario regio Michele Gagliano fu Notar Francesco, ventottenne Attuario della Regia Camera della Sommaria di Napoli. Dal punto di vista etimologico, il cognome deriva dalla cognominizzazione in senso patronimico del nome di persona Galano, già diffuso in epoca medievale.
MEROLLA – Tipico cognome praianese, è documentato in più epoche: un Michele Merolla è menzionato dal Camera come uomo di maltalento, in contrasto con i Gagliano; un Giovanni Merolla è citato come proprietario di una casa a Vettica Maggiore, nel luogo detto allo olivo, in un processo penale nel 161841; nella metà del Seicento ad un Pietro Merolla fu annullato dalla Diocesi di Amalfi il matrimonio con Giulia d’Apuzzo42. Dal punto di vista etimologico, deriverebbe dal nome femminile medioevale Merola, a sua volta ottenuto dal soprannome latino merula, col significato di “merlo”. Il cognome è attestato già nell’anno 832 d.C. a Nocera Superiore (SA), dove una donna di nome Merola compare in un documento nel quale è rappresentata dal figlio Marinus43.
ZINGONE – Tipico di Praiano e Vettica Maggiore, in passato registrato anche nella forma cognominale Zengone, è documentato già nel 1562 con il sindico uscente Laurentius Czingonus44. Agli inizi del Seicento alcuni Zingone furono in faida con i Gagliano. Un Cesare Zingone fu fatto prigioniero dai turchi nel 1645 mentre era su un’imbarcazione praianese nel golfo di Policastro45. Attestato fin dal medioevo come soprannome nel meridione d’Italia, deriva dall’appellativo “zingaro”, divenuto poi Zingarone ed infine contratto nella forma Zingone46.
FERRIULO (FERRAIOLI) – Registrato attualmente nella forma cognominale Ferraioli, deriva dall’attività artigianale del fabbro o del lavorante all’estrazione o ancora alla fusione del ferro (dal latino faber ferrarius, in dialetto campano ferraro o ferraiolo/ferraiuolo)47. Un ramo dei Ferraioli di Praiano si distinse per censo e diede i natali ad Elisa Ferraioli, madre del fotografo e tipografo Francesco Lauretano, attivo tra la seconda metà dell’Ottocento ed i primi decenni del secolo successivo.
BUONOCORE – Ampiamente diffuso in Campania nel Salernitano e nel Napoletano, anche nella variante Bonocore, deriva dal nome medioevale augurale Bonocore. È già registrato come cognome a Castellammare di Stabia nel 1451, come dimostra una testimonianza trascritta dallo storico Giuseppe D’Angelo: Item VI de agusto donay ad mastro Costanzo Bonocore e ad mostro Trophonello de Balsano de Vico magistri intallyaturi de petra per succurrimento delo escunalio e doye porte e lo bastione dela Torre Alfonsina quactro alfonsinj secundo appare per contracto per mano de notare Jacobo Coppola de Castelloamare48. Ad Amalfi è presente un magistro Pace Bonocore de Lipare nel 1525, in un istrumento notarile rogato il 30 novembre di quell’anno per la costruzione di una barca49, mentre nel 1527 è attivo a Solofra l’artigiano napoletano Sebastiano Bonocore, battargento50. A Praiano è sindaco nel 1749 Giambattista Buonocore.
IZZOLO – Tra i cognomi più antichi di Praiano e Vettica Maggiore, deriva dalla forma cognominale Rizzo e sua variante Rizzolo, la prima ampiamente diffusa in tutta Italia e attestata fin dall’epoca medievale. È originato dal soprannome “riccio”, utilizzato nell’accezione di “ricciuto, dai capelli ricci”, da cui “rizzuto” e “rizzo”. Una cronaca che riguarda un Praianese di cognome Izzolo è riportata dal Camera e riguarda le scorrerie dei turchi nel golfo di Salerno: Giambattista Izzolo di Praiano, marinaio pescatore, nel 1645 essendosi imbarcato sul legno da pesca del padrone Costanzo Ruocco del medesimo paese, navigarono insieme colla ciurma diretti per Calabria alla pesca. Non appena arrivati nel golfo di Policastro, che vennero assaliti e catturati insieme colla loro tartana da una nave turchesca e condotti in schiavitù a Tripoli. La moglie del suddetto Izzolo chiamata Giulia d’Apuzzo, dopo sei anni di assenza del marito, ebbe lettera da Tunisi direttale da Cesare Zingone di Praiano che rattrovavasi pure colà in schiavitù, nella quale lettera gli partecipava falsamente la morte del di lei marito. Per la qual cosa, dopo qualche mese essa Giulia passò a seconde nozze con Pietro Merolla di Praiano. Trascorsi dieci anni di prigionia in Tunisi Giambattista suddetto riscattato e sciolto dalle catene fece ritorno in patria nel 1658, e vi rinvenne sua moglie già passata a seconde nozze. In tale stato di cose, il povero Izzolo ne porse reclamo e ricorso alla curia arcivescovile di Amalfi; e questa dietro maturo esame e deposizione di testimoni sentenziò che la suddetta Giulia si riunisse tantosto al primiero suo marito, salvo però l’espiazione di talune pene canoniche51.
MIGLIACCIO – Tipico di Praiano, deriva dal termine latino miliacius, che indicava la farina di miglio, o più precisamente da miliaccium, nome dato al pane di miglio, ovvero il pane dei poveri. Nel Catasto Onciario sono presenti molteplici capifamiglia con questo cognome, tutti dediti alla pesca, all’artigianato e alla mercatura.
LASTARIA – Cognome praianese, è rappresentato nel Catasto Onciario da molteplici famiglie di estrazione borghese. Negli atti preliminari dello stesso Catasto non mancano cenni a personaggi di spicco, quali i Magnifici Domenico Antonio Lastaria e Nicolò Lastaria, i quali nel 1739 avevano in fitto rispettivamente la gabella della farina e il dazio del vino. Da citare è pure il canonico e dottore in Teologia Giuseppe Lastaria di Vettica Maggiore, figlio di Giovanni e Giovannella Rocco, nato nel 1766, che divenne tesoriere e teologo della Metropolitana Chiesa di Amalfi e vicario generale capitolare Diocesi di Amalfi, dopo avere insegnato nel seminario diocesano filosofia, diritto di natura e matematica. Morì ad Amalfi nel 183352.
D’URSO – Specifico di Solofra, ma ampiamente diffuso in tutta la Campania e principalmente a Napoli, Salerno, Positano, Vico Equense, Acerra, Ercolano, Torre del Greco, Acerno, Praiano e Casoria, deriva dalla cognominizzazione in senso patronimico del personale medievale Ursus, con il significato originario di “orso”, nome attribuito agli infanti allo scopo di propiziarne una futura prestanza fisica. In un atto redatto a Capua dal giudice e notaio Andrea de Caprio il 7 settembre 1432, al tempo della regina Giovanna II, compare il nome del testimone iudex Amicus de Ursis iurisperitus53. Ad Amalfi in un atto del 30 novembre 1525 è menzionato l’honorabili viro Philippello de Urso de terra Positani54.
DELLA LAMA – Cognome registrato in passato anche nella semplice forma Lama, trae origine da un toponimo, appunto una “lama”, nome dato ad un terreno avvallato con un torrente. A Salerno esiste come nome di luogo documentato già dal 1055, con l’indicazione dell’ecclesia Sanctæ Mariæ constructa intra hanc salernitanam civitatem (…) ubi Lama dicitur55. Di Praiano furono Giovanni Bernardo Lama, valente pittore, scolaro di Antonio d’Amato di Maiori, morto a 71 anni nel 1579 a Napoli, dove lasciò opere a Santa Maria della Sapienza, ed il suo pronipote Giambattista Lama, allievo di Luca Giordano. Ancora, don Mario Lama, sacerdote, fu accademico della società delle scienze e belle arti nel Settecento, nonché professore di Matematica e di Fisica sperimentale nella Regia Università degli studi di Napoli. Nel Catasto Onciario troviamo Pietro Antonio Lama, tra gli eletti dell’Università di Praiano e Vettica Maggiore nel 1739.
BOLOGNINO – Cognominizzazione in senso patronimico del personale e soprannome Bolognino, è attestato come nome già dall’epoca medievale. Un esempio di questo nome, ancora in uso nel XVI secolo, è offerto dal tipografo Bolognino Zeltieri, attivo a Venezia tra il 1555 e il 1576. Il bolognino era anche una moneta, iniziata a coniare dal comune di Bologna nel 1191. Nel Catasto Onciario è registrata la rivela, tra le altre di vari Bolognino, del Giudice a contratti e tessitore di tela Pietro Bolognino, fra i più abbienti di Praiano.
CAPRIGLIONE – Tipico di Praiano, il cognome appartenne a famiglie di vario ceto. Tra i più facoltosi ed “in vista” nel Catasto Onciario annoveriamo il medico Alessandro Capriglione a ed il Capitano della torre detta la Torricella Luc’Andrea Capriglione fu Donato, di 72 anni. L’origine è da attribuirsi ad un soprannome cognominizzato o ai toponimi Capri o Capriglia.
CIMMINO – Oggi registrato solo nella forma Cimino, deriverebbe dalla cognominizzazione del toponimo “cimino”, piccola cima di un monticello o di una collina. Il cognome è presente in un istrumento rogato in Amalfi il 6 gennaio 1443 per l’industria e la pesca del corallo, in cui si legge: Franciscus Cimina de loco Plagiani sponte promisit et convenit Loysio de Aflicto56. Fuori Praiano abbiamo altri esempi di formazione di questo cognome, come ad esempio Johannes de Cimino (1150-1212), arcivescovo di Dublino, o Serafino de’ Ciminelli (L’Aquila, 1466 – Roma, 1500), poeta e musicista noto con lo pseudonimo di Serafino Aquilano o dell’Aquila.
CINCO – Oggi presente nella forma Cinque, è tra i cognomi praianesi più frequenti in passato. Deriva dal numero cinque, divenuto nome e poi cognominizzato, nei secoli passati attribuito come personale ai quintogeniti oppure epiteto dato dalla comunità e legato a fatti personali non più ricostruibili.
D’AJELLO/D’AYELLO – Cognome diffuso in Campania nelle attuali forme Aiello e D’Aiello, ha origine nella cognominizzazione in senso patronimico del nome Aniello o Agnello. A Praiano esisteva anche una località chiamata lo Capo d’Ayello. Il 30 marzo 1776 nacque a Praiano Luigi d’Ajello, figlio del Dottore Fisico Francesco Saverio, che fu membro dell’accademia medico-cerusica dello Spedale degl’Incurabili di Napoli.
D’APUZZO – Derivato dalla cognominizzazione di un toponimo, appunto “da puzzo”, quindi “dal pozzo”, come erano nominate tante località in passato soprattutto campestri, è tipico di Praiano e Vettica Maggiore. Un’altra ipotesi potrebbe legarlo al cognome d’Apruzzo, originato a sua volta dalla provenienza dall’Abruzzo. Ne abbiamo traccia a Praiano già nel Cinquecento, e nella metà del Seicento con Giulia d’Apuzzo moglie di Giambattista Izzolo, alla quale fu annullato il secondo matrimonio con un Merolla dopo il ritorno del marito che era stato prigioniero dei turchi57. Nel Catasto Onciario, Paolo d’Apuzzo è estimatore.
DI VIVO – Tipico della Costiera Amalfitana, e attestato già nel Seicento ad Amalfi come testimonia la presenza del parroco Lorenzo de Vivo attivo durante il flagello della peste del 1656, deriva dalla cognominizzazione in senso patronimico del nome medievale Vivo. Nel Catasto Onciario di Praiano e Vettica Maggiore, i di Vivo registrati sono: il sacerdote Bartolomeo di Vivo; il marinaro pescatore Domenico di Vivo di 58 anni che abita in casa propria a Casa Rispolo con la moglie Angela Rispolo di 41 anni e quattro figli; e lo studente Giambattista di Vivo fu Pompeo di 21 anni.
PORZIO – Presente a Praiano e Vettica Maggiore anche nella forma latinizzata Portio, deriva dalla cognominizzazione del nome del capostipite, appunto Porzio. Tale personale è attestato fin dall’epoca romana con il gentilizio Porcius, da porcus, “maiale”, in riferimento agli allevatori di suini. Fu nomen tipico dei Catoni.
RUSSO – Deriva dal soprannome “rosso”, dialettizzato nell’aggettivo “russo”, in riferimento al colore dei capelli, oppure dal personale germanico Rotz o Rutz che, composto dalla radice hrod (gloria, fama), può essere tradotto come “glorioso”, “famoso”, ed essere ricondotto a possibili ascendenti di stirpe barbara, unna o normanna. Una leggenda amalfitana fa derivare il ceppo dei Russo da un mercante di nome Rubeis o Rubeo, vissuto nel IV secolo d.C. e capostipite di una ricca e nobile discendenza. Il cognome è registrato, nei documenti più antichi, anche nelle forme De Rubeo, De Rubeis, Dello Russo e Lo Russo58. Nel Catasto di Praiano e Vettica Maggiore sono da segnalare: il Notaro Giuseppe Russo fu Notar Vincenzo di 71 anni, che abita in casa propria a la piazza de morti con la sua seconda moglie Lucia Gallo di 55 anni e con figli e nipoti; lo Speziale di Medicina Crisostomo Russo fu Andrea Matteo di 45 anni che vive in casa propria a l’Astracchi con la moglie Paola Criscuolo di 40 anni e cinque figli; e il sacerdote Fabrizio Russo.
DI FIORE – Tipico campano, è un cognome derivato dal soprannome fitonimico “Fiore”. Dal punto di vista etimologico, è chiara la derivazione dal termine latino flos, floris, col significato di “fiore”, divenuto nome proprio in senso augurale allo scopo di propiziare la nascita di un figlio “bello come un fiore”, e infine cognominizzato nella forma base Fiore e nelle varianti Di Fiore, Fiorucci, Fioretti, Fiorillo, Fiorilli e Flora59.
DI LUISE – Registrato in Campania principalmente nel Casertano, a Gricignano d’Aversa e Marcianise, nel Beneventano a San Salvatore Telesino, e nel Salernitano a Nocera Inferiore, trae origine dalla cognominizzazione in senso patronimico del personale Luigi – o Aloisio, Aloise, Luise – diffusosi in epoca medievale.
ESPOSITO – Di derivazione dal latino expositus, con il significato di “esposto, abbandonato”, tale cognome era attribuito agli infanti “figli della colpa o del peccato” abbandonati (quindi expositi, ovvero “esposti”) presso brefotrofi, strutture religiose o sugli usci di case private. Usata per quasi ottocento anni da istituti di carità, la cosiddetta “ruota degli esposti” era il più comune sistema di accoglimento di neonati abbandonati, escogitato per salvare loro la vita60. Nel Catasto Onciario compare il cognome esteso Esposito d’AGP, ovvero d’Ave Gratia Plena, proprio ad indicare la nascita da genitori ignoti.
FRANCO – La famiglia (de/di) Franco, Franchi o Franchis, è originaria della città di Capua, dalla quale tal Landenulfus comes e suo figlio Landenulfus comes cui dictus erat Francus (il conte Landolfo che era chiamato Franco) furono esiliati a seguito della rivolta antinormanna del 106661. Ovviamente, le numerose famiglie Franco presenti in Campania e nel resto dell’Italia hanno origini diverse e molto più frequentemente discendono da un capostipite di nome Franco, contrazione di Francesco, oppure dall’etnico “franco”. Nel Catasto Onciario è registrato il medico e chierico Pietro Franco.
IENTILE – Variante del più diffuso Gentile, è tipico di Torre del Greco e deriva dal nome di persona Gentile, frequente in epoca medievale. Un esempio di questo nome, poi cognominizzato, si ha con la figura del celebre pittore Gentile di Niccolò di Giovanni di Massio detto Gentile da Fabriano (Fabriano, 1370 circa – Roma, settembre 1427).
MASCOLO – Cognome meridionale e maggiormente diffuso in Campania, è originato dal termine “mascolo”, con il significato di “maschio”.
MANDARA – Tipico di Positano, Tramonti e Cava, ma frequente anche nel Napoletano e nel Casertano, potrebbe derivare dalla cognominizzazione del luogo di provenienza della famiglia o da un soprannome ad essa attribuito con radice “mendola”, ossia mandorla, da cui “mendolara”, “mendara” per contrazione e infine “mandara” per corruzione.
MARCHISCIANO – È originato dal soprannome “marchisciano”, ossia “marchigiano”, che indica la provenienza del ceppo familiare. Variante campana è pure il cognome Marchesano.
MINIERO – Prettamente napoletano, e molto diffuso principalmente a Napoli, Vico Equense, Sorrento e Sant’Anastasia, è la cognominizzazione in senso patronimico del nome germanico di tradizione francone Mainero, derivato da Maginarius, dai termini magin- (“forza, potere”) e haria-, (“potere”), con il significato quindi di “forza dell’esercito”62.
RICCO – Molto diffuso in Campania, è derivato dal nome di persona augurale Ricco, attribuito in epoca medievale agli infanti allo scopo di propiziarne una vita di agi e di benessere.
VUOLO – Tipico campano, è originato dal nome di persona Paolo, cognominizzato in senso patronimico nella forma Pavuolo, divenuta poi Vuolo per aferesi. A Praiano i Vuolo giungono agli inizi del Settecento con Michele Vuolo, napolitano, sposato con la praianese Antonia Ferriulo e padre del pescatore Francesco Vuolo, possessore di barchetta di 27 anni nel Catasto Onciario.
PALMA – Cognome campano, fitonimo63, deriva dalla cognominizzazione del personale Palma, diffusosi in epoca medievale soprattutto grazie al ritorno dei pellegrini dalla Terrasanta che erano soliti portare in patria una palma, appunto, in segno di pace. Tale nome è alla base anche dei cognomi De Palma, Di Palma, Palmiero, Palmieri, Palmentieri e simili. Filippo Palma è sindico di Praiano e Vettica Maggiore nel 1739.
PUNZO – Meridionale, diffuso anche nella variante pluralizzata Punzi, ha origine dal nome Ponzio o Ponziano, a sua volta derivato dal nomen latino Pontius.
DI MILO – Patronimico, è originato dal personale Carmine o Carmelo (da cui, appunto, Melo e Milo), diffusosi per effetto del culto cristiano della Madonna del Carmine.
AMENDOLA – Tipico campano, diffuso maggiormente a Salerno e a Napoli nonché nei Comuni di Amalfi, Pagani, Castellammare di Stabia, Ercolano e Gragnano, ha alla base il termine dialettale “mendola” – o “amendola” – che risale al tardo latino amendula, a sua volta derivato dal latino classico amygdala, con il significato di “mandorla”. Una seconda ipotesi ricondurrebbe il cognome al toponimo Amendolara, in provincia di Cosenza64.
CASABONA – Tipico di Conca dei Marini, deriva dalla cognominizzazione di un toponimo, appunto Casabona inteso come “Casa Buona”. Potrebbe indicare anche la provenienza del ceppo familiare da Casabona in provincia di Crotone.
DELLA VECCHIA – Molto frequente in Campania, principalmente nell’Avellinese e nel Napoletano, è originato dal soprannome “della vecchia”, adoperato per indicare l’appartenenza ad un nucleo familiare in cui era presente una donna anziana.
GRILLO – Cognome panitaliano, ossia diffuso in tutto il territorio nazionale, deriva dal soprannome cognominizzato Grillo, già documentato nella città di Bari nel XII secolo con un Nicolaus Grillo65.
LONGOBARDO – Deriva dall’etnico “Longobardo” in riferimento all’origine germanica del ceppo familiare. Una diversa ipotesi fa risalire il cognome al soprannome attribuito al capostipite: tra il XII e il XIII secolo, infatti, l’appellativo “longobardo”, o anche “lombardo”, era spesso adoperato nel Mezzogiorno d’Italia sia per indicare le persone che provenivano dal settentrione che coloro che erano dediti a tipi di mestieri particolari quali il mercante, il banchiere, il cambiavalute e l’usuraio, nella maggior parte dei casi professioni esercitate da toscani o, comunque, da settentrionali66. In altri casi, come probabilmente in quello di Praiano, il cognome deriva dalla Terra di Longobardi.
MONTEFORTE – Originato dalla cognominizzazione del toponimo Monteforte, indica il luogo di provenienza del ceppo familiare, come ad esempio Monteforte Cilento o Monteforte Irpino in Campania.
NATALE – Diffuso in Campania, è derivato dal nome del capostipite, appunto Natale. In passato era anche cognome attribuito ai trovatelli, in sostituzione di Esposito.

Altri cognomi sono registrati nel Catasto Onciario tra i forastieri bonatenenti, sia abitanti laici che non abitanti in Praiano e Vettica Maggiore. Questi sono: Cammardella, ossia Gambardella, di Amalfi; di Fusco; Villani; Cuomo; Girace e Santolujo. Fra questi, di Fusco ha dato origine al ceppo dei Fusco, oggi molto presenti nel Comune di Praiano. Le famiglie Fusco discendono tutte dai tre di Fusco forastieri abitanti laici i cui nominativi sono stati annotati nel Catasto: Elario di Fusco, Biase di Fusco e Giovanni di Fusco. Tutti e tre provenivano da Agerola.
Per certi cognomi è indicata la provenienza: Anastasio da Vettica Minore, Mandara dalla Terra di Montepertuso, un Criscuolo è Palermitano, Attanasio da Portici, Cuomo dal Furore, Mandarino da Longobardi, Sagese – Saggese – da Ottaviano, di Massa dal Piano di Sorrento, una Gallo è della Terra di Pontano……..

Continua
12. RAVELLO NEL 1755 (SA)

12. RAVELLO NEL 1755 (SA)

Dalla Post-Prefazione del Prof. Luigi Buonocore

La Città di Ravello a metà del Settecento

A metà del Settecento Ravello doveva apparire un misterioso e solitario paese montano, emarginato e inaccessibile. Un processo di progressiva ruralizzazione aveva interessato l’antica Civitas che tuttavia conservava l’antica forma urbana, costituita da un nucleo centrale, contraddistinto da fabbriche religiose e domus aristocratiche, all’esterno del quale si estendevano una serie di casali. Oliveti di piccola pezzatura si distendevano sull’intero territorio ed in modo particolare nelle località del versante sud-orientale della città. Dal Petrito a Torello e da Civita e Marmorata, passando per località più vicine al mare come San Nicola a Bivaro, Sussiero e Casanova, gli ulivi verdeggianti dovevano disegnare i profili delle amene colline ravellesi. Negli stessi luoghi era praticata anche la coltivazione dei soscelleti (carrubi), spesso abbinati agli uliveti, la cui presenza è attestata soprattutto nelle zone prospicienti il mare come la Punta di Sant’Aniello e Castiglione. Un soscelleto era presente nella zona di Santa Catarinella a Civita, toponimo che rimanda all’antica chiesa di Santa Caterina già diruta nel 1577 e annessa alla parrocchia di Santa Maria del Lacco, così come era accaduto per le chiese di Sant’Agnello a Mare, San Giorgio alla Pendola, Santa Maria de Pumice, San Vito e SS. Salvatore di Sambuco. Ampie porzioni di territorio erano coperte da castagneti, a partire dallo sperone di Cimbrone, con le sottostanti grotte di Santa Barbara in cui si trovavano i resti della omonima chiesa, fino al monte su cui era stato edificato il castello di Fratta. Selve e boschi cedui cingevano il versante settentrionale nei siti di Monte Brusara, di San Pietro a Bucito, e Aqua di Scala o in altre località sul versante nord-orientale come Taversa e Sambuco, nota per la produzione di legname. Tra la vegetazione erano ancora visibili le torri e il tratto dell’antica cortina muraria del sistema difensivo settentrionale, ormai simbolico e privo di funzione. D’altra parte, agli inizi del secolo, la città era apparsa al vescovo Luigi Capuano priva di quelle mura di cinta che in passato avevano incarnato l’orgoglio di una città inespugnabile. Le Mura della Città sono menzionate nei pressi della località denominata Porta di Campo, verosimilmente riferita ad una cortina della fortificazione di Fratta. Il vigneto con frutti, spesso censito come vigna fruttata o vigna fruttata et vitata, dominava il paesaggio agrario. In alcuni casi viene annotata anche la presenza di case o vigne con bottaro e palmento a Torello o in località vicine come lo Pastino. I giardini dal carattere anche ornamentale, ad eccezione di quello vescovile, restavano una prerogativa dei personaggi più rappresentativi, come i nobili Girolamo D’Afflitto e Paolo Confalone nel rione Toro, o gli esponenti di un nuovo ceto borghese come il notaio Liborio Imperato nella Punta di Sant’Aniello e Nicola Pisacane a Sant’Agostino, che suggellavano la propria posizione sociale con l’elezione al Seggio dei Nobili o del Popolo. Senza tralasciare Matteo D’Afflitto, patrizio della Città di Scala ma nativo di questa Città di Ravello, che abitava in casa Rufolo con giardino sul quale pagava un censo perpetuo di dieci carlini annui alla Mensa Vescovile. A Marmorata, nella proprietà di Paolo Confalone, viene attestato l’unico esempio di giardino con frutti dolci che beneficiava di una irrigazione organizzata come si rileva dalla dicitura agri ad acquatorio, con peschiere alimentate dal canale dell’acqua proveniente dalla Pendola, riscontrabile anche nella platea vescovile risalente all’episcopato di Biagio Chiarelli. Poco distante era la zona di Bivàro, corrispondente all’attuale via per Zia Marta, nota in passato per la presenza di peschiere. Una sola volta sono menzionati i celsi piantati nel luogo di San Pietro alla Costa, e piedi di agrumi con fontana d’acqua sorgente dentro nel luogo detto Marmorata. E’ presumibile però che i gelsi e le piante di limone e cedrangolo, così come altre colture locali quali fichi, meli, peri e ciliegi, potessero essere comprese nella dicitura di giardino semplice o di vigna fruttata. Una parte del paesaggio agrario era pur sempre caratterizzata da zone sterili e pietrose. L’Università di Ravello, tra l’altro, possedeva la montagna demaniale in parte petrosa e sterile confinante con la montagna di Scala e denominata comunemente Demanio. Solo un’esigua porzione di terreni doveva essere adibita al pascolo, non meraviglia quindi che, tra gli abitanti, solo il bracciale Domenico Di Palma possedesse un gregge di pecore. Le proprietà agricole erano perlopiù parcellizzate in piccoli o medi possedimenti, misurati in giornate di zappa. Non mancavano fondi di grande estensione come due vigne fruttate a Cigliano e Sambuco o un terreno di soscelle, olive e fruttato a Civita pari a cinquanta giornate di lavoro. Le acque sorgenti sono attestate nelle località di Fontana Carosa, Marmorata e Sambuco. Tre cannelle delle sette dell’acqua Sabucana erano di Matteo D’Afflitto mentre non viene menzionato l’antico diritto di proprietà della mensa vescovile che in quegli anni, ad ore stabilite, concedeva l’acqua a diversi cittadini. Gli unici due molini sono attestati lungo i corsi d’acqua di Marmorata, ad est, e di Fiume, ad ovest. I frantoi, denominati trappeti, erano sette, uno dei quali si trovava nella diruta chiesa di Santa Maria a Lago sottostante Santo Cosimo. I nuclei familiari si distribuivano nei territori delle otto parrocchie cittadine. Oltre alla cattedrale erano chiese parrocchiali Santa Maria a Gradillo, San Giovanni del Toro, Santa Maria del Lacco, San Martino, San Pietro alla Costa, Sant’Andrea del Pendolo e San Michele Arcangelo a Torello. Nel luogo del Vescovado seu lo Seggio, in riferimento al Sedile dei Nobili che si riunivano in cattedrale presso la cappella del Santo Rosario, sono attestate perlopiù vigne con qualche casa e una bottega. Il Toro continuava ad essere il rione esclusivo della nobiltà dove si ergevano le aristocratiche magioni rivolte ad est verso i fondi di Gaimano e di San Bartolomeo. Nel catasto preonciario, redatto nel 1646, era stata documentata la presenza delle famiglie Bonito, Confalone, D’Afflitto, Frezza e De Fusco. Nel 1755 il censimento fiscale si è ridotto a soli tre capofuochi i magnifici Paolo Confalone, Girolamo D’Afflitto e Domenico Sasso, Patrizio di Scala che, tra l’altro, si era trasferito a Ravello solo nel 1747. Nel rione Toro sorgeva il palazzo vescovile in cui mons. Biagio Chiarelli aveva impiantato anche una celendra volta alla politura, alla manganatura e alla tintura dei panni di lana, attività già esercitata in città dal 1299 e interrotta con la peste del 1656. L’edificio era dotato di un giardino che consentiva un accesso diretto alla cattedrale, in quegli anni interessata dai lavori del rifacimento barocco non senza difficoltà se si considera che, nel 1755, le somme raccolte erano state integralmente spese senza che il sacro edificio potesse essere nuovamente officiabile. Alcune abitazioni con orti e vigne erano presenti anche nei pressi del Belvedere, l’antica roccaforte del sistema difensivo cittadino. Viene menzionata la sottostante Santa Margarita de’ Grisoni, il cui beneficiato era Don Domenico Romeo Napoletano, mentre non ci sono riferimenti alla vicina Porta Platee. Il luogo della Piazza Publica, l’attuale Piazza Fontana, sembrava aver conservato l’antica vocazione commerciale con la presenza di alcune botteghe di proprietà del magnifico Nicola Pisacane e del bottegaro Giuseppe Carrano, dimoranti in quella località che, per antica tradizione, accoglieva anche le adunanze dei Parlamenti Generali dell’Università. Il ricordo dell’antica chiesa di Sant’Adiutore era ancora presente se consideriamo che la casa di Don Giuseppe Giordano si trovava nella zona denominata Borgo di Sant’Adjutorio presso la Piazza publica. Nel Pianello, sotto l’antica porta de Grache, tra vigne e oliveti la chiesa di Sant’Angiolo dell’Ospedale seu li Frezzi conservava nella denominazione il ricordo dei fondatori. A poca distanza la località dove dicesi a la Marra mostrava un chiaro riferimento all’hospitium domorum Della Marra che già a partire dal Cinquecento appariva allo stato di rudere. A Santa Maria a Gradillo, Ponticeto e Pendolo si attestava il maggior numero di famiglie dell’antico centro urbano, all’interno del quale erano in funzione il Convento di San Francesco, cui erano passate le rendite del Convento di Sant’Agostino e del seminario, e i Monasteri di Santa Chiara e della SS. Trinità. All’estrema propaggine meridionale di Ravello il Cimbrone era abitato dalla Magnifica Isabella Sasso Del Verme, vedova del Patrizio di Ravello Pietro De Fusco. Sul versante orientale, al di fuori dell’antico perimetro urbano, i fuochi erano presenti a partire da lo Traglio, dove sorgeva la cappella di Sant’Agnello eretta da Gerolamo Manso, spesso richiamato in relazione al Monte per il maritaggio delle fanciulle bisognose. Lungo il declivio le abitazioni erano concentrate tra San Giovanni e San Pietro alla Costa in cui ritroviamo anche la località Cerasara, probabile riferimento alla presenza di giardini fruttati. Una sola abitazione è presente a Santo Cosimo, da cui si raggiungeva il vicino Petrito, e nella sottostante Santa Maria a Lago in cui si trovavano vigne e peschiere. A Torello, dove vengono menzionati i luoghi Sant’Angiolo, le Lenze e Masiello, viene censito il maggior numero di unità abitative, costituite da famiglie estese che potevano raggiungere i 17 componenti come nel caso del bracciale Aniello D’Amato. Alcune famiglie vivevano anche a Santa Croce e Santo Nicola al Càrpeno, ai confini di Minori, a lo Vallone e Sussiero sul versante di Marmorata. La vigna denominata lo Capitolo, ancora presente nella toponomastica del linguaggio comune, richiamava l’antica proprietà del Reverendo Capitolo della Cattedrale di Ravello. Proseguendo verso le zone interne sia a Casa Rossa che a Taversa viene censito un solo fuoco così come a Sambuco in cui erano le proprietà boschive del Venerabile Monistero di Santa Chiara a Sambuco piccolo e del forestiere non abitante Filippo Mezzacapo nelle località Riola, Sambuco Grande e Pontemena. Ai confini con Minori, nel territorio sovrastante la valle del torrente Reghinna Minor, tra boschi e castagneti, era presente la piccola chiesa di Santa Maria della Rotonda. Nella zona settentrionale i fuochi si distribuivano principalmente a San Martino e San Trifone con alcuni nuclei familiari a Monte Brusara. A San Trifone abitavano i fratelli Tommaso e Saverio Pisano, lavoranti di panettiere. L’attuale presenza in questa località di una via denominata Casa Pisani, riscontrabile almeno a partire dalla fine dell’Ottocento, potrebbe avere conservato la memoria dell’insediamento familiare. Lo Monte di Brusara, attraverso luoghi dai nomi suggestivi come Creta seu la Posa de lo Vescovo o il Passo de lo Lupo, si spingeva poi all’interno fino agli estremi confini settentrionali della città dove era l’Aqua di Scala. Gli indici demografici non sono particolarmente rilevanti per la zona prospiciente la Marina, ad eccezione della Ponta di Sant’Aniello dove abitava il notaio Liborio Imparato. Le uniche porte cittadine di cui si fa menzione, al fine di specificare le località delle proprietà censite, sono a nord Porta del Campo, Case Bianche seu Porta Penta, Porta del Lacco e ad est Portadonica, nei pressi della quale viveva il marinaio Mattia Palumbo con una famiglia estesa di 19 componenti. La vedova Teresa Fraulo viveva invece nella Torre della Santissima Annunciata che potrebbe verosimilmente essere una delle torri ancora oggi visibili lungo la cortina muraria orientale o una costruzione inglobata successivamente nelle abitazioni edificate nei pressi della porta di San Matteo del Pendolo. Le vie di comunicazione erano costituite da sentieri percorribili più agevolmente a dorso di mulo, un bene prezioso in considerazione della sua attitudine al trasporto. I numerosi toponimi ricordano anche chiese ormai dirute come Santa Maria a Lago (San Cosma), Santo Nicola a Càrpino (Torello), o famiglie che avevano avuto proprietà in determinate zone come Casa Pepe, (Torello), Casa Parere (San Pietro alla Costa) e Casa Fenice (Ponticeto). Scorriamo, pertanto, una lunga serie di denominazioni che ancora oggi identificano gran parte del territorio ravellese. Di alcune, purtroppo, si è perso l’uso comune o, peggio ancora, la memoria. L’analisi delle strutture abitative è solo descrittiva, senza alcuna rappresentazione grafica, e pertanto non può essere esaustiva. Le abitazioni vengono distinte in case proprie e case in affitto e sono descritte anche nelle strutture adiacenti come cortili e giardini. Gli immobili nella disponibilità del capofuoco potevano essere o meno gravati da censo, spesso dovuto a istituzioni religiosi o privati cittadini. Le abitazioni erano esenti da tasse mentre le rendite provenienti dalle case in affitto venivano tassate al netto delle spese di manutenzione o di riparazione, che in genere ammontavano ad un quarto del canone. A Ravello vengono censite solo cinque case palaziate, uniche testimoni dei fasti di una stirpe gentile che si erano poi dissolte nella generale decadenza delle periferie meridionali. Erano state edificate secondo i canoni della domus medievale ravellese, a più piani, con luoghi terranei, sale coperte a volta, accessibili attraverso un ambulacro e cucine. Queste ultime erano tradizionalmente poste nella zona superiore per consentire la dispersione dei fumi e degli odori ma potevano essere localizzate anche al pian terreno. Per quanto riguarda le abitazioni solo in alcuni casi si specifica la presenza di più stanze soprane o sottane. In genere, purtroppo, registriamo l’assenza di qualsiasi informazione in merito ai vani abitativi, a servizio non solo di famiglie formate da una coppia, con o senza figli, ma anche di famiglie estese ad altri membri del gruppo parentale. Questa circostanza però non deve indurci a credere che si potesse trattare di abitazioni di un solo vano, anche in considerazione del fatto che il fuoco poteva raggiungere un ragguardevole numero di componenti. Il cognome più diffuso è Manso, presente sull’intero territorio cittadino così come, in misura minore, Guerrasio, Coppola e Gambardella. Alcuni cognomi sono riconducibili a specifiche zone come di Palma, tra Costa e Torello, d’Amato, tra Pendolo e Torello mentre l’unico esponente della famiglia Cioffo, originario di Minori, viveva a San Martino. Numerosi sono i benefici ecclesiastici in capo a cappelle, chiese, congreghe ma anche a sacri edifici ormai diruti che tuttavia avevano conservato rendite e pesi. Piace addurre come esempio il beneficio della chiesa dedicata a Santa Maria delle Grazie e ai santi Gennaro e Michele nella località di Marmorata il cui beneficiato era il canonico tesoriere della cattedrale Don Lorenzo Risi. Eretta a spese del minorese Gennaro Manso e consacrata il 29 luglio 1751, come apprendiamo dall’atto notarile del Magnifico Notaro Luise D’Amato, la chiesa aveva una rendita costituita da una casa, oliveti e soscelleti con il peso di 25 carlini per le messe e 3 carlini per la visita del vescovo. Nel catasto sono elencati anche gli antichi diritti della mensa vescovile che a quei tempi fruttavano poco o nulla. L’episcopio possedeva lo jus della doganella, cioè il diritto su tutte le merci che si acquistavano e si vendevano, lo jus dello scannaggio, sul macello degli animali, lo jus fumatico sulle fornaci di calce della città che, stando ai dati, sarebbero a Sambuco, al Monte Brusara e a Lo Ietto nei pressi di Casa Rossa. Lo jus seu la decima sopra il pescato di Castiglione, dalla Marinella fino alle Fontanelle, rendeva poco e si era rivelato di difficile gestione alimentando una storia clamorosa di liti e scomuniche. C’è anche un riferimento al cattedratico, anticamente corrisposto al vescovo nel giorno della resurrezione e della nascita del Signore dal capitolo e dai parroci. Un tempo costituito da prosciutti a Pasqua e da capponi a Natale, veniva ricambiato con il “prandium de ipsis clericis”, offerto dal vescovo al capitolo e ai parroci della città il Giovedì Santo e nella solennità dell’Assunzione della Vergine Maria, titolare della cattedrale. Nel 1648, però, il capitolo aveva rinunciato al pranzo e da allora il cattedratico era stato pagato in denaro. Il catasto onciario di Ravello offre una serie di elementi utili alla ricostruzione del paesaggio e dell’urbanistica della Ravello settecentesca, riassunti in questa breve presentazione che potrà essere esplicitata in modo più analitico e integrata con le molteplici indicazioni di carattere socio-economico e demografico in esso contenute. Si tratta di una fonte preziosa da oggi accessibile ad un più vasto pubblico di studiosi e cultori della storia cittadina, con pagine inedite in cui ritrovare luoghi e persone dai nomi familiari e forse, non è da escludere, anche qualche frammento di storia personale.

Nella seconda parte del libro si trascrivono fedelmente le notizie essenziali con l’elenco delle famiglie numerate e riordinate per nome del capofamiglia, anziché per cognome, con la stessa impostazione di ordine delle rivele. Tutto è registrato e trascritto dai deputati e dagli apprezzatori incaricati alla redazione del Catasto: i nomi e cognomi di tutti i capifamiglia sono riportati in ordine alfabetico di nome…. Si contano tra i capifamiglia 68 bracciali, uno zappatore, 11 fabbricatori, un mastro fabbricatore e un manipolo, cioè operaio apprendista muratore, 10 bastasi, 8 marinari, 4 mastri d’ascia, 3 tessitori di tela, un lavorante di lana, un macellaro, 2 scarpari, 3 sartori, 4 carbonieri, un bottegaro, un coco, un apprezzatore, un estimatore, un panettiere e un lavorante di panettiere, 2 notari, un secatore, uno sportellaro, un serviente della Regia Corte, un servidore, 5 inabbili a fattighe, un privileggiato, tre stroppi, 2 mendicanti e 7 famiglie di Magnifici, delle quali solo alcune patrizie di Ravello o di Scala.
Alcuni esempi, per i bracciali o zappatori, sono il bracciale Angiolo Manso del quondam Gaetano di 65 anni che abita in casa del Signor Don Girolamo d’Afflitto pagandone carlini 10 d’affitto, Antonio d’Amato del quondam Giacomo di 63 anni che possiede la casa dove abita con orticello nel luogo detto le Lenze, Andrea di Palma di 60 anni che abita nel luogo di San Pietro alla Costa con orto di proprio uso, oppure il bracciale Pantaleone Palumbo di 50 che abita nel luogo detto Casa Coppola con la moglie Maria d’Amato di 48 anni ed i figli. Ci sono casi di bracciali inabbili a fattighe, ovvero che non possono più esercitare il proprio mestiere per l’avanzata età o problemi fisici, come ad esempio Carmine Manso del quondam Sebastiano di 66 anni, Giovanni d’Amato del quondam Antonio di 65 anni, Matteo Fraulo di 62 anni e Nicola Coppola del quondam Domenico di 74 anni. Un bracciale è convalescente ed inabbile, ed è Nicola Buonocore di 70 anni, che possiede la casa dove abita dove dicesi Casa Coppola con orto di proprio uso, e vive con la moglie Catarina Manso di 64 anni.

Categoria imprenditoriale è quella dei fabbricatori, mestiere esercitato dalle famiglie d’Amato, Guerrasio, Manso, Coppola, Infante, Prota e d’Auria. Fra queste, risultano più attive in questo settore le famiglie Guerrasio, rappresentata dai fabbricatori Aniello di 66 anni, Tommaso di 68 anni e Pietro Guerrasio manipolo di 26 anni, i Coppola con Leonardo di 54 anni, Trifone di 26 anni e Tommaso di 77 anni, ed i Manso, questi ultimi con i capifamiglia Francesco di 80 anni, l’unico ad avere il titolo di Mastro fabbricatore, Andrea quondam Gaetano di 66 anni e Gennaro quondam Gaetano di 60 anni.
Anche i Mastri d’ascia si distinguono nel cuore del commercio ravellese della metà del XVIII secolo, con esempi di facoltosi imprenditori come il Mastro d’ascia Domenico Guerrasio di 71 anni che vive nella propria casa nel luogo di Sant’Agostino, il cui figlio Angiol’Antonio di 43 anni, anch’egli Mastro d’ascia, è sposato con Costanza d’Amato sorella del Magnifico Francesc’Antonio d’Amato che vive del suo per le proprietà lasciate da uno zio prete Manso e per i numerosi prestiti con percentuale d’interesse che concede ai suoi concittadini, come è d’uso in quest’epoca. Altro intreccio tra queste due famiglie si ha con il matrimonio del fratello di Francesc’Antonio, Vincenzo d’Amato vivente del suo di 33 anni, con Angiola Guerrasio di 28 anni figlia del predetto facoltoso Mastro d’Ascia Angel’Antonio Guerrasio.

Un Mastro d’ascia è inabbile, ossia Carmine Manso del quondam Andrea di 72 anni che possiede la casa dove abita con piccolo orto di proprio uso nel luogo di San Trifone, ma la sua attività è esercitata dal figlio Francesco Mastro d’ascia di 44 anni casato con Maddalena Manso di 46 anni e a sua volta padre del ventiquattrenne Andrea Manso, che è garzone presso la bottega di suo padre.
Tra i mastri troviamo anche i sartori, come i capifamiglia Giovanni Guerrasio di 65 anni che abita con la sua famiglia nella casa padrimoniale del fratello parroco nel luogo del Lacco, e Matteo Pisani – o Pisano – di 31 anni, mentre Francesco Guerrasio di 62 anni è solo sartore, oppure il mastro scarparo inabbile Pietro Conte di 86 anni, la cui attività è svolta pure dal semplice scarparo – senza ancora il titolo di Mastro – Trifone Manso di 66 anni.

Un’altra categoria presente a Ravello sono i marinari, coloro che ogni mattina scendono dalla città per recarsi sulle spiagge e guadagnarsi la giornata, come fanno i bastasi, i facchini addetti al trasporto delle merci a mano o aiutati da carrettini di legno. Gli otto capifamiglia marinari sono: Bernardo Lamberti di 64 anni che abita nel luogo di Torello, Crescenzo Manso del quondam Cosimo di 45 anni che possiede la casa dove abita nel luogo detto Casa Fraulo, Cristofaro Mosca di 50 anni del luogo detto Torello, Domenic’Antonio d’Amato di 40 anni che vive con la sua famiglia nel luogo detto Casa Pepe, Giacomo Aniello Fraulo di 65 anni, anch’egli abitante del luogo di Torello insieme ai fratelli Francesco Fraulo e Bernardo Fraulo, anch’essi marinari, il marinaro inabbile Giovanni Fraulo del quondam Giuseppe di 70 anni che possiede la casa dove abita ove dicesi Casa Mola, il marinaro Matteo Prota del quondam Carmine di 60 anni che vive nel luogo detto Sotto San Cataldo e Mattia Palumbo di 42 anni che abita ove dicesi Portadonica. Degli undici capifamiglia bastasi menzioniamo: Giovanni Battista Garofalo del quondam Pietro di 28 anni, Giovanni Pepe di 52 anni, Lorenzo Manso del quondam Bartolomeo di 70 anni, Nicola Battimelli di 65 anni ed i bastasi inabbili Carmine Manso del quondam Gaetano di 65 anni e Pietro Manso del quondam Gaetano di 72 anni.
A favorire il lavoro dei marinari e dei bastasi vi è lo sportellaro, unico a Ravello, Domenico Falcone di 40 anni che abita ove dicesi Casa Marciano: il suo compito è quello di produrre le sportelle, ossia i contenitori o cassette in legno per il trasporto delle merci. Della vendita si occupa, oltre ai marinari stessi che cedono la merce al minuto, il bottegaro Giuseppe Carrano di 63 anni possiede la casa dove abita nel luogo della Piazza Publica.

Altri commercianti sono il macellaro Gennaro Coppola di 55 anni che abita ove dicesi Casa di Lieto, vicino San Trifone, il panettiere Giuseppe Pisani – o Pisano – di 53 anni che esercita il suo mestiere con il figlio Melchiorre di 18 anni, ed il lavorante panettiere Tommaso Pisano di 31 anni coadiuvato dal fratello Saverio di 27 anni.
Alla categoria degli artigiani, oltre ai già citati Mastri d’ascia, sono ascrivibili il lavoratore di lana Francesco Fraulo di 65 anni che abita dove dicesi Casa Fraulo, i tessitori di tela Giuseppe Mosca di 66 anni, Gaspare Trotta di 28 anni e Pantaleone Sammarco di 38 anni, il secatore inabbile Giuseppe di Somma A.G.P. di 75 anni ed i carbonieri Andrea Coppola di 30 anni, Giuseppe Russo di 46 anni, Matteo Conte di 65 anni e Sabbato d’Agostino di 58 anni.

Vivono agiatamente i due notari della città, i Magnifici Liborio Imparato e Luise d’Amato, nonché i Magnifici Domenico Savo di 32 anni vivente del suo, il già citato Francesc’Antonio d’Amato, l’inabbile a fattighe Matteo d’Amato, Nicola Pisacane di 45 anni vivente del suo ed i nobili Don Girolamo d’Afflitto Patrizio della Città di Ravello di 40 anni, Don Matteo d’Afflitto Patrizio della città di Scala di 60 anni, Don Paolo Confalone Patrizio di Ravello di 53 anni e Don Domenico Sasso Patrizio di Scala, nonché la famiglia di Fusco rappresentata dalla vedova Magnifica Donna Isabella Sasso del Verme vedova del fu Don Pietro di Fusco Padrizio di questa Città di Ravello di 34 anni, gli unici, questi con titolo di nobiltà, a risiedere in case palaziate e possedere doviziosi beni di fortuna, tra immobili e censi.

Tutte le altre famiglie patrizie ravellesi, come i Frezza, i Cassitto, i Rufolo, i Della Marra, i Muscettola, i Grisone, i Giusto, i Bovio, i Castaldo, i Grisone, i De Curtis, Longo, gli Appendicario ed altre sembrano essersi trasferite altrove, principalmente a Napoli, la capitale del Regno, per vivere nell’agiatezza della nobiltà partenopea. Di queste resta menzione di qualche componente della famiglia Acconciajoco, caduta in disgrazia, come il bracciale Michele Acconciajoco di 45 anni che possiede la casa dove abita nel luogo di Torello.
Molti ravellesi lavorano per queste famiglie benestanti in qualità di servitori, come Nicola Sanso di 61 anni servidore di casa Confalone insieme a Luca Guido di 37 anni e alle serve Rosa Coppola di 40 anni, Rosa Porpora di 55 anni, Mari’Anna Polverino di 20 anni e Catarina Manso di Scala di 56 anni; il coco (cuoco) Agostino Prota che serve la casa di Don Girolamo d’Afflitto con la servitù costituita da Alessandro Fratejanni di Montagnano cameriero di 28 anni, Giovanna Iavarini di Massa moglie di Fratejanni cameriera di 50 anni, Gaetano Prota figlio di Agostino volante di 12 anni, Melchiorre Criscuolo servidore di 30 anni, Angiola Amodio di Scala serva di 55 anni e Maria Coppola nutrice di 30 anni; i servitori di Don Matteo d’Afflitto, Silvio Mussallo milanese servitore di 25 anni, Isabella Fraulo serva di 36 anni e Maddalena Palumbo serva di 50 anni; ed i servi della Magnifica Donna Isabella Sasso del Verme vedova di Fusco, Carmine Berardino di Gragnano servidore di 30 anni e Catarina Polverino serva di 50 anni.
Tra coloro che lavorano per l’Università di Ravello vi sono il serviente della Regia Corte Francesco Mosca di 62 anni che possiede la casa dove abita nel luogo detto Belvedere e l’estimatore Giuseppe Gambardella del quondam Vincenzo, settantacinquenne.

Vi sono poi gli inabbili a fattighe, ovvero coloro che per problemi fisici o per avanzata età non riescono ad esercitare più alcun mestiere, come ad esempio l’inabbile a fattighe Aniello Fraulo di 68 anni che abita nel luogo di San Giovanni alla Costa, l’inabbile Domenico Manso del quondam Trifone di 70 anni che possiede la casa dove abita dove dicesi Casa Marciano, lo stroppio d’un braccio, zoppo ed ernioso Angiol’Antonio d’Auria di 64 anni abitante nel luogo di Santa Croce a Carpeno, il sordo inabbile a fattighe Francesco Manso del quondam Trifone di 62 anni, lo stroppio Benedetto Manso del quondam Giuseppe di 22 anni che vive nella casa del Reverendo Don Giuseppe Imparato per carità, nonché coloro che erano costretti addirittura a mendicare per sopravvivere come lo stroppio mendicante Pantaleone Fraulo del quondam Silvestro di 25 anni che abita in casa seu in un bascio del Magnifico Notar Luise d’Amato nel luogo del Torello per carità ed il mendicante Sabbato lo Priore di 63 anni.

Numerosi sono i sacerdoti di Ravello: Alessio Manso diacono, Antonio Conte, Angiolo Antonio Manso, Carmine Sammarco, Cesare Manso, Diego d’Afflitto arcidiacono, Fortunato Pisacane, Francesco Manso, Francesco d’Afflitto arciprete, Giuseppe Giordano, Giuseppe Imperato del quondam Francesco, Giovanni Manso del quondam Carmine, Giovanni Manso del quondam Stefano, Gaetano Coppola, Gaetano d’Amato, Gennaro d’Amato, Lorenzo Prota, Lorenzo Risi, Lorenzo Manso, Mattia Prota, Marc’Antonio Guerrasio del quondam Andrea, Nicola Pisano, Orlando Manduca, Onofrio d’Amato, Rosario Manso e Sabbato di Lieto.

Una sola vergine in capillis vive da sola, ed è Anna Pepe figlia del quondam Pietro Pepe di 40 anni, mentre le famiglie vedove sono 16.

Un solo privileggiato napoletano vive a Ravello, il Privileggiato Napoletano bracciale Domenico Manso del quondam Nicola di 77 anni, che possiede la casa dove abita nel luogo detto Torello.

Altre categorie di cittadini sono i clerici, come Giuseppe Prota di 21 anni figlio del cuoco Agostino, Saverio d’Amato di 22 anni figlio del Notar Luise, Dionisio d’Amato di 29 anni figlio di Matteo d’Amato ed il nobile Giuseppe di Fusco di 10 anni figlio della vedova Magnifica Donna Isabella Sasso del Verme.
Vi sono poi altre categorie di cittadini, citate nei vari nuclei familiari: bizoche come Chiara d’Amato di 39 anni figlia del bracciale Aniello del quondam Onofrio, bambini e bambine in fasce o in fascia, giovani applicati allo studio o applicati alla scuola come Andrea Fraulo di 12 anni o Andrea Manso di 12 anni, garzoni come Andrea e Cosimo Manso annoverati nella famiglia del Mastro d’Ascia Carmine Manso, uno scemo, un applicato all’uffizio di Notaro che è Paolo di 20 anni figlio di Notar Luise d’Amato, il lavorante di scarpe Carmine Conte figlio dello scarparo Pietro, ed un cartaro che risponde al nome di Lorenzo Coppola di 24 anni figlio del fabbricatore Trifone.

Nel Catasto Onciario sono annoverati, infine, sette forastieri abitanti lajci con le rispettive provenienze, che rispondono ai nomi di: Aniello di Guido della Città di Vico Equense di 54, Andrea Cioffo della Città di Minori di 35 anni, Benedetto Oliva della Città di Scala di 40, Domenico Rella della Città di Nocera de’ Pagani di 44 anni, Magnifico Domenico Sasso Padrizio della Città di Scala di 66 anni, Giuseppe Guidone della Città di Vico Equense di 64 anni, Giovanni Manso del quondam Ambrogio della Città di Scala di 40 anni, Gaspare Pirozzi della Città di Nocera de’ Pagani di 25 anni, Michele Buonocore della Città di Vico Equense di 37 anni, Nicola Schiavo della Terra di Tramonti di 35 anni, Nicola Vitolo della Città di Nocera de’ Pagani di 42 anni, Paolo Imparato della Città di Scala di 66 anni e Salvadore Imparato della Città di Scala di 48 anni. …

Continua
11. COMUNE DI SAN CIPRIANO PICENTINO NEL 1756 (SA)

11. COMUNE DI SAN CIPRIANO PICENTINO NEL 1756 (SA)

Le famiglie del paese che nel 1700 era inserito nella provincia del Principato Citra.

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La Storia ha sempre bisogno di fonti, soprattutto quando intendiamo scrivere su vicende “locali” e “particolari”. I Catasti sono straordinari per questo: miniere di informazioni di “prima mano” che ci guidano alla scoperta delle Comunità, dell’anagrafe storica, delle antiche professioni. Un mondo che si rileva ai nostri occhi moderni e contemporanei!
Leggere il Catasto onciario voluto da Carlo III di Borbone anche per le Universitas civium di San Cipriano, Vignale, Filetta e Pezzano tra il 1754 ed il 1756 è come entrare nei fuochi, in ciascuna famiglia, spesso capostipite di quelle ancora esistenti sul Territorio. All’epoca, infatti, l’attuale Comune di San Cipriano Picentino (come tale solo dal 1862) era diviso in quattro nuclei abitativi ai quali, in epoca recente, si è aggiunto quello dell’antica località Campigliano, oggi frazione più a valle, che segna il confine meridionale del Comune, a ridosso delle città di Salerno e Pontecagnano. Le primissime testimonianze insediative, invece, risalgono all’epoca imperiale quando, nel cuore dell’attuale centro storico, un ricco latifondista romano costruì la sua villa rustica, divenuta centro produttivo di olio e vino, ben inserita nel paesaggio antropizzato dell’entroterra salernitano di quel periodo. Introno alla villa e, una volta caduta in disuso su quello che ne rimase, sorse il primo nucleo abitato detto San Cipriano, dal nome del Vescovo e martire cartaginese. Successivamente, con lo stanziamento di famiglie provenienti da luoghi diversi dell’antico Principato di Salerno e poi del Regno di Napoli, cominciarono a svilupparsi i restanti casali, trasformati in epoca baronale (sec. XV) in Universitas, con una specifica fisionomia sociale ed economica.
L’ardua trascrizione dei Catasti di San Cipriano Picentino operata da Fabio Paolucci ci consente di ammirare la nitida composizione sociale della nostra Comunità, fotografata come un’istantanea, negli anni cinquanta del Settecento, come ebbe modo di vederla il poeta Jacopo Sannazaro e, successivamente, anche Benedetto Croce. Ci offre, inoltre, uno strumento per selezionare dati, approfondire conoscenze già consolidate nella storiografia locale e, soprattutto, allarga il campo della conoscenza sulla storia di comunità. Con la sua ‘fatica’ un’importante fonte di studio e di ricerca potrà essere letta da tutti, in maniera più agevole e sicuramente in modo più comprensibile. Un lavoro che aiuta soprattutto le nuove generazioni a relazionarsi con la Storia, con i documenti, per appropriasi di un passato, certo e sicuro, che li renda solidi per il futuro.

Gennaro Aievoli

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